Alle radici di una disfatta chiamata Afghanistan: le analisi
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Alle radici di una disfatta chiamata Afghanistan: le analisi

Riflettere sui perché di una sconfitta. Senza paraocchi ideologici o “verità” di comodo. Provarlo a fare con persone competenti, che sanno di geopolitica, strategie militari e diplomazia.

Talebani nel palazzo presidenziale di Kabul
Talebani nel palazzo presidenziale di Kabul
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1 Settembre 2021 - 17.24


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Riflettere sui perché di una sconfitta. Senza paraocchi ideologici o “verità” di comodo. Provarlo a fare con persone competenti, che sanno di geopolitica, strategie militari e diplomazia. E’ lo sforzo che Globalist sta cercando di portare avanti. Perché una tragedia non venga ridotta a un chiacchiericcio interno, piegato e piagato da miserevoli calcoli di bottega elettorali.

La parola a chi ne sa

 Scrive Pietro Batacchi, diretto di RID (Rivista Italiana Difesa):L’Occidente ha perso, e lo ha fatto anche malamente, con un ritiro che assomiglia a una ritirata, ed un fuggi fuggi condito da immagini che più di ogni altra cosa rappresentano un danno per la sua reputazione. Lo possiamo dire tranquillamente: l’immagine dell’America e dei suoi alleati oggi è ai minimi termini. Se guardiamo agli ultimi 20 anni Washington viene da 3 disastri: quello iracheno-siriano, quello afghano e quello libico. Tutti più o meno condivisi con l’Europa e tutti, egualmente, che hanno dato fiato e spazi agli avversari: l’Iran, piuttosto che la Russia. Il gran finale è stata poi la conferenza stampa di Biden in cui il Presidente americano ha sostanzialmente addossato la responsabilità della sconfitta in Afghanistan alla NATO, riconducendo in pratica solo a Bruxelles lo sforzo di nation building, mentre loro, gli Americani, erano concentrati sulla caccia ai terroristi. Una menzogna bella e buona. Chi è il Paese più importante della NATO? Chi comandava la missione ISAF? Ma veramente si pensa che la NATO possa imbarcarsi in uno sforzo di ricostruzione come quello afghano senza gli USA, impegnati a fare dell’altro? Fate voi. Ma torniamo alle ragioni della sconfitta. La prima riguarda il tempo. I tempi, anzi, gli attimi, delle liberal-democrazie non si conciliano con i tempi delle guerre di stabilizzazione e con la mentalità “lunga e lenta” tipicamente orientale e mediorientale. I cicli elettorali non tengono conto del campo. Da questo punto di vista, l’errore più grosso è stato quello di Obama che ha iniziato a richiamare i contingenti tra il 2011 e 2012, ovvero nel momento di massima pressione sui Talebani, la cui influenza nel Paese in quel momento era veramente ridotta. Trump ha proseguito su questa rotta, con l’aggravante di sottoscrivere una pace separata con i Talebani, che ha legittimato loro e delegittimato il Governo di Kabul, ridotto ad una sorta di comparsa. Il povero e claudicante Biden, infine, poteva solo gestire meglio il ritiro. La seconda ragione è culturale e riguarda la presunzione che il modello euro-occidentale sia il migliore in senso assoluto e che tutti siano disponibili ad accettarlo senza colpo ferire. Questo comporta la creazione di percezioni errate e cattiva analisi, che, nella fattispecie, ha significato non capire che i Talebani erano e sono espressione di una comunità – quella pashtun, in particolare Ghilzai – profondamente radicata tanto in Afghanistan quanto in Pakistan. Ridurre i Talebani a movimento terroristico è sbagliato. I Talebani sono un realtà, sopratutto oggi, molto complessa in cui convivono 3 anime: quella conservatrice e per così dire di governo, quella radicale, vicina a ciò che resta di Al Qaeda, e quella puramente criminale. Tutte, però, sono espressione del tessuto del cosiddetto Af-Pak, rappresentandone storia, interessi e tradizioni. E’ stata la prima anima a gestire la ripresa del potere tessendo una serie di accordi con potentati e signori della guerra locali che ha tagliato fuori Ghani e i suoi: fa specie vedere Ismail Khan chiamare i propri miliziani alla resistenza ad Herat e contemporaneamente trattare per conto dei Talebani con Ghani; ma fa specie vedere pure la rapidità con cui il Nord – un tempo roccaforte dei Tagiki – è caduto senza sparare un colpo. Insomma, il sospetto – che siano state le intese locali più che le armi a spianare la strada di Kabul a Baradar – viene. Il tutto, sotto gli occhi delle nostre intelligence, ormai rivolti altrove. E poi eccoci alle ragioni militari ed operative. Una guerriglia con un retroterra logistico santuarizzato è potenzialmente inesauribile. La disponibilità di aree sicure in Pakistan – nelle cosiddette aree tribali, ma sopratutto, nel Belucistan – spiega la resilienza dei Talebani e la loro capacità di alimentare le proprie attività militari in alcune aree del Paese nonostante i duri colpi ricevuti dagli USA e dalla NATO in questi anni. E ciò rimanda anche al legame tra i Talebani ed il Pakistan. Un legame inscindibile e funzionale per la politica estera di Islamabad e per il suo obbiettivo di mantenere profondità ed influenza in Afghanistan. Il fallimento degli USA si è visto sopratutto qui, ed è qui che sono stati pronti ad infilarsi tanto i Russi quanto i Cinesi…”.

Vent’anni fa l’intervento militare in Afghanistan fu giustificato come un atto dovuto nella guerra al terrorismo, dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Ora Biden, parlando a raffica agli americani, afferma che quell’obiettivo è stato raggiunto con la cacciata di al-Qaeda dall’Afghanistan e l’eliminazione di Osama bin Laden. Ma se è così, cosa siamo rimasti a fare in quel Paese per tutto questo tempo?

Anche qui, bisogna ancora una volta tornare a questo problema di crisi degli imperi coloniali. Quando gli imperi coloniali sono diventati più o meno accettabili di quanto erano stati in passato, criticati da una parte dell’opinione pubblica, è successo che molti Paesi hanno cercato di dare una copertura di nobiltà dicendosi Paesi maestri, che avrebbero aiutato le generazioni dei loro cittadini coloniali a diventare cittadini moderni. Ci siamo tutti in qualche modo promossi maestri, insegnanti del mondo coloniale, quasi per riscattare il nostro passato di colonialisti e, al tempo stesso per conservare una presenza, perché era questo ciò che s’intendeva veramente fare. E allora assistiamo a queste situazioni, in cui si giustificano la propria presenza o il desiderio di essere presenti, con una funzione morale”, conclude il direttore di RID

Dice Sergio Romano

Uno che di diplomazia e politica internazionale ne sa e tanto è l’ambasciatore Sergio Romano. Nella sua lunga e prestigiosa carriera diplomatica, è stato, tra l’altro, ambasciatore presso la Nato e ambasciatore a Mosca (1985-1989), nell’allora Unione Sovietica. E stato visiting professor all’Università della California e a Harvard, e ha insegnato all’Università di Pavia, a quella di Sassari e alla Bocconi di Milano.

Alla domanda se l’Afghanistan è stato il “cimitero della NATO” Romano risponde così: Le confesso che non si deve mai dire di sì a qualche cosa che si desidera. Perché francamente se questo accadesse direi, innanzitutto, che ha una certa logica. Perché anche la NATO è in una situazione per certi aspetti simile, sotto il profilo politico, morale, di quello che le dicevo prima, cioè gli imperi che si promuovono insegnati, missionari, cultori. Anche la NATO è a caccia di un ruolo internazionale. Con la fine della Guerra fredda, la NATO è finita tra i disoccupati. E siccome a un certo punto, qualche persona, anche in buona fede, ha pensato che dopotutto la NATO rappresenta pur sempre un legame con gli Stati Uniti che non sarebbe prudente mandare a carte all’aria, e allora c’è questo tentativo della NATO di rivalutare se stessa, di dimostrare uno scopo, una qualche utilità. Io guardo soprattutto a noi, all’Europa, perché in Europa ci sono Paesi e gruppi politico-sociali che questo discorso sulla NATO lo fanno. Questo discorso di rivalutazione della NATO con queste funzioni, presenta per noi uno straordinario svantaggio. Perché ci fa dimenticare che la prossima mossa dell’Unione Europea è ricostruire la CED, la Comunità Europea di Difesa che poi saltò al Parlamento francese. Noi dobbiamo dar rinascere la CED. Non si chiamerà più così, si chiamerà Unione Europea di Difesa o qualcosa del genere. Noi non abbiamo bisogno della NATO. Noi abbiamo bisogno dell’Unione Europea di Difesa. 

Una analisi “profetica”.

E’ quella pubblicata da  Paolo Salvatore Orrù su Tiscalinews.it il 10 ottobre 2017. 

Rileggetela alla luce dell’oggi. “Stare in Afghanistan ci costa un mare di soldi, e stiamo lì solo per fare gli interessi degli Stati Uniti”, ha spiegato a tiscali.it il generale Fabio Mini commentando il rapporto pubblicato da milex.org sulle spese sostenute dal nostro Paese in quel teatro di guerra. L’amara annotazione dell’ex comandante della missione KFOR in Kosovo dal 2002 al 2003 è resa ancora più drammatica da quanto ha rivelato l’agenzia di stampa Pajhwok: in Afghanistan 5.887 persone sono state uccise e 4.410 hanno riportato ferite in 777 attacchi realizzati negli ultimi 5 mesi del 2016.  Dietro questa statistica si nasconde un fiume di interessi.

Spiegano gli analisti di milex.org: alla Nato questa guerra quasi dimenticata è costata sinora 900 miliardi di dollari, di questi 7,5 li ha spesi il nostro Paese. Tutto questo perché Gli Usa (prima Obama poi Trump) hanno voluto “continuare a mantenere una bandierina in un corridoio centro asiatico, dove peraltro Cina e Russia stanno tentando di scalzarli investendo trilioni di dollari”, ha commentato ancora Mini. Calcolare in modo “preciso ed esaustivo” il prezzo di una campagna militare all’estero non è semplice, perché ai costi ufficiali “diretti” si devono aggiungere gli “indiretti” che in genere sono ben “mimetizzati” nei documenti pubblici (quindi difficili da quantificare). Dietro queste spese, che gli economisti chiamano “sistemiche”, si celano “acquisizione ad hoc di nuovi mezzi da combattimento e nuovi armamenti, aggiornamento di sistemi d’arma in relazioni alle esigenze emerse nel corso dell’impiego in teatro operativo, ripristino scorte munizioni, addestramento del personale e costi sanitari delle cure per i reduci feriti e mutilati”, ha scritto Milex.

A queste poste di bilancio si devono sommare le spese che Difesa e altre amministrazioni, devono sostenere per esigenze direttamente connesse alle operazioni in corso, ma che non figurano come tali e che quindi non possono essere computate. Ad esempio, il costo ufficiale della guerra in Afghanistan sostenuto dagli Usa dal 2001 a oggi è di 827 miliardi di dollari (circa 45 miliardi l’anno) ma se si sommano questi costi aggiuntivi – accuratamente stimati da analisti delle università di Harvard 10 e Brown – la cifra raddoppia. Se il ragionamento ha una valenza strutturale, quel “raddoppia” dovrebbe valere anche per l’Italia.

Per dimostrarlo, Milex ha analizzato e approfondito non solo i bilanci della Difesa ma tutte le voci di spesa afferenti ad altri ministeri – come il Ministero degli Esteri per le missioni e il Ministero dello Sviluppo economico per i programmi di acquisto armamenti –  e il conteggio finale che emerge supera i 23 miliardi di euro all’anno. Quindi si deve parlare di una cifra sicuramente più elevata di quella ufficiale che emerge dai bilanci della Difesa, in costante aumento, anche lieve negli ultimi anni, “siamo sempre sull’1.5, l’1.4 del Pil, hanno spiegato in una intervista rilasciata il 17 febbraio scorso a Radio Vaticana Enrico Piovesana, giornalista ed esperto di difesa, e Francesco Vignarca, Coordinatore di Rete Italiana per il Disarmo.

All’inizio di ogni mandato di governo, il solito mantra: “Le truppe torneranno a casa”. Invece, ha spiegato ancora Milex, i soldati italiani sono dovuti tornare in prima linea, in particolare nella settentrionale di Badghis, dove i talebani hanno riconquistato due distretti (Jowland e Ghormach) e stanno per prenderne un altro (Bala Murghab). Combattono e hanno il controllo quasi totale del territorio provinciale, “salvo l’area del capoluogo Qala-i-Naw”. Nella provincia di Herat, i talebani avanzano – ha spiegato Milex – nei distretti confinanti con il Turkmenistan (Gulran, Kushk e Kushk-i-Kuhnah) e soprattutto al confine con Farah (Shindand), ma anche più a est (Farsi e Chist-i-Sharif) e a poche decine di chilometri dal capoluogo (Pashtun Zarghun). Infine nella provincia montuosa orientale di Ghor, i talebani sono predominanti in tre distretti (Taywarah, Pasaband e Lalwa Sar Jangal) ma sono all’attacco anche in altri tre.

Dall’inizio del 2017, contingenti di soldati italiani denominati “Expeditionary Advisory Package’ sono dunque tornati al fronte per supportare in loco (non più da remoto come avvenuto negli ultimi anni) le contro-offensive dell’Esercito afgano. A queste attività prendono parte – si legge su esercito.difesa.it – anche forze speciali (i Rangers del 4° Alpini a supporto dei ‘Commandos’ afgani) ed elicotteri da attacco (gli A-129 Mangusta dell’Esercito a protezione del personale italiano). Le operazioni coadiuvate dagli italiani hanno rafforzato le posizioni governative in alcuni distretti, al costo di centinaia di guerriglieri talebani uccisi (decine di morti solo nel corso dell’operazione Zafar 44 a Balaboluk svoltasi nel mese di settembre).

Lo scorso maggio, il presidente afgano Ashraf Ghani ha detto a Reuters che “solo tra quattro anni le nostre forze di sicurezza saranno in grado di prendere il controllo del potere nel paese”, se ne deduce che il tricolore campeggerà in quelle terre lontane sino al 2022.  Ai costi corrisponde una “qualità” di risultati? I talebani dopo sedici anni di aspri combattimenti stanno ancora controllando metà Afghanistan: un risultato deludente. Se n’é accorto persino Trump, che per questo ha deciso di far riprendere i raid aerei e rispolverare le truppe d’élite al fronte. Ghani ha tirato un sospiro di sollievo: “Gli afghani vedono gli Usa come una mucca da mungere (lo ha fatto Karzai, lo sta facendo Ghani)”, ha commentato Mini.

In conclusione, poco è cambiato da quel giorno di 16 anni fa, quando i marines (questa è la sostanza) hanno sostituito gli specnaz russi. Che le cose stanno così, lo dimostra anche un altro fatto: “La coltivazione dell’oppio è aumentata del 30% rispetto al 2016”, spiega ancora il generale italiano. Siamo quindi in una situazione di sbando: i politici afghani vogliono “succhiare” più che possono (“per loro, mica per la popolazione”), ma allo stesso tempo, ora lo sta facendo anche Karzai dall’opposizione, sostengono che “gli Usa non vogliono andarsene”. E l’Italia che fa generale? “Il nostro è un governo di pecoroni: segue senza senso critico gli svarioni di Obama e Trump”.

Va aggiornato a Biden. Ed è come se fosse stato scritto oggi.

 

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