L'inferno pronto soccorso raccontato da una barella
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L'inferno pronto soccorso raccontato da una barella

Cronaca di un malore: ora tutti si sono accorti che la sanità pubblica sta andando a rotoli ma tutti si sono già dimenticati di chi ha causato tutto questo.

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22 Febbraio 2012 - 23.16


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di Marco Fiorletta

Un mese fa, di notte, sono dovuto andare al pronto soccorso con l’ambulanza per una cosa che poi si è rivelata un falso allarme. Sono saliti in casa due gentili e solerti infermieri, ma con loro non avevano nemmeno, tanto per dire, un defibrillatore. Non potevano far altro che portarmi in ospedale, senza sirena perché non c’era traffico. Entro subito, con le mie gambe, nell’ambulatorio di pronto soccorso, elettrocardiogramma, analisi del sangue, pressione e poi fermo sul lettino. Dopo un po’ raggi e di nuovo sul lettino. La sala d’aspetto intanto si va riempendo, non tanto rispetto a quello che mi hanno raccontato. Ad un certo punto il dottore mi fa spostare in un corridoio perché l’ambulatorio serve per altre visite. Non stiamo parlando di “piazzette”, ma di un vero e proprio corridoio dove c’erano barelle in doppia fila di cui diverse occupate. Essendo di mio riservato e poco loquace, ho evitato di chiedere e anche di guardare.

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Così a memoria mi ricordo almeno quattro degenti in barella sdraiati ed evidentemente malati più di me. Di sicuro so che verso le sei di mattina almeno uno è stato ricoverato in reparto. Nel corso della notte ho capito che ce ne erano altri seduti sulle sedie dove mi ero spostato perché non mi sentivo e non ero in condizioni da dover stare sdraiato sulla lettiga e preferivo parlare con la santa donna che divide anche i miei acciacchi. Per farla breve, ho dovuto attendere le canoniche sei ore prima che mi liberassero dopo la seconda tornata di analisi. Fatto il prelievo chiedo all’infermiera se potevo andare a fare colazione, mi guarda stupita e mi chiede, apprensiva, se mi avevano dato la colazione. Alla mia risposta negativa si offre di darmi un tè che gentilmente rifiuto e torno in corridoio dove mi aspetta mia moglie con una mezza ciambellona fritta, evitate commenti sull’opportunità ciambellare. Nell’attesa ho anche scoperto che dal corridoio si accedeva ad una camerata, questa sì, piena di degenti, ma che non mi sembrava proprio un reparto, forse era la “piazzetta” dell’ospedale dove mi trovavo. Arriva il responso del prelievo e sono di nuovo libero e sano, almeno per il momento.

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Perché ho raccontato questa esperienza? Semplice, ora tutti si sono accorti che la sanità pubblica nel Lazio sta andando a rotoli ma tutti si sono già dimenticati quanti ospedali e relativi pronto soccorso sono stati chiusi, si sono dimenticati delle proteste dei cittadini, delle segnalazioni preventive dei guasti che si sarebbero creati, dell’assurdità di procedere ad un piano di ristrutturazione senza essere in grado di prevedere quello che ora si sta verificando. Sarebbe fin troppo facile, perlomeno per me, citare cose già scritte a suo tempo, ed è sin troppo facile dire che, almeno io, ve l’avevo detto.

L’esimia presidente della regione Lazio ha dichiarato che dei dottori ci si può fidare, ed è vero, è di lei che non ci fidiamo, e nemmeno di quelli che l’hanno preceduta (leggi Marrazzo) e che hanno iniziato il piano di smantellamento della rete ospedaliera regionale.

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