Patrick Zaki, una lezione per tutti noi. Anche per Lei, presidente Draghi
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Patrick Zaki, una lezione per tutti noi. Anche per Lei, presidente Draghi

La lettera non è solo un atto d’amore verso la sua ragazza e la sua famiglia. E non è neanche solo un possente j’accuse nei confronti di quanti, a Roma, sanno ma non intervengono per non disturbare il presidente-carceriere.

Patrick Zaki
Patrick Zaki
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

29 Luglio 2021 - 17.16


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Quella lettera non è solo un atto d’amore verso la sua ragazza e la sua famiglia. E non è neanche solo un possente j’accuse nei confronti di quanti, a Roma, sanno ma non intervengono per non disturbare il presidente-carceriere. E’ tutto questo, la lettera di Patrick, ma è anche e soprattutto una straordinaria lezione di combattività. Di chi non molla.

“Non sono molto ottimista, la situazione peggiora di giorno in giorno”. Sono parole scritte da Patrick Zaki in una lettera indirizzata alla sua ragazza e pubblicata sulla pagina Facebook “Patrick libero”. Lo studente dell’Università di Bologna è imprigionato in Egitto, il suo Paese d’origine, dal febbraio 2020. “Speravo di riavere la mia libertà ma è chiaro che non accadrà presto”, ha aggiunto lo studente. 

“Avevamo così tanti progetti” 

L’ultima decisione della Corte risale al 14 luglio quando, per l’ennesima volta, la custodia cautelare di Zaki è stata prolungata di altri 45 giorni. Il ricercatore è accusato di terrorismo e propaganda sovversiva. “Nei nostri sogni più selvaggi mai avremmo immaginato questa situazione, e fin da quando sono partito per Bologna avevamo così tanti progetti, il primo era quello che tu mi raggiungessi e potessimo girare per l’Italia assieme. Mi rende veramente triste che questo non possa succedere presto visto che la mia situazione sta peggiorando giorno dopo giorno”, si legge nella lettera scritta dal giovane. La lettera è stata consegnata ai familiari che lo hanno visitato di recente nel carcere del Cairo dove è imprigionato. 

 “Avete sopportato l’insopportabile” 

“La mia indagine è ripresa, il che potrebbe significare che un giorno andrò in tribunale e avrò un processo e questo è molto peggio di quanto mi aspettassi. Dopo un anno e mezzo, non potevo fare a meno di pensare che avrò presto la mia libertà, ma ora è chiaro che non accadrà presto. So che siete stati pazienti e avete sopportato l’insopportabile, mi scuso sinceramente per questo. Infine, vorrei congratularmi con tutti coloro che sono stati lasciati andare di recente, ma non sono affatto ottimista sulla mia situazione. Con molto amore, Patrick”. Si conclude così la lettera di Zaki rivolta ai familiari e alla sua ragazza. 

La battaglia continua

Per Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, “è uno dei messaggi più importanti in questo ormai anno e mezzo di detenzione illegale. E’ un messaggio che non è stato frequente in questi 18 mesi, che guarda al futuro, che di nuovo pensa a Bologna come il punto in cui la vita di Patrick si è interrotta e dal quale vuole riprenderla. E’ di grande incoraggiamento per tutti noi, è il messaggio di una persona determinata a resistere fino a quando non tornerà nel luogo scelto per studiare e per vivere”.

Quel carcere, un inferno.

Così l’ottima collega Antonella Napoli racconta del carcere di massima sicurezza in cui è imprigionato Patrick, , angosciante articolo per Avvenire: “Una grande tomba di cemento, il simbolo del terrore del regime egiziano guidato dal presidente Abdel Fattah al–Sisi. Basta attraversare l’ingresso sorvegliato da blindati e uomini armati nelle torrette collocate lungo il perimetro del penitenziario di Tora, a soli venti miglia a sud dal Cairo, per capire che la definizione coniata dagli attivisti per i diritti umani rispecchia pienamente l’essenza della famigerata struttura carceraria. Questa immensa prigione divisa in quattro blocchi, tra cui la sezione di massima sicurezza conosciuta come “lo scorpione”, rappresenta per uomini e donne, che potrebbero non affrontare mai un processo, un campo di detenzione preventiva senza via di uscita. Ancor più oggi, con il rischio elevato di contrarre il Covid–19…”.

