Fosse comuni, pulizia etnica, fuga disperata di civili: Tigré, il nuovo Ruanda
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Fosse comuni, pulizia etnica, fuga disperata di civili: Tigré, il nuovo Ruanda

L'Unhcr, l’Agenzia Onu per i Rifugiati si è appellata alle autorità federali in Etiopia affinché garantiscano l’accesso urgente ai rifugiati eritrei nel Tigrè che hanno un disperato bisogno di assistenza

Guerra civile in Etiopia
Guerra civile in Etiopia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

2 Dicembre 2020 - 15.51


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La reiterazione della “dimenticanza” è il segno dei tempi. Brutti, grami. Tempi di lacrime di coccodrillo, di un trafiletto nascosto nelle ultime pagine tanto per aggiornare il numero dei morti, dei dispersi, dei disperati che fuggono da guerre, pulizie etniche, povertà assoluta, disastri ambientali. Una lacrima, una foto in prima pagina se c’è una bambina o un bambino ridotto a scheletro umano o con il corpicino senza vita, e poi cala il sipario. Cala, anche quando l’apocalisse umanitaria è in pieno svolgimento. Come nel Tigrè.

Apocalisse umanitaria

L’Unhcr, l’Agenzia Onu per i Rifugiati, in una nota, si appella alle autorità federali in Etiopia affinché garantiscano l’accesso urgente ai rifugiati eritrei nella regione del Tigrè che hanno un disperato bisogno di assistenza e servizi umanitari. 

Le preoccupazioni crescono di ora in ora.

 I campi avranno ormai esaurito le scorte di cibo, rendendo fame e malnutrizione un pericolo reale – come avverte l’Unhcr da quando il conflitto è iniziato, quasi un mese fa. L’Agenzia è anche allarmata per le notizie, non confermate, di attacchi, rapimenti e reclutamento forzato all’interno dei campi di rifugiati.

 L’Unhcr ribadisce con forza il suo appello per la sicurezza e l’incolumità dei rifugiati. Le difficoltà di comunicazione e di sicurezza che ostacolano l’accesso non rendono possibile verificare le attuali condizioni nei campi. 

Nessun civile deve diventare un bersaglio, e ogni misura possibile deve essere presa da tutte le parti per assicurare che siano tutti tenuti lontano dal pericolo, siano essi rifugiati, sfollati interni, comunità ospitanti o operatori umanitari.

 Per quasi due decenni l’Etiopia è stata un Paese ospitale per i rifugiati eritrei, ma ora si teme siano coinvolti nel conflitto. L’Unhcr fa appello al governo dell’Etiopia affinché continui ad assumersi le proprie responsabilità nell’ospitare e proteggere i rifugiati eritrei e permetta agli operatori umanitari di accedere alle persone che ora hanno disperatamente bisogno di aiuto.

 In Sudan, i rifugiati etiopi continuano ad arrivare a centinaia. Dall’inizio di novembre ne sono arrivati quasi 46.000. Più di 2.500 sono stati registrati solo da venerdì.   

 L’Unhcr ribadisce l’appello congiunto delle Nazioni Unite secondo il quale tutte le parti devono consentire alle persone colpite di circolare liberamente e in sicurezza in cerca di salvezza e assistenza, anche attraverso i confini internazionali e nazionali. Chiediamo il pieno rispetto del diritto di chiedere asilo.

 

Nel fine settimana, l’Unhcr ha lanciato con i suoi partner un piano di risposta umanitaria per assistere il crescente numero di rifugiati nel Sudan orientale. Il piano riunisce 30 partner umanitari che lavorano insieme al governo per fornire assistenza urgente e salvavita, inclusi riparo, acqua e cibo, per un costo di 147 milioni di dollari, che soddisferà le esigenze di 100.000 rifugiati per i prossimi sei mesi.

Pulizia etnica.

