La sporca guerra dei droni: da Obama a Biden, una lunga scia di sangue
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La sporca guerra dei droni: da Obama a Biden, una lunga scia di sangue

Non chiamatela “guerra pulita”, tanto meno “intelligente”. Perché quella dei droni è una guerra tra le più sporche. 

Bombardamento con i droni in Afghanistan
Bombardamento con i droni in Afghanistan
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

28 Agosto 2021 - 12.46


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Non chiamatela “guerra pulita”, tanto meno “intelligente”. Perché quella dei droni è una guerra tra le più sporche. 

Una guerra rilanciata dal fuggiasco d’America: Joe Biden. La notizia è nota: con un raid mirato condotto con un drone nella provincia di Nangahar, gli Stati Uniti colpiscono e uccidono una delle menti dell’Isis-K, l’organizzazione ritenuta responsabile del sanguinoso attentato nel quale hanno perso la vita 13 americani e oltre 100 afghani.

La guerra dei droni

Più di trentamila velivoli senza equipaggio sparsi per il mondo e pronti a colpire. I numeri del macrocosmo dei droni militari sono impetuosi. E cresceranno ancora. A riportarli è il rapporto del Center for the Study of the Drone, un istituto di ricerca del Bard College di New York. Lo studio ha riscontrato non solo una crescita esponenziale di droni militari, ma anche un’espansione di basi, siti di test e accademie di addestramento per supportare il funzionamento di questi aerei senza pilota. 

Il NYT lo aveva anticipato

Di grande interesse è il report di  Brian Terrell, attivista per la pace americano, ,pubblicato da pressenza con traduzione dall’inglese di Rossella Crimaldi e revisione di Diego Guardiani.

“Giovedì 15 aprile scrive Terrell –  il New York Times ha pubblicato un articolo dal titolo Come gli Stati Uniti programmano di combattere a distanza dopo il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, nel caso in cui qualcuno avesse frainteso il titolo del giorno precedente, ovvero l’annuncio del ritiro da parte di Biden e l’intenzione di porre fine alla guerra eterna”, indicando che la guerra degli Stati Uniti in Afghanistan potrebbe effettivamente finire l’11 settembre 2021, quasi 20 anni dopo l’inizio.
Abbiamo già assistito a questa strategia ingannevole nel precedente annuncio del Presidente Biden, dove ha espresso l’intenzione di fermare il sostegno degli Stati Uniti alla lunga e miserabile guerra nello Yemen. Nel suo primo discorso di grande rilievo sulla politica estera del 4 febbraio il Presidente Biden ha annunciato: ‘Stiamo cessando ogni sostegno americano alle operazioni offensive nella guerra in Yemen”’ condotta dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati dal 2015 e che ha definito ‘una catastrofe umanitaria e strategica’. Biden ha dichiarato che questa guerra deve finire. Appena dopo l’annuncio che la guerra degli Stati Uniti in Afghanistan sarebbe finita, il giorno seguente sono arrivati le ‘precisazioni’. Il 5 febbraio, l’amministrazione Biden ha smentito l’impressione che gli Stati Uniti smettessero di uccidere gli yemeniti e il Dipartimento di Stato ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma: ‘è importante sottolineare che ciò non si applica alle operazioni offensive contro l’Isis o al Qaida nella Penisola Arabica (Aqap). In altre parole, qualunque cosa accada riguardo alla guerra condotta dai sauditi, la guerra che gli Stati Uniti stanno conducendo nello Yemen dal 2002 continuerà, con il pretesto dell’autorizzazione all’uso della forza militare approvata dal congresso che autorizza l’uso delle forze armate statunitensi contro i responsabili degli attacchi dell’11 settembre, anche se nel 2001 non esistevano né l’Isis né l’Aqap. Altre ‘operazioni offensive’ che gli Stati Uniti continueranno senza sosta nello Yemen includono attacchi con droni, missili cruise e raid delle forze speciali. Mentre ciò che il Presidente Biden, riguardo alla guerra in Afghanistan, ha in realtà detto la scorsa settimana è ‘non perderemo di vista la minaccia terroristica’, e ‘riorganizzeremo le capacità antiterroristiche e le risorse sostanziali nella regione per prevenire il riemergere della minaccia terroristica alla nostra patria’, il New York Times non poteva essere molto lontano nell’interpretazione, riportando: ‘droni, bombardieri a lungo raggio e reti di spionaggio saranno usati nel tentativo di impedire che l’Afghanistan riemerga come base terroristica e minaccia per gli Stati Uniti’.  Dalle sue dichiarazioni e iniziative a febbraio riguardo la guerra in Yemen e ad aprile riguardo la guerra in Afghanistan, Biden non sembra disposto a porre fine alle ‘guerre infinite’, bensì intende consegnare queste guerre a droni armati di bombe di oltre 220 kg e missili Hellfire comandati a distanza di migliaia di kilometri. Nel 2013, quando il Presidente Obama ha promosso l’uso dei droni in guerra sostenendo che ‘rivolgendo la nostra attenzione contro coloro che vogliono ucciderci e non le persone tra cui si nascondono, stiamo scegliendo la strada che con meno probabilità provocherà la perdita di vite innocenti’. Ma si sapeva già che ciò non era vero. Senza dubbio, la maggior parte delle vittime dei droni sono civili, pochi sono soldati e anche quelli colpiti come sospetti terroristi sono vittime di omicidi ed esecuzioni extragiudiziali. La validità dell’affermazione di Biden secondo cui le ‘capacità antiterrorismo’ degli Stati Uniti come i droni e le forze speciali possono prevenire in maniera efficace ‘il riemergere della minaccia terroristica nella nostra patria’ è data per scontata dal New York Times: ‘droni, bombardieri a lungo raggio e le reti di spionaggio verranno impiegati per impedire che l’Afghanistan riemerga come base terroristica e minaccia per gli Stati Uniti’. Dopo che la campagna internazionale della società civile per il bando dei droni armati e l’utilizzo degli ultimi per la sorveglianza nell’esercito e nella polizia Ban Killer Drones è stata lanciata il 9 aprile, mi è stato chiesto durante un’intervista se vi è qualcuno nelle comunità governative, militari, diplomatiche o di intelligence che sostiene la nostra causa secondo cui i droni non sono un deterrente al terrorismo. È improbabile, ma molti che precedentemente ricoprivano queste posizioni ci sostengono. Un esempio tra tanti è il generale in pensione Michael Flynn, alto ufficiale dell’intelligence militare del Presidente Obama prima di entrare nell’amministrazione Trump (successivamente condannato ma graziato). Nel 2015 ha dichiarato: ‘quando sganci una bomba da un drone… causerai più del male che del bene” e ‘più armi e bombe utilizziamo, più alimentiamo il conflitto’. Documenti interni della Cia pubblicati da WikiLeaks riportano che l’agenzia aveva dubbi simili sul proprio programma sui droni: ‘il potenziale effetto negativo delle operazioni Hvt (high value targets)”, indica il rapporto, “include l’aumento del supporto ai ribelli […], rafforzare i legami di un gruppo armato con la popolazione, radicalizzare i leader superstiti di un gruppo di ribelli, creare un vuoto in cui i gruppi più radicali possono farsi spazio e intensificare o attenuare un conflitto favorendo i rivoltosi’.
Parlando delle conseguenze degli attacchi dei droni nello Yemen, il giovane scrittore yemenita Ibrahim Mothana ha detto al Congresso nel 2013 che ‘gli attacchi dei droni stanno provocando sempre più odio verso l’America da parte degli yemeniti e la volontà di questi ultimi di unirsi ai militanti radicali. Le guerre dei droni che l’amministrazione Biden sembra intenzionata a espandere causa chiaramente danni e ostacola la sicurezza e la stabilità nei Paesi attaccati, e aumenta inoltre il pericolo di attacchi agli americani in patria e all’estero…’, conclude Terrell.

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Obama rilancia

“Gli attacchi dei droni eliminano di sicuro qualche terrorista ma uccidono anche un gran numero di civili innocenti. Considerata la struttura tribale della popolazione yemenita, con questa strategia gli Usa generano tra 40 e 60 nuovi nemici per ogni vero militante di Al Qaeda eliminato”. Parole  di Nabeel Khoury, che tra il 2004 e il 2007 è stato capo-missione nello Yemen per il Dipartimento di Stato Usa.

Tutte le più importanti organizzazioni umanitarie hanno documentato gli effetti provocati dall’uso di velivoli senza pilota in operazioni “anti-terrorismo”. Nell’ottobre 2013, Amnesty International aveva  reso pubblico uno dei più completi studi, dalla prospettiva dei diritti umani, sul programma statunitense relativo all’impiego dei droni. Il rapporto dell’organizzazione per i diritti umani, intitolato “Sarò io il prossimo? Gli attacchi statunitensi coi droni in Pakistan”, conteneva nuove prove sulle uccisioni illegali causate nelle aree tribali del Pakistan nordoccidentale dagli attacchi coi droni – alcuni dei quali possono essere considerati persino crimini di guerra – e la pressoché totale assenza di trasparenza del programma statunitense.

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“Grazie alla segretezza che avvolge il programma sui droni, l’amministrazione Usa ha licenza di uccidere senza controllo giudiziario e in violazione degli standard basilari sui diritti umani. È giunto il momento che gli Usa rendano noto il programma e chiamino a rispondere i responsabili delle violazioni dei diritti umani” – spiegava in quell’occasione  Mustafa Qadri, ricercatore di Amnesty International sul Pakistan. “Che speranza di compensazione possono avere le vittime degli attacchi coi droni e le loro famiglie se gli Usa non ammettono neanche la responsabilità di determinati attacchi?”, aveva rimarcato Qadri. Una domanda che non ha mai avuto risposta né dal Pentagono, né dal Dipartimento di Stato Usa né dalla Casa Bianca. Amnesty International aveva esaminato i 45 attacchi conosciuti tra gennaio 2012 e agosto 2013 nel Nord Waziristan, la regione del Pakistan più colpita dai droni.

L’organizzazione per i diritti umani ha condotto dettagliate ricerche sul campo riguardanti nove dei 45 attacchi. Il rapporto che ne è derivato solleva forti interrogativi su violazioni del diritto internazionale che potrebbero costituire esecuzioni extragiudiziali o crimini di guerra.

in un anno a cambiare è solo il numero delle vittime della “guerra dei droni”. Negli Stati Uniti un rapporto stilato da una commissione indipendente di esperti, ex alti funzionari del Pentagono e delle forze armate americane, presieduta dal generale in pensione John P. Abizaid, già comandante delle truppe Usa in Iraq, ha avanzato molte riserve sull’uso indiscriminato dei droni. Secondo gli esperti, la Casa Bianca, sia sotto Bush ma ancor più nell’era Obama, ha mostrato troppa dipendenza sulla strategia delle uccisioni mirate con i droni, facendone un pilastro della guerra al terrorismo internazionale.

Dopo un decennio di attacchi dei droni l’obiettivo non è stato realizzato: piuttosto che essere debellati, i gruppi terroristi si sono moltiplicati. “Sono personalmente, moralmente ed eticamente offesa dall’uso dei droni. Ritengo che il fatto che queste armi possano volare quasi autonomamente per circa 11.000 chilometri – verso località dove, sfortunatamente, il mio esercito e la Cia attaccano le persone in paesi con i quali non siamo in guerra – sia semplicemente orripilante e che sia, come molti sostengono, una violazione della legge internazionale e il suo assassinio. Non sostengo l’assassinio da parte del mio governo, punto”, così si è espressa, in una intervista televisiva, Jody Williams, premio Nobel per la Pace, premio conferitole per la campagna internazionale contro le mine antiuomo.

Secondo un recente rapporto dell’Ong britannica “Reprieve”, per ogni “terrorista” ucciso nella “guerra dei droni” condotta dagli Usa , le vittime civili sono state 28. Ancora: in dieci anni di azioni militari condotte con velivoli senza pilota, su 41 leader di formazioni terroristiche eliminati i droni hanno ucciso 1.147 persone innocenti. “Gli attacchi dei droni – sostiene la responsabile del report Jennifer Gibson – erano stati presentati ai cittadini americani come raid di estrema precisione. Ma non c’è nulla di preciso in chi provoca la morte di 28 innocenti per stanare e uccidere un terrorista”.

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“Effetti collaterali”

Rimarca in un report per Ispi Armando Sanguigni, che è stato ambasciatore italiano in Tunisia dal 1998 al 2003, profondo conoscitore della realtà mediorientale:  Drone è sinonimo di fuco, di fannullone e di brusio, ma è anche il nome di quest’oggetto che vola nei cieli del nostro pianeta senza equipaggio umano e che, se armato, è carico di un’inquietante minaccia mortifera. Si tratta di un gioiello di tecnologia dalle straordinarie potenzialità. Basti pensare ai compiti di ricognizione e di sorveglianza che è in grado di svolgere senza porre a repentaglio vite umane: dal pattugliamento al controllo delle emergenze, dagli impieghi in agricoltura e allevamento alla protezione delle specie a rischio, etc.

Ma la fama maggiore se l’è guadagnata soprattutto per gli impieghi militari e in particolare per le sue versioni “armate” nella guerra (americana, ma non solo) al terrorismo di matrice islamica (al-Qaida e suoi alleati, affiliati ed emulatori); e ancor più, in particolare, per la sua specialità di essere divenuto strumento privilegiato di “killeraggi mirati” in giro per il mondo, per usare una locuzione introdotta dagli israeliani nel 2000, e poi entrata nell’uso comune. Se l’è guadagnata anche attraverso anni di crescente e pressoché indisturbato impiego dai tempi della guerra dei Balcani alle operazioni condotte e tuttora in atto nell’area afghano-pakistana, nel Golfo, in Medio Oriente e nel Corno d’Africa. 

E sembra avergli giovato l’opacità informativa nella quale è stato ed è tuttora avvolto il triste e tristo seguito di vittime innocenti, cinicamente catalogate come ‘danni collaterali’.  Per non far cenno della discutibile, a dir poco, logica della legittimazione (di una politica) dell’esecuzione sommaria in cui si sostanzia di fatto l’uso del drone armato. Ancora oggi del resto non si dispone di dati ufficiali circa il numero delle operazioni (migliaia, sembra) effettuate nei vari teatri della terra e ancor meno dei morti che ne sono stati il risultato. Occorre anzi dire che c’è voluto del tempo prima che cominciassero a percolare dalle riservate stanze delle autorità competenti – stentatamente, molto stentatamente – brandelli di informazioni fattuali e di formulazioni giuridiche. 

Un quesito s’impone: poiché i paesi che dispongono o si preparano a disporre di questi strumenti e ad armarli – come l’Italia che ne possiede e ne produce – già molti e non tutti in rapporti amichevoli, aumenteranno ancora, si accrescerà inesorabilmente il rischio imitativo. Cioè la possibilità che questi stessi principi vengano invocati per legittimarne l’uso dei medesimi contro “nemici” obliquamente identificati come tali. Si tratta di una prospettiva inquietante soprattutto se proiettata in un futuro di crescente frammentarietà della governance internazionale. E sarebbe improvvido rinviarne la messa all’ordine del giorno, nella speranza che, col tempo, sarà la pressione della sua potenziale perniciosità a propiziare la formazione di una piattaforma di regole d’impiego nella quale la Comunità internazionale – o una sua parte qualificata – si possa riconoscere”.

Per delucidazioni al riguardo, rivolgersi alla Cada Bianca e al presidente “vendicatore”. 

 

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