Trattati di Roma: non solo economia, serve una Unione sociale europea
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Trattati di Roma: non solo economia, serve una Unione sociale europea

Qual è stato il ruolo dell’Ue sulle politiche di welfare nei paesi membri? Quali proposte per un’Europa più sociale? L’analisi di Maurizio Ferrera

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24 Marzo 2017 - 12.33


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Creare una “Unione sociale europea” che faccia da contraltare a quella economica e monetaria. E’ questa per Maurizio Ferrera, docente di Scienze politiche all’Università degli Studi di Milano, la sfida per il futuro dell’Unione europea che quest’anno celebra i 60 anni dei Trattati di Roma che segnarono il primo passo verso una integrazione tra paesi attraverso l’istituzione della Comunità economica europea. Un momento fondamentale per la storia del Vecchio continente che ancora una volta a Roma, in questi giorni, tenta di rilanciare un percorso comune insidiato dal serpeggiante antieuropeismo, dai postumi della Brexit e provato da una crisi economica recente, dalla complessa gestione dei flussi migratori e non ultimo dal terrorismo che ancora una volta torna a far parlare di sé con l’attentato di Londra.

Un passaggio, quello che il prossimo 25 marzo porterà alla firma della dichiarazione per i 60 anni, tutt’altro che scontato, viste le recenti posizioni della Polonia, ma che potrebbe rilanciare il progetto di una casa comune a partire dall’auspicio espresso ultimamente dal presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, che chiede di “rimettere al centro un’Europa sociale”. 

Difficile fare un bilancio sugli ultimi 60 anni, ma una cosa si può affermare senza il timore di sbagliare: se non ci fosse stata l’Unione europea difficilmente ci ritroveremmo con lo stesso welfare state che abbiamo oggi. E il ragionamento non vale solo per l’Italia. “Le politiche di coesione hanno ricevuto un impulso di crescita negli anni 70 – racconta Ferrera -. Si è adottata l’idea secondo cui la Comunità economica europea non era solo qualcosa rivolta all’integrazione dei mercati, ma che doveva cominciare a svolgere qualche funzione di redistribuzione, di solidarietà interterritoriale per le regioni più sfavorite”. L’integrazione dei mercati, quindi, ha determinato un’apertura al mondo del lavoro e così anche dei diversi sistemi di welfare nazionali. Ed è così che si è arrivati ad individuare “standard sociali minimi in settori quali la sicurezza sul posto di lavoro, la sanità, la parità di retribuzione tra uomini e donne, la parità di genere all’interno dei sistemi di welfare.Tutte queste cose hanno portato un’armonizzazione verso l’alto dei sistemi nazionali. Se non ci fosse l’Unione, il welfare di oggi sicuramente sarebbe diverso per quanto riguarda la parità tra uomo e donna, che poi, negli anni 90 è diventata una parità anche rispetto ad altre dimensioni: razza, religione e orientamento sessuale. Dimensioni che vediamo meno, in termini di politica sociale, ma sono diritti civili con un’altissima valenza sociale”.

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Il peso dell’Ue sulle politiche di welfare italiane. Negli ultimi anni, il sistema adottato è stat quello degli “obiettