Spese militari, la lobby delle armi più forte della crisi di Governo
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Spese militari, la lobby delle armi più forte della crisi di Governo

Cinque programmi (scudo antimissile, armamento droni Predator, elicotteri Carabinieri, sistemi di ricognizione aerea, razzi anticarro) per una spesa di quasi un miliardo presentati al Parlamento il 26 luglio e approvati all’unanimità 

Spese militari, la lobby delle armi più forte della crisi di Governo
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8 Settembre 2022 - 18.23


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Potenza della lobby delle armi: riesce a ottenere ciò che vuole anche durante una crisi di Governo.

A darne conto su Milex, l’Osservatorio sulle spese militari italiane, è Enrico Piovesana.

Scrive Piovesana: “Le spese militari, in particolare i fondi destinati all’acquisizione di nuovi sistemi d’arma, non subiscono battuta d’arresto con la crisi di Governo: dallo scioglimento delle Camere (avvenuto lo scorso 21 luglio) il Ministro della Difesa Guerini ha sottoposto all’esame del Parlamento oltre venti programmi di riarmo per un investimento totale pluriennale per le prime fasi confermate che supera i 12,5 miliardi di euro. L’onere complessivo delle successive fasi dei programmi, già prefigurate ma non ancora sottoposte a voto, potrebbe superare i 22 miliardi di euro nel corso degli anni di vita dei vari progetti. Queste decisioni, che impegnano fondi su futuri vari Bilanci dello Stato, sono proposte e discusse con un Esecutivo che dovrebbe solo garantire il “disbrigo degli affari correnti”, in attesa di nuove elezioni.

Cinque programmi (scudo antimissile, armamento droni Predator, elicotteri Carabinieri, sistemi di ricognizione aerea, razzi anticarro) per una spesa complessiva pluriennale di quasi un miliardo sono stati presentati al Parlamento il 26 luglio e approvati velocemente (ed all’unanimità) dalle Commissioni Difesa di Senato e Camera rispettivamente il 2 e 3 agosto.

Altri sei programmi (nuovi pattugliatori e cacciamine della Marina, ammodernamento degli elicotteri per la Marina, missili antiaerei, ammodernamento di cacciatorpedinieri per la Marina e carri armati per l’Esercito) per una spesa complessiva pluriennale di oltre 6 miliardi sono stati presentati dal Ministero tra il 3 e il 10 agosto e calendarizzati per l’esame in commissione Difesa della Camera a partire dall’8 settembre.

Ulteriori dieci programmi (elicotteri d’addestramento, gestione droni, navi anfibie per la Marina, radiotrasmissioni, satelliti spia, bazooka, un sistema di piattaforma stratosferica, droni di sorveglianza, potenziamento di capacità per brigata tattica, nuovi carri armati leggeri) per una spesa totale pluriennale di oltre 5,5 miliardi sono infine stati inviati al Parlamento dal Ministro Guerini il 1 settembre, solo pochi giorni fa. Non è chiaro se le competenti Commissioni parlamentari arriveranno a calendarizzare i pareri (obbligatori) su questi atti del Governo nei pochi giorni di vita ancora rimanenti della XVIII Legislatura.

Alla serie di richieste per nuovi sistemi d’arma concretizzate dopo lo scioglimento delle Camere si deve aggiungere anche quella per l’ammodernamento e rinnovamento di un sistema satellitare SICRAL3 presentata solo qualche giorno prima (11 luglio) per un controvalore di 345 milioni di euro. Nel corso del 2022 sono poi stati votati, sempre all’unanimità, pareri positivi per programmi d’armamento “targati” 2021 ma discussi nell’anno successivo per un controvalore totale approvato di quasi 4 miliardi di euro (per batterie missilistiche, navi cacciatorpediniere, blindati, blindati anfibi, carri armati,…) e un onere complessivo di circa 7,3 miliardi di euro”.

Fin qui Piovesana.

Effetto Ucraina

Ne scrive su Repubblica Floriana Bulfon: “L’effetto dell’invasione dell’Ucraina arriva nel budget della Difesa: l’Italia quest’anno spenderà un miliardo e duecento milioni in più per le Forze armate. Il governo Draghi lancia una serie di programmi per acquistare gli armamenti che si sono rivelati fondamentali sul campo di battaglia: dai sistemi per intercettare i missili balistici a quelli per abbattere i droni, dai cingolati da combattimento alle scorte strategiche di munizioni. Il Documento programmatico triennale firmato dal ministro Lorenzo Gueriniporta la spesa per il 2022 a 18 miliardi, contro i 16,8 dello scorso anno.

Il futuro caccia Tempest

L’incremento finisce tutto nel procurement, ossia i nuovi strumenti bellici, con 5,42 miliardi: si tratta del 34% in più rispetto al 2021. In compenso c’è una lieve diminuzione dei fondi messi a disposizione dal ministero dell’Economia che finanzia alcuni progetti industriali militari. Complessivamente, tra Difesa, Mef e costi delle missioni internazionali quest’anno si arriverà a 21 miliardi e mezzo.

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La lista della spesa vede imporsi il futuro caccia Tempest, realizzato con la Gran Bretagna e la Svezia: un velivolo chiamato di sesta generazione a cui vengono destinati subito 200 milioni in più. C’è poi il piano per una serie di veicoli corazzati che vede crescere la dote di oltre un miliardo e mezzo: si prevede un investimento di 3,74 miliardi in tredici anni. Questo programma è presentato in chiave di collaborazione europea e influenzerà le trattative per la vendita di Oto Melara: nel Documento si specifica che le risorse serviranno pure per gli studi del nuovo “carro armato europeo”. Un altro elemento chiave è la task force navale per gli interventi dei “marines” italiani: la brigata San Marco della Marina e i Lagunari dell’Esercito. C’è uno stanziamento di 1.200 milioni per costruire due navi anfibie per le operazioni di sbarco. Le altre voci più rilevanti riguardano le quote annuali per i sottomarini U-212 (510 milioni), gli intercettori Eurofighter (1,4 miliardi) e i caccia invisibili F35 (1.270 milioni).

Le nuove armi per l’Ucraina

Ai piani già messi in cantiere negli scorsi anni si aggiungono le priorità dettate dal conflitto in Ucraina, che mettono in luce l’esigenza di modernizzare le forze pesanti come i carri armati, i mezzi cingolati e l’artiglieria: in attesa di trovare fondi per sostituirli, si vuole aggiornare quelli risalenti alla Guerra Fredda come i tank Ariete, i blindati Dardo e i vecchi M113. Uno dei punti salienti è la creazione di “riserve strategiche” di munizioni per la prospettiva di battaglie come quelle del Donbass che richiedono migliaia di colpi ogni giorno: si conta di comprare entro il 2032 proiettili per oltre 2,5 miliardi. Una novità sono le “loitering munition”, i droni kamikaze, acquistati in piccola quantità per le forze speciali. Nelle 256 pagine del Documento si elenca anche una lunga lista di strumenti che vengono ritenuti necessari dagli Stati maggiori ma non sono coperti da finanziamenti.

Questioni che dovrà affrontare il prossimo governo: nell’introduzione Guerini parla di «shock sistemico» causato dalla guerra che «modificherà radicalmente l’ordine mondiale e la sicurezza europea che abbiamo conosciuto finora». E ieri il ministro in un’audizione al Copasir ha dichiarato che presto verrà approvato il quarto decreto per l’invio di armi all’esercito di Kiev. Le forniture sono segrete ma si ipotizza che saranno ceduti altri fuoristrada blindati Lince, mitragliatrici e munizioni. Il nodo  – conclude Bulfono – restano le artiglierie: l’Italia ha già consegnato diversi cannoni da 155 millimetri, gli Ucraini però ne domandano di più e vorrebbero da Roma anche i lanciarazzi mobili MLRS già donati da Germania e Olanda”.

Un’analisi da incorniciare.

E’ quella di Luca Liverani. Che su Avvenire del 23 marzo scorso scrive: “All’armi! L’invasione russa dell’Ucraina sta scatenando – in Italia e in Europa – una mobilitazione politica verso un massiccio aumento delle spese militari. Contro l’aggressione dello zar Putin sembra improcrastinabile un’immediata corsa al riarmo, destinando alla spesa militare il 2% del Prodotto interno lordo. Rafforzare il deterrente bellico occidentale, insomma, per domare l’orso russo imperialista. È davvero insufficiente l’attuale spesa militare? O la crisi ucraina rischia di essere un provvidenziale alibi per rilanciare – ammesso che ce ne sia mai stato bisogno – il comparto dell’industria bellica?

La corsa al riarmo raccoglie consensi nell’Ue. La Germania ha annunciato il raddoppio della spesa: da 52,8 miliardi di dollari (Sipri, dati 2020) a 100. Lo stesso farà Parigi, che spende poco meno di Berlino. Anche in Italia il 16 marzo la Camera ha approvato un ordine del giorno, collegato al Decreto Ucraina e proposto dalla Lega, con i voti di quasi tutta la maggioranza più Fdi (391 sì e 19 no), che impegna il Governo ad un incremento delle spese per la Difesa verso il 2% del Pil. Contrari solo i gruppi di Sinistra italiana e di Alternativa, i fuoriusciti dal M5s. 

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Quanto peserebbe sui conti pubblici? Per Milex, l’Osservatorio sulle spese militari italiane, si passerebbe dagli attuali 25,8 miliardi di euro l’anno ad almeno 38, cioè 12 in più. Per avere un paragone, si può citare la Sanità: nel 2019, nell’era ante-Covid, la spesa sanitaria era di 115 miliardi, quest’anno è passata a 123, circa il 7% in più. Quello auspicato per la Difesa sarebbe del 47%. L’indicazione di un obiettivo di spesa Nato – il 2% del Pil appunto – compare in un accordo informale del 2006 sottoscritto dai ministri della Difesa, rilanciato nel 2014 al vertice dei Capi di Stato in Galles, con un traguardo al 2024. Indicazioni comunque mai ratificate dal Parlamento italiano e dunque non vincolanti. 

L’indicazione del 2% ricorda inevitabilmente un altro obiettivo, quello dello 0,7% del Pil da destinarsi all’aiuto pubblico allo sviluppo per la cooperazione internazionale. Un traguardo concordato nel 1970 in una risoluzione Onu, rimasto lettera morta, o quasi, per molti Paesi. L’Italia, a più di mezzo secolo da quell’ammirevole impegno, è allo 0,22. 

Confronti a parte, vale la pena di vedere quanto spende effettivamente la Nato, e in particolare l’Europa, rispetto alla Russia. È ancora il Sipri, l’autorevole istituto di studi sulla pace di Stoccolma, che per il 2020 (ultimi dati disponibili) ha quantificato  la spesa militare mondiale in 1.981 miliardi di dollari. Aprono la classifica gli Stati Uniti (778), seguono la Cina (252), India (72,9), Russia (61,7). Regno Unito, Germania e Francia oscillano tra i 59,2 e i 52,7. Undicesima l’Italia (28,9 miliardi di dollari), comunque tra i primi cinque d’Europa. Quello che ci interessa è il confronto tra Nato, e in particolare Unione Europea, e Russia.

L’Alleanza atlantica nel 2020 ha speso 1.103 miliardi di dollari in Difesa. Anche sottraendo l’enorme spesa di Washington (778 mld), i 27 paesi dell’Ue in un anno hanno investito la ragguardevole cifra di 232,8 miliardi di dollari. Quasi quattro volte la Federazione Russa. Ma c’è un altro elemento da sottolineare. La corsa al riarmo in realtà è già partita da tempo. Le spese militari dei paesi europei sono aumentate del 24,5% a partire dal 2016. Milex ci informa che anche l’Italia è passata da 21,5 miliardi nel 2019 a 25,8 quest’anno. «Un aumento dovuto soprattutto ai fondi per nuovi armamenti, balzati da 4,7 a 8,2 miliardi di euro», spiega Francesco Vignarca dell’Osservatorio. 

Dall’occupazione russa nel 2014 di Crimea e Donbass, la Nato in realtà aveva già aumentato considerevolmente il budget: «Dal 2015 a oggi la Nato – dice Vignarca – ha investito nelle forze armate nazionali 14 volte di più della Russia. E cioè, dal 2015 al 2020, ben 5.892 miliardi di dollari, contro i 414 russi». Anche limitandoci alla sola spesa dell’Unione europea (fino al 2019 Regno unito ante-Brexit compreso), al netto degli Usa siamo a un aumento di 1.510 miliardi contro 414. La Nato è dunque superiore per potenza militare a Russia e Cina messi assieme. Se per testate nucleari, missili, soldati e carrarmati i due blocchi sono alla pari, la Nato ha una forza navale superiore, ha tre volte aerei da combattimento e droni e quattro volte gli elicotteri di russi e cinesi. Non va dimenticato che, comunque vada a finire in Ucraina, l’esercito russo ne esce con pesanti danni. Senza contare i mezzi distrutti, su un tabloid online di Mosca è uscito un dato impressionante del ministero della Difesa russa (subito cancellato): sarebbero già 9.861 i soldati morti finora.

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La corsa al riarmo dunque è partita da tempo anche in Italia. A dicembre il ministro della Difesa Lorenzo Guerini aveva inviato alle Camere gli ultimi 5 di 23 decreti nel 2021 per autorizzazioni di spesa pluriennali pari a 12 miliardi: droni kamikaze, caccia, proiettili di precisione per cannoni, batterie antiaeree, sommergibili. Un ordine del giorno non è un atto vincolante, ma politicamente pesa. Il premier Mario Draghi a settembre 2021, dopo la ritirata americana dall’Afghanistan lo aveva già detto: «Ci dobbiamo dotare di una difesa più significativa: è chiarissimo che bisognerà spendere molto di più». Di fronte all’accelerazione chiesta dal Parlamento ora però frena: «La determinazione a portare al 2% le spese militari c’è – ha detto presentando il decreto Energia – quando e come farlo è tutto da discutere, ma anche su questo fronte la risposta non può che essere europea, perché gli investimenti sono impensabili se dovessero gravare solo sui bilanci nazionali». Draghi sa che 12 miliardi non saltano fuori dalle pieghe del bilancio. E ha concluso: «C’è un problema di coordinamento di tutta la filiera della difesa». 

Finora infatti la filosofia seguita dai paesi membri è quella dell’’ognun per sé’, con frequenti duplicazioni di progetti e costi. Lo spiega bene Raul Caruso, ordinario di Politica economica alla Cattolica di Milano, dove tiene il corso di Economia della pace: «Esemplare è il caso degli aerei da combattimento di ultima generazione. Francia, Germania e Spagna a giugno 2019 hanno firmato un accordo per un nuovo jet; Italia, Regno Unito e Paesi Bassi sono coinvolti nella costruzione dell’F-35 americano Lockheed Martin. La Svezia sviluppa ancora il Gripen, utilizzato anche da Repubblica Ceca, Ungheria e Croazia. Ma nel 2019 Italia e Regno Unito hanno firmato per lo sviluppo del Tempest, caccia di sesta generazione, cui poi si è aggiunta la Svezia». Una vera Difesa europea potrebbe paradossalmente costare meno, non di più.

E allora forse ha ragione chi dice che, ben prima di una Difesa europea, è indispensabile costruire una Politica estera europea, cedendo quote di sovranità come per l’economia e la finanza. E a dirlo non è un diplomatico: «Lo strumento militare europeo – ha dichiarato il generale Vincenzo Camporini del comitato direttivo dell’Istituto affari internazionali – ha senso solo se è al servizio di una politica estera comune, anche cominciando da un piccolo gruppo di Paesi. Ci vuole una politica estera che si muova su interessi comuni con la diplomazia, la politica, l’economia. E infine, dico infine, uno strumento militare comune». La corsa al 2% del Pil in armi, insomma, rischia di essere affrettata e soprattutto sbilanciata a scapito degli investimenti per salute, educazione, sviluppo sostenibile, cooperazione, tutte scelte che prevengono squilibri e conflitti. Una fretta che rischia di nascondere interessi settoriali meno nobili. 

Fanno riflettere allora le parole – dirette, puntuali, esplicite – che Papa Francesco ha pronunciato pochi giorni fa: «Quanto si spende per le armi, terribile! Non so quale percentuale del Pil, non mi viene la cifra esatta. Ma un’alta percentuale. E si spende per fare le guerre, non solo questa, gravissima, che sentiamo di più perché è più vicina, ma in Africa, Medioriente, Asia. A che serve impegnarci tutti insieme, solennemente, a livello internazionale contro la povertà, la fame, il degrado del pianeta, se poi ricadiamo nel vecchio vizio della guerra, nella vecchia strategia della potenza degli armamenti che riporta tutto e tutti indietro?”.

Non c’è niente da aggiungere. Ma tanto su cui riflettere. 

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