I pescatori in Libia prigionieri di Haftar tra trattative segrete e ricatti politici
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I pescatori in Libia prigionieri di Haftar tra trattative segrete e ricatti politici

Una partita che si gioca ad Ankara, a Mosca,  Il Cairo, a Riad, ad Abu Dhabi, prim’ancora che a Bengasi e a Tripoli.

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

30 Novembre 2020 - 17.13


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Tre mesi nelle mani del generale-ricattatore. Ostaggi in una partita che ha come posta in gioco il futuro della Libia e la spartizione della “torta” petrolifera. Una partita che si gioca ad Ankara, a Mosca,  Il Cairo, a Riad, ad Abu Dhabi, prim’ancora che a Bengasi e a Tripoli. Un ricatto che Globalist ha documentato in diversi articoli e interviste, rimarcando la marginalità a cui l’Italia si è autocondannata per via della sua politica oscillante, contradittoria, cerchiobottista.

Sotto ricatto

Parla Rosetta Marrone, la mamma di Pietro, il capitano del peschereccio Medinea, sequestrato in mare assieme al suo equipaggio lo scorso primo settembre dalle milizie del generale Khalifa Haftar. A Sputnik Italia dice: “Siamo preoccupati, il governo poteva fare di più per difenderli”.

“A Conte e Di Maio dico che devono riportarmi mio figlio, siamo quasi a Natale e io dalla vita non voglio più niente, solo questo regalo: riabbracciare il mio ragazzo e tutti gli altri pescatori”. Rosetta, 74 anni, è la mamma di Pietro Marrone, il capitano del peschereccio Medinea, uscito per pescare gamberi rossi e finito nelle mani dei miliziani del generale Khalifa Haftar lo scorso primo settembre. Da allora è rinchiuso assieme agli altri 17 membri dell’equipaggio nel carcere di El Kuefia, a sud di Bengasi, in Cirenaica. La Farnesina lavora per la liberazione, ma per questa donna battagliera di Mazara del Vallo, che in mare ha già perso un figlio 24 anni fa, le trattative procedono troppo a rilento. Il generale ha promesso al suo popolo che non libererà i pescatori finché Roma non aprirà le porte del carcere a quattro calciatori libici, condannati per aver provocato la morte di 42 migranti nel naufragio di un barcone nel 2015. Cedere al ricatto è fuori discussione, anche perché potrebbe creare un pericoloso precedente. Intanto i mesi passano e l’uomo forte di Bengasi continua a tenere sotto scacco il governo italiano. Le famiglie, dal canto loro, pressano Palazzo Chigi. “Se non saranno a casa entro Natale torneremo a Roma a protestare”, dice a Sputnik Italia.

Una brutta storia

“È una storia di gambero rosso e di oro nero. Di ostaggi usati come bottino da mettere all’asta in una partita a poker con troppi giocatori. Dal generale Haftar che cerca un appiglio per non finire definitivamente scaricato dai protettori russo-egiziani, alla Francia che può incassare la gratitudine dell’Italia dopo anni di contrapposizione in terra libica.- scrive Nello Scavo, l’inviato di Avvenire, che sulla Libia e il Mediterraneo è un’autorità, acquisita sul campo -,  Da novanta giorni 18 pescatori siciliani sono prigionieri del signore della guerra Khalifa Haftar. E nel negoziato, non sapendo più a che santo votarsi, anche la diplomazia maltese si offre per dare una mano e trovare una soluzione entro Natale. La mediazione è difficile. Ad ogni apparente punto di svolta sembra che i negoziatori debbano ricominciare daccapo. Il generale ribelle, che dopo aver fallito l’assalto a Tripoli sta tentando di riguadagnare peso, sta giocando la carta dello scambio di prigionieri, assicurando di voler riportare a Bengasi quattro libici arrestati in Sicilia cinque anni fa, condannati a 30 anni ciascuno in primo e in secondo grado a Catania per la morte in mare di 49 migranti nel 2015. Uno scambio impraticabile per l’Italia. All’inizio sembrava solo un modo per alzare il prezzo del rilascio, ma ora lo stesso Haftar è ostaggio delle sue promesse alla popolazione. Il governo di Tripoli ne approfitta per regolare i conti con Roma, accusata di aver scelto la politica del piede in due scarpe: le trattative riservate con le milizie e i trafficanti fedeli a Tripoli, intanto cercando con Haftar il dialogo sui pozzi petroliferi; l’inutile e costoso vertice di Palermo nel 2018 e le missioni navali che non contrastano per davvero il traffico di armi destinate ad Haftar e non proteggono neanche i pescatori siciliani. Non è un caso che a perorare la causa di un plateale scambio di prigionieri, certo più imbarazzante di un qualsiasi segreto pagamento in denaro o di concessioni politiche da non sbandierare, sia proprio il vicepresidente del consiglio presidenziale di Tripoli, Ahmed Maitig. ‘Credo la direzione sia quella dello scambio con i calciatori libici condannati al carcere in Italia’, ha dichiarato al Corriere della Sera. La polizia di Haftar, dopo avere minacciato l’incriminazione per traffico di droga a danno dei pescatori, al momento sembra avere desistito. In gioco c’è altro. L’Italia, ha ricordato Maitig ai negoziatori di Roma, conserva un vantaggio nel giocare da mediatore nel dialogo multilaterale tra Egitto, Turchia, Grecia e Libia. Un ‘dialogo’, viene fatto notare anche da fonti diplomatiche maltesi, ‘che può essere decisivo per la spartizione, l’esplorazione e lo sfruttamento dei giacimenti nel Mediterraneo”.

Sotto scacco

Una partita che non può risolversi in un “win win”. E l’Italia è sotto botta. 

Cedere al ricatto consegnando quattro criminali già condannati dalla nostra giustizia costituirebbe un pessimo segnale per il prestigio (residuo) di Roma e del suo governo che, ancora una volta, ha chiesto aiuto alla Ue senza ottenere nulla di concreto – annota Gianandrea Gaiani, direttore AnalisiDifesa – .Cedere al ricatto di Haftar significa potenzialmente doversi preparare anche ad accettarne di simili da Stati “canaglia”, leader tribali e ‘feldmarescialli’ d’Africa trasformando in preda preziosa ogni italiano che per lavoro o altre ragioni entri o si avvicini ad alcuni Stati instabili o governati da despoti o farabutti. Vale poi la pena sottolineare che in questi tre mesi il governo Conte non ha mai nemmeno provato ad ‘alzare l’asticella’ dell’escalation schierando un gruppo navale con elicotteri e forze speciali di fronte al Bengasi. Non necessariamente per attuare blitz (che non appartengono alla cultura politica, da sempre ‘calabraghista’ di un’Italia che peraltro schiera forze speciali tra le migliori del mondo), ma quanto meno per ricordare a tutti che per liberare i connazionali prigionieri ‘non si esclude nessuna opzione’ e per ribadire la libertà di navigazione nel Golfo della Sirte, acque internazionali su cui la Libia arbitrariamente esercita la sua sovranità da oltre dieci anni. Infine, la minaccia di un blitz militare italiano avrebbe forse indotto gli sponsor di Haftar a esercitare pressioni sul generale affinchè liberasse i pescatori, anche solo per evitare un’escalation militare pericolosa, specie ora che tutte le potenze che contano in Libia sono alle prese con un difficile processo di stabilizzazione. Due o tre navi militari italiane al largo di Bengasi avrebbero espresso una reale deterrenza e preoccupato tutti i protagonisti della crisi libica (in fondo l’Italia è pur sempre la maggiore potenza militare e navale del Mediterraneo) rafforzando un’azione diplomatica da sola troppo fiacca, come si è visto a oggi, per ottenere il successo. Il governo italiano ha infatti chiesto un aiuto agli Stati che sostengono Haftar ma finora i risultati sono stati nulli e la regione più facilmente comprensibile è che tutte le potenze che hanno un peso in Libia hanno tutto l’interesse a ridurre l’influenza di Roma, minata drammaticamente anche dalla vicenda dei pescatori”. Se vogliamo influire positivamente sull’esito finale del gioco e fare i nostri interessi a tutela dell’economia nazionale e dell’incolumità di nostri concittadini ingiustamente sequestrati e detenuti nelle galere di Bengasi, forse dovremmo rinunciare al ruolo di semplici pedoni e tentare di assumere un maggiore peso in una partita i cui pezzi forti sono turchi, francesi, russi, egiziani, giordani ed emiratini. Una partita alla quale non si può partecipare semplicemente recitando slogan a ‘tutela della legalità internazionale sancita dall’Onu’, ma che richiederebbe, al pari dei nostri vicini d’oltralpe, buone dosi di realismo e di coraggio”.

Chi conosce la realtà libica in ogni sua piega, è Giancarlo Elia Valori. Se vogliamo influire positivamente sull’esito finale del gioco e fare i nostri interessi a tutela dell’economia nazionale e dell’incolumità di nostri concittadini ingiustamente sequestrati e detenuti nelle galere di Bengasi, forse dovremmo rinunciare al ruolo di semplici pedoni e tentare di assumere un maggiore peso in una partita i cui pezzi forti sono turchi, francesi, russi, egiziani, giordani ed emiratini – rimarca Valori-. Una partita alla quale non si può partecipare semplicemente recitando slogan a tutela della legalità internazionale sancita dall’Onu, ma che richiederebbe, al pari dei nostri vicini d’oltralpe, buone dosi di realismo e di coraggio”.

Ma realismo e coraggio non albergano alla Farnesina. E a Palazzo Chigi. 

 

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