Scrive su LifeGate Andrea Barolini: “Siamo riusciti a entrare in città senza colpire civili innocenti”. Il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha annunciato con queste rassicuranti parolela riconquista di Mekele, principale centro del Tigrè, la più settentrionale delle nove regioni dell’Etiopia. In questo modo sarebbe concluso l’intervento dell’esercito regolare lanciato il 4 novembre contro i separatisti del Fronte popolare di liberazione del Tigrè, presenti nella zona ai confini con l’Eritrea, che avevano disconosciuto le istituzioni di Addis Abeba. Verificare con certezza la situazione sul posto è tuttavia pressoché impossibile. Secondo i ribelli, infatti,

“la guerra non è ancora finita”.  E non si sa se si stia ancora sparando nella regione (anche per via della chiusura degli accessi a internet). Una vicenda legata alla guerra del Tigrè è però emersa. In tutta la sua atrocità.

Il 9 novembre, cinque giorni dopo l’avvio dell’operazione militare da parte del governo dell’Etiopia, alcune centinaia di abitanti di un villaggio presente nella porzione occidentale della regione, nei pressi della frontiera sudanese, sono state uccise. Un’operazione di una violenza drammatica, tale da ricordare la tragedia vissuta dal Ruanda negli anni Novanta.

Gli abitanti di Mai-Kadra sono stati infatti ammazzati a colpi di bastoni, di machete e di accetta. E perfino strangolati con delle corde. Della strage, però, nulla è trapelato per alcuni giorni. Finché un giornalista dell’agenzia Afp, riuscito a recarsi sul posto, ha riscontrato la presenza di ‘decine di cadaveri in putrefazione, senza sepoltura, ammassati in un fossato sul ciglio di una strada’”.  Testimonianze raccolte da Amnesty International e dai reporter presenti sul posto evocano tuttavia una pulizia etnica premeditata: “Volevano sterminarci”, ha affermato un agricoltore di 23 anni, ferito ma sopravvissuto al massacro. 

Dopo aver analizzato fotografie, video e immagini dal satellite e aver parlato con testimoni oculari, Amnesty International è in grado di confermare che la notte tra il 9 e il 10 novembre c’è stato uno spaventoso massacro di civili nella città di Mai-Kadra, nello stato del Tigrè, si legge in un report di AI.

Numerose decine, ma probabilmente centinaia di civili, soprattutto lavoratori giornalieri, sono stati pugnalati o accoltellati a morte nel contesto dell’offensiva militare avviata il 4 novembre dal governo di Addis Abeba contro il Fronte popolare di liberazione del Tigrè (Tplf).

L’esatta dimensione del massacro è ancora incerta a causa del totale blocco delle comunicazioni. L’agenzia di stampa del governo dello stato di Amhara ha parlato di circa 500 morti. Una fonte locale che sta collaborando con Amnesty International per accertare l’identità delle vittime ha dichiarato che la maggior parte aveva documenti d’identità ahmara.

Amnesty International non è ancora in grado di confermare chi siano gli autori del massacro ma ha parlato con testimoni oculari che hanno chiamato in causa forze leali al Tplf, tra cui la Polizia speciale del Tigrè, che si sarebbero accanite sulla popolazione di Mai-Kadra dopo essere state sconfitte dalle forze armate federali.

Secondo quanto ricostruito dall’organizzazione per i diritti umani, nella giornata del 9 novembre le forze armate federali e la Forza speciale amhara hanno lanciato un’offensiva contro la Polizia speciale del Tigrè, terminata la quale si sono accampate nottetempo fuori da Mai-Kadra.  Al mattino sono entrate di nuovo in città e hanno scoperto il massacro.

Ma alcuni tigrini rifugiati in Sudan accusano invece l’esercito federale di aver deliberatamente assassinato i civili. Versione confermata dal Fronte di liberazione, che da parte sua ha declinato ogni responsabilità affermando di essere estraneo alla strage”.

L’Etiopia non ha più intenzione di accogliere nei campi profughi donne, bambini e uomini in fuga dal regime di Asmara (a meno che siano in qualche modo legati alle forze armate eritree). A denunciarlo all’Agenzia Fides è abba Mussie Zerai, sacerdote della eparchia di Asmara e da sempre sensibile ai problemi dei profughi e dei rifugiati del Corno d’Africa. 

Si vive attualmente una situazione delicata, conseguenza dell’accordo siglato nel 2018 tra le due nazioni. Quella che si sperava potesse essere un’intesa in grado di garantire pace e sviluppo alla regione, si sta infatti trasformando in un incubo per molti eritrei che non possono rientrare in patria, pena l’incarcerazione.     

Affamati ed esposti agli abusi

“Questa situazione e la chiusura di uno dei quattro campi profughi che ospita oltre 15.000 persone – spiega abba Mussie – ha prodotto molti profughi urbani senza nessuna forma di tutela senza diritti. Nel Tigrai (la regione settentrionale confinante con l’Eritrea) vagano migliaia di eritrei spesso ridotti alla fame, esposti a ogni forma di sfruttamento e abusi. Le persone più vulnerabili sono donne e minori, soprattutto minori non accompagnati molti abbandonati a sé stessi, con il rischio di finire vittime di predatori sessuali, riduzione a schiavitù lavorativo”.

 “Questa situazione sta aumentando la disperazione creando le condizioni per coloro che trafficano gli esseri umani, l’esodo verso Sudan e Libia va aumentando tutto a causa delle pessime condizioni di non accoglienza che trovano oggi in Etiopia”, continua abba Mussie.  Anche profughi giunti nei pressi dei centri urbani soffrono. Oltre alla perdita dei diritti devono far fronte anche alla pandemia e al costo della vita altissimo. Gli eritrei sono così vittime di sfruttamento, prostituzione e privazioni.    

 “Ci appelliamo al governo etiope affinché rispetti gli obblighi internazionali derivati dalla sua adesione alle convenzioni che tutelano i diritti di minori e diritti dei rifugiati”, conclude abba Mussie.

“Chiediamo all’Unione europea di investire risorse per rendere un’accoglienza dignitosa di questi profughi eritrei in Etiopia. Altrimenti l’esodo verso l’Europa aumenterà, con il triste conteggio di morti nel deserto e nel Mare Mediterraneo”.
 
L’analisi geopolitica

“Il punto è  – rimarca in una intervista ad Adnkronos Luca Puddu, della scuola superiore meridionale università Federico II Napoli 

che quello che Abiy Ahmed presenta come un confronto politico tra il governo federale e il Fronte Popolare di Liberazione del Tigré, che era il partito di governo uscente, rischia di diventare un vero e proprio conflitto interetnico e dunque non risolversi semplicemente con una eventuale sconfitta militare del Fronte Popolare. E’ di ieri la notizia che il partito tigrino ha ordinato la totale mobilitazione della popolazione. Il Fronte Popolare gode di un ampio consenso sul territorio”, nota Puddu, aggiungendo che ormai si va affermando “una retorica di scontro interetnico”. “Il rischio – prosegue lo studioso – è di creare delle fratture all’interno della società etiopica, sicuramente per quanto riguarda i rapporti con la società tigrina, fratture che si potrebbero ripercuotere anche sui rapporti fra il governo federale e altre costituenti etniche nel sud del paese, che vedono con apprensione le tendenze centralizzatrici del primo ministro e che potrebbero decidere di portare il conflitto politico su un piano militare”.

Il conflitto, avverte Puddu, rischia inoltre di aggravare la situazione umanitaria in una regione, quella del Tigré, dove vi è già “una crisi alimentare a causa dell’invasione di locuste che ha interessato la regione del Corno d’Africa negli ultimi mesi”.

“In termini politici più ampi – continua lo studioso – si tratta di un conflitto che rischia di destabilizzare l’intera regione. Alcune unità armate federali impegnate nel Tigrè, erano precedentemente schierate in Somalia. Questo rischia ad esempio di aprire un vuoto potere in Somalia, con il rischio di una nuova diffusione di movimenti armati che contestino l’autorità del governo federale somalo”. Quanto all’Eritrea, che confina con il Tigrai, il governo dell’Asmara “condivide le direttrici politiche di azione di Abiy Ahmed, la decisione di risolvere il problema tigrino con l’uso forza, ma naturalmente, nel caso in cui questo conflitto non si dovesse risolvere in tempi brevi, non può essere esclusa una sua propagazione verso il territorio eritreo, con una possibile destabilizzazione del regime eritreo”.

Tigré, il “nuovo Ruanda”. 

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