Ed ancora: “Le uniche aree ristrutturate sono quelle riservate agli uffici amministrativi, una piccola clinica medica e due edifici per il personale che includono la sala di riposo degli ufficiali, la biblioteca, la lavanderia e la cucina centrale. Le sezioni H1 e H2, che si trovano a destra dell’accesso principale, circondate da un muro con due porte realizzate con griglie e lamiere di ferro per bloccare la visione dal cortile esterno, e le sezioni H3 e H4, a sinistra, anch’esse circondate da pareti interne e due ingressi blindati, sono pressoché invivibili. Soprattutto d’estate quando le temperature raggiungono i 50 gradi e dalle acque del Nilo, poco distante, salgono nugoli di zanzare. Ogni sezione è composta da quattro aree di 20 celle di circa tre metri per tre metri e mezzo, dove vengono stipati fino a 15/20 detenuti. Ogni locale ha un piccolo bagno, un lavabo e piani di cemento per dormire. 

Un incubo. Ma è il blocco 4, quello di massima sicurezza, il luogo dove le condizioni di vita diventano insostenibili e si consuma il dramma, l’orrore, delle torture più atroci: cibo infestato da insetti e distribuito in contenitori sporchi, umiliazioni e sevizie continue. «I pochi prigionieri sopravvissuti ci hanno raccontato di metodi cruenti sistematici nel carcere di Tora, in particolare nella sezione ‘Scorpion’ – racconta Ahmed Alidaji, ricercatore di Amnesty International al Cairo fino al 2017 – Io stesso ho raccolto la denuncia di un giovane che insieme ad altri 19 compagni di prigionia è stato denudato e frustato con bastoni sulla schiena, sui piedi e sui glutei dopo che i soldati avevano trovato nella cella una radio tascabile e un orologio. Stessa sorte per un gruppo di 80 occupanti di un intero blocco quando uno di loro è stato scoperto in possesso di una penna. A chi si ribella viene riservato un trattamento anche peggiore. Gli agenti penitenziari, dopo avergli affibbiato nomi femminili, li violentano a turno come “punizione” per aver violato le regole della prigione’ conclude l’attivista.

Non sorprende che ai prigionieri della ‘Scorpion’ venga negato il permesso di vedere i familiari, anche se le autorità carcerarie affermano che sia una misura necessaria per impedire ai leader di gruppi terroristici di inviare istruzioni per attacchi contro turisti, stranieri e forze di sicurezza. Ma la gran parte dei detenuti accusati di terrorismo non ha mai commesso reati o azioni che giustifichino la grave incriminazione. Come Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna imprigionato nel carcere di Tora da otto mesi e ancora in attesa di giudizio”.

Più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni).   Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre  60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati…Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi. 

Desaparecidos

Nell’Egitto di al-Sisi i “desaparecidos” si contano ormai a migliaia. E più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni).   Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre  60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati…Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi. 

Colpevole di ironia

Nell’Egitto del “faraone” al-Sisi si muore in una cella dove sei stato rinchiuso per avere girato un video ironico sul presidente-generale. Nello stato di polizia egiziano, l’ironia è una minaccia alla sicurezza nazionale, e chiunque si macchia di questo “delitto” va messo a tacere. Definitivamente. E’ la storia di Shady Habash. 

“Con i compagni di cella hanno gridato tutta la notte per chiedere un medico ma nessuno è intervenuto. Shady Habash è morto a soli 22 anni, da 26 mesi attendeva il processo. Era a Tora, la stessa prigione dove è detenuto Patrick Zaki”. Così all’agenzia Dire Amr Abdelwahab, un amico di Zaki, il ricercatore egiziano arrestato l’8 febbraio scorso con l’accusa di sedizione tramite i social network e da allora in detenzione cautelare nel carcere di massima sicurezza del Cairo.

Habash era stato arrestato nel marzo 2018 con l’accusa di “diffusione di notizie false” e “appartenenza a un’organizzazione illegale”, secondo la procura, ma mai processato. Aveva realizzato il videoclip della canzone “Balaha” (dattero), di Rami Issam, un cantante rock che si era fatto un nome durante la rivolta popolare del gennaio-febbraio 2011 contro l’allora presidente Hosni Mubarak e fuggito in esilio in Svezia.      Un tempo censurato in Egitto, il filmato è stato visto più di 5 milioni di volte su YouTube. Secondo la Rete araba per i diritti umani e l’informazione (Anhri) Habash è morto per “negligenza e mancanza di giustizia”. Il giovane regista non è mai stato processato. In una lettera pubblicata lo scorso ottobre dai suoi colleghi, Habash aveva scritto: “Ho bisogno del vostro sostegno per scampare alla morte. Negli ultimi due anni ho cercato di resistere essere la stessa persona che conoscete una volta uscito dal carcere, ma non posso più farlo”.

Ecco, Presidente Draghi. Crediamo che questi racconti siano sufficienti per supportare la richiesta di dare cittadinanza italiana a Patrick Zaki.  Camera e Senato hanno votato pressoché all’unanimità perché il suo governo porti a termine la pratica. Fino ad oggi, non è accaduto. Perché?

E se permette, un consiglio. Legga la lettera di Patrick. E’ una lezione per tutti noi. Anche per Lei,

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