La vita dei meridionali non conta
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La vita dei meridionali non conta

La tragica fine di Filippo Ceravolo, calabrese, non ha scosso nessuno. Nei grandi giornali o telegiornali, ma non solo. Ma se fosse morto a Milano....

La vita dei meridionali non conta
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31 Ottobre 2012 - 18.33


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di Nicola Mirenzi

Quella vedete è la solo foto disponibile on line di un morto ammazzato. Ma in Calabria.

Le vite non hanno ovunque lo stesso valore. C’è la vita di chi muore ammazzato nel centro di Milano e vale la prima pagina dei giornali, i romanzi criminali e lo spavento delle borghesie illuminate. E c’è la vita di Filippo Ceravolo, un innocente di diciannove anni ucciso la notte di giovedì in provincia di Vibo Valentia in un agguato in odore di ‘ndrangheta, di cui i telegiornali nazionali non hanno dato nemmeno notizia.

I pesi e le misure cambiano a secondo della geografia, in questo paese spaccato nei sentimenti, dove si riesce a rimanere indifferenti all’omicidio di un ragazzo neanche ventenne solo perché lo si ammazza per sbaglio in quello sprofondo del Sud che è la Calabria.

Il fatto è che giovedì sera Filippo si era fatto dare un passaggio in macchina da Domenico Tassone, ventisette anni, dopo che i due avevano passato la serata con le rispettive ragazze. Sulla strada per casa qualcuno stava aspettando che quella Fiat Punto passasse. E appena l’ha vista arrivare ha sparato (gli inquirenti sospettano che l’obiettivo dell’agguato fosse Tassone). Filippo, che era seduto sul lato passeggeri, viene colpito alla testa. Morirà qualche ora dopo all’ospedale. L’altro ragazzo rimane illeso.

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Si finisce anche così in Calabria: a diciannove anni, senza aver fatto male a nessuno, nell’indifferenza nazionale. Per i giornali, la politica e il ministro degli interni la vita di Filippo vale meno di quella di un morto ammazzato in Lombardia, perché Filippo è nato e vissuto in una provincia marchiata con la denominazione di origine incontrollata, quella della ‘ndrangheta: una maledizione che ti segue dalla culla sino alla tomba e ti rende associato sino a prova contraria.

Quando sulle agenzie arriva la notizia di un ventenne ammazzato laggiù, la si butta immediatamente nel cestino. Se l’hanno ucciso, ci sarà un perché, pensano gli scienziati dell’indignazione assistita. La presunzione di innocenza è morta da Napoli in giù. Perché nel senso comune italiano, la ‘ndrangheta(come la camorra per i campani o Cosa nostra per i siciliani) ha smesso di essere una associazione mafiosa ed è diventata una sorta di stampo antropologico dei calabresi, il loro Dna, come se fossero tutti capobastone. Quando viene ammazzato qualcuno a Sud della linea di rispettabilità l’istinto è quello di dire: «Uno in meno».

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Ma si da il caso che Filippo fosse una ragazzo per bene, che lavorava sodo come venditore ambulante (la mattina dopo che l’hanno ucciso sarebbe dovuto andare a fare mercato). Una persona lontana mille miglia dai giri criminali, come è lontana dai traffici loschi la maggior parte delle persone che vivono in questa regione. A Soriano Calabro, il paese da dove veniva Filippo, lo stanno piangendo come si piange un fratello, dannandosi come ci si danna per un’ingiustizia elevata al cubo. Se al resto dell’Italia non viene il vomito per questo dolore – per pigrizia o comodità – significa che ha scelto di coltivare «la disperazione più grande di una società». Che, come scriveva Corrado Alvaro, «è il dubbio che vivere onestamente sia inutile».

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