Nel Sahel mancano i vaccini ma non le armi. E cresce l'esercito degli sfollati
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Nel Sahel mancano i vaccini ma non le armi. E cresce l'esercito degli sfollati

Oscurata dai media, cancellata dall’agenda internazionale. Ma tragedia è. A darne conto è l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati.

Nel Sahel mancano i vaccini ma non le armi. E cresce l'esercito degli sfollati
Milizie nel Sahel
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

15 Gennaio 2022 - 14.53


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Sahel centrale, una tragedia dimenticata. Oscurata dai media, cancellata dall’agenda internazionale. Ma tragedia è. A darne conto è l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati.

In una nota ufficiale, l’Unhcr ha chiesto “ un’azione internazionale concertata per porre fine al conflitto armato nella regione del Sahel centrale, in Africa, che ha costretto più di 2,5 milioni di persone a fuggire dalle loro case negli ultimi dieci anni.

I movimenti forzati di popolazione all’interno della regione sono aumentati di dieci volte dal 2013, da 217.000 alla cifra impressionante di 2,1 milioni alla fine del 2021. I rifugiati nei paesi del Sahel centrale, Burkina Faso, Mali e Niger, sono ora 410.000; la maggior parte è fuggita dalle violenze in Mali, dove il conflitto è iniziato nel gennaio 2012.

Un’ondata di attacchi violenti in tutta la regione nel 2021 ha costretto alla fuga quasi 500.000 persone, ed in questo computo non è ancora incluso il mese di dicembre.

Secondo le stime dei partner di Unhcr, l’anno scorso i gruppi armati hanno compiuto più di 800 attacchi mortali. Tale violenza ha sradicato circa 450.000 persone all’interno dei loro paesi e ne ha costrette altre 36.000 a fuggire in un paese vicino.

Nel solo Burkina Faso, il numero totale di sfollati è salito a più di 1,5 milioni entro la fine del 2021. Sei sfollati su dieci nella regione del Sahel sono, ad oggi, burkinabé.

In Niger, il numero di sfollati nelle regioni di Tillabéri e Tahoua è aumentato del 53% negli ultimi 12 mesi. Nel vicino Mali, più di 400.000 persone sono sfollate all’interno del paese – un aumento del 30% rispetto all’anno precedente.

Nel frattempo, la situazione umanitaria in Burkina Faso, Mali e Niger si sta rapidamente deteriorando a causa di crisi che agiscono su più fronti. L’insicurezza è il fattore principale, peggiorato dalla povertà estrema, dalla pandemia di Covid-19 e dall’acuirsi degli effetti della crisi climatica, con le temperature nella regione che aumentano 1,5 volte più velocemente della media globale. Le donne e i bambini sono spesso i più colpiti e sproporzionatamente esposti all’estrema vulnerabilità e alla minaccia della violenza di genere.

Nonostante le loro scarse risorse, le comunità ospitanti hanno continuato a mostrare resilienza e solidarietà nell’accogliere le famiglie costrette alla fuga. Le autorità governative hanno dimostrato un impegno incrollabile nell’assisterle, ma stanno cedendo sotto una pressione crescente.

Per l’Unhcr – prosegue la nota – e i partner umanitari è sempre  più difficile raggiungere le persone bisognose e fornire loro assistenza e protezione salvavita. Gli operatori umanitari continuano a subire attacchi lungo le strade, imboscate e furti d’auto.

L’Unhcr invita la comunità internazionale a intraprendere un’azione coraggiosa e a non risparmiare sforzi nel sostenere i paesi del Sahel centrale al fine di portare urgentemente pace, stabilità e sviluppo nella regione…”.

Tragedia umanitaria

Sono 29 milioni le persone in bisogno di assistenza umanitaria nella regione del Sahel. I sei paesi che si affacciano sul deserto del Sahara sono di fronte ad una situazione di insicurezza “senza precedenti”, oltre ad una crisi alimentare imperante. L’avvertimento è giunto dalle Nazioni Unite e dalle ong presenti sul territorio.

In una dichiarazione del 27 aprile, i firmatari hanno affermato che ai numeri già impietosi dello scorso anno, si aggiungono altrecinque milioni di persone in Burkina Faso, Camerun settentrionale, Ciad, Mali, Niger e Nigeria nord-orientale.

 “Il conflitto nel Sahel si sta ampliando, divenendo più complesso e coinvolgendo sempre più attori armati”, le parole di Xavier Creach, coordinatore per il Sahel dell’Unhcr e vicedirettore per l’Africa occidentale e centrale. “I civili finiscono per pagare il prezzo più alto. Di fronte alle violenze, alle estorsioni o alle intimidazioni sono spesso costretti a fuggire lasciando la propria terra”.

La dichiarazione, firmata anche dalConsiglio norvegese per i rifugiati e dalla ong Plan international, afferma che circa 5,3 milioni di persone sono sfollate e necessitano di protezione. La violenza ha portato alla chiusura di migliaia di scuole in tutta la regione, mentre si prevede che circa 1,6 milioni di bambini soffriranno di malnutrizione acuta grave.

“Abbiamo visto la fame aumentare di quasi un terzo in Africa occidentale”, ha affermato Chris Nikoi, direttore regionale del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite.

I firmatari hanno chiesto maggiori finanziamenti per affrontare il deterioramento della situazione umanitaria. “Dietro i numeri e i dati, ci sono storie di sofferenza umana”, ha affermato Julie Belanger, direttrice regionale dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari. “Senza risorse sufficienti, la crisi si intensificherà ulteriormente, erodendo la resilienza delle comunità e mettendo a rischio altri milioni di bambini, donne e uomini”, ha concluso.

Tra miseria e jihadismo

Rimarca Raffaella Scuderi su Repubblica: “L’Africa del Sahel e della fascia subsahariana si sta facendo sempre più insicura. Il terrorismo indebolisce i governi, le forze di sicurezza governative sempre più fragili abusano della popolazione civile e i gruppi jihadisti si rafforzano e si espandono. È il quadro che emerge dall’ultimo rapporto di Verisk Maplecroft, società internazionale di ricerca strategica e analisi dei rischi, che ogni trimestre stila un indice di pericolosità a livello globale.


L’ultima relazione parla di Africa in caduta libera. Sette Paesi sui 10 più pericolosi del mondo sono nel continente, sotto il Sahara. A cui se ne aggiungono altri 9 che prima erano ritenuti sicuri. La percentuale di aumento del rischio terrorismo rispetto all’analisi del 2019, è del 13%. Burundi, Costa d’Avorio, Tanzania, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Kenya, Mozambico e Senegal, sono diventati più pericolosi dell’anno scorso. Solo Ruanda e Repubblica Centrafricana sono più sicuri”.

Radiografia dell’arcipelago jihadista

A fornirla, è un documentato report di Roberto Colella su ilfattoquotidiano.it: “In Africa restano saldi la Jamaat Nusrat al-Islam wal-Muslimin (Jnim) e soprattutto Al Shabaab. La prima incentrata sul Mali, che opera anche in Burkina Faso e Niger, istituita nel marzo 2017. Si tratta di una federazione di gruppi jihadisti filo-qaedisti guidata dal carismatico Iyad ag Ghaly. La seconda, Al-Shabaab – un affiliato di al-Qaeda in Somalia, specializzato soprattutto in attentati e rapimenti”. Quanto allo Stato islamico, annota Colella, 2 seppur privo di un leader carismatico, gode in Africa di una organizzazione meticolosa. Nel marzo 2015, il leader di Boko Haram, Abubakar Shekau, aveva prestato giuramento ad Abu Bakr al-Baghdadi e allo Stato Islamico. Da allora il nome Boko Haram scomparve, cedendo il posto all’Iswap oggi definito un protoesercito. Shekau fu poi rimpiazzato dalla testa dell’Iswap che scommise le sue carte su Abu Musab al-Barnawi, figlio del fondatore di Boko Haram, Mohammad Yusuf.  Shekau continua oggi ad operare vicino alla foresta di Sambisa con una fazione di 1.500 combattenti, sotto il nome internazionale di Boko Haram o con quello locale di Jama’at Ahl as-Sunnah lid-Da’wah wa’l-Jihad (Jas), ma è spesso citato come seconda branca dell’Iswap, avendo rigettato il decreto dell’Isis.

Il gruppo salafita-jihadista affiliato allo Stato islamico, Wilayat Sinai (Ws) è invece la principale minaccia alla sicurezza nazionale egiziana. Dal 2013, il gruppo ha compiuto quasi 2000 attentati, causando oltre un migliaio di vittime solo tra i militari. Infatti, il 1° maggio 2020 un attacco contro un convoglio dell’esercito avvenuto a Bir al-Abd, nel Sinai del Nord, ha ucciso 14 soldati. Varie fonti stimano gli affiliati africani all’organizzazione intorno ai 6.000 uomini. Due anni dopo, quel numero non è diminuito.

C’è poi l’Islamic State in Greater Sahara (Isgs)nato a metà del 2015, quando Adnan Abu Walid al-Sahraoui, dirigente degli Almoravidi qaedisti, ha prestato giuramento di fedeltà al (defunto) califfo Al Baghdadi Un atto sconfessato e rigettato dal capo degli Almoravidi che ha defenestrato Al-Sahraoui e mantenuto la linea qaedista. A quel punto Al-Sahraoui e altri almoravidi filo-Daesh hanno abiurato per formare lo Stato Islamico in Mali, poi denominato Isgs. Nell’ottobre 2017 l’Isis ha cominciato a integrare le azioni dell’Isgs nella sua propaganda. La forza dello Stato islamico nel Grande Sahara è di 425 jihadisti. Il tutto sotto la regia dell’Isis che rilancia l’idea del califfato in salsa africana”.

Mix esplosivo

Luca Raineri ricercatore presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, ha svolto diverse ricerche sul campo per lo più nel Sahel, in Mali, in Niger e nel Senegal. Questa la sua riflessione: “L’industria del traffico di esseri umani contribuisce all’aumento del reddito del Niger e alla stabilità del suo attuale Governo. Ad esempio, si dice che le società di autobus – che sono strettamente legate al contrabbando di esseri umani – appoggino l’attuale governo. Così, qualora quest’ultimo volesse interrompere tale traffico, queste persone – che sono molto potenti e rappresentano, forse, la fonte di economia più importante del Paese, indirizzerebbero altrove il loro sostegno, il che comprometterebbe la stabilità del regime. Inoltre, coloro che guidano le auto, i pullman e i furgoni con a bordo i migranti attraverso la città di Agadez,alle porte del Sahara, sono spesso anche le stesse persone che alcuni anni prima prendevano parte a insurrezioni e rivolte. Pertanto, si capisce come il Governo non abbia intenzione di lasciare questi individui senza lavoro, nonostante non svolgano la loro attività in modo legale. Il terzo elemento – prosegue Raineri – che vale la pena sottolineare è che anche l’esercito, approfittando dell’industria del traffico umano, sta facendo tanti soldi. Un esempio di questo fiorente mercato è dato dall’applicazione di una tassa che viene fatta pagare a tutti coloro che passano sulle principali rotte di contrabbando nel Paese. Il Niger, in realtà, è una nazione in cui hanno avuto luogo diversi colpi di Stato, cinque o forse di più, e tutti hanno provocato il rovesciamento dei precedenti regimi. Da questo si può capire quanto sia fondamentale la stabilità dei poterial fine di assicurare la tranquillità del sistema di sicurezza. Ed è dunque, forse, questo il motivo per cui coloro che sono al potere vedano il perpetrarsi di tale istigazione sistematica alla corruzione o ad attività di traffico, a scapito dei migranti, come una sorta di male minore rispetto a un’eventuale destabilizzazione del Paese...”.

 Considerazioni che portano ad una conclusione: in Niger – , uno dei Paesi più poveri del mondo-  come in Mali, e negli altri Paesi dell’Africa subsahariana o subsaheliana di origine e di transito di migranti, pensare di contrastare i trafficanti e i loro alleati jihadisti senza attivare nel contempo progetti volti a migliore le condizioni di vita della popolazione locale, più che una illusione appare un pericoloso azzardo.

Un azzardo mortale. 

Sos Sahel

Sono in rialzo le spese militari in Africa. Secondo l’ultimo rapporto del Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) nel 2020 le spese per gli armamenti in Africa hanno superato i 43 miliardi di dollari, 5,1 per cento in più rispetto al 2019 e 11 per cento in più rispetto al 2011. 
Le spese per la difesa hanno rappresentato una media dell’8,2% della spesa pubblica in tutta l’Africa nel 2020. La quota è considerevolmente più alta nei Paesi colpiti da conflitti come il Mali (18%) e il Burkina Faso (12%).
Ed è qui che si sono verificati gli aumenti più rapidi delle spese per la difesa. Secondo il SIPRI, tre dei cinque paesi africani in cui la spesa militare è in forte aumento negli ultimi dieci anni – Mali, in crescita del 339%, Niger (288%) e Burkina Faso (238%) – stanno combattendo le reti terroristiche nel Sahel, una regione estremamente povera che si estende dal Senegal al Sudan e all’Eritrea.


Le spese militari stanno indebolendo la capacità dei responsabili politici locali di effettuare investimenti pubblici in infrastrutture vitali per lo sviluppo economico e il miglioramento delle condizioni di vita delle loro popolazioni. Questo a sua volta genera malcontento e frustrazione specie tra i giovani, alcuni dei quali vanno ad alimentare i gruppi di guerriglia che operano nella regione.


La fragilità delle istituzioni dei Paesi del Sahel è testimoniata anche da golpe militari come quella in Mali dell’agosto 2020.
Per costringere i golpisti a restaurare il potere civile, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao/Ecowas) ha deciso nel vertice straordinario tenutosi il 9 gennaio ad Accra, capitale del Ghana, il blocco dei confini terrestri e aerei tra i propri membri e il Mali, Paese senza sbocco sul mare. Questo dopo che i leader golpisti avevano rinunciato alla promessa di tenere elezioni nel febbraio 2022.

Nel Sahel mancano i vaccini ma non le armi. E a crescere è l’”esercito “degli sfollati. 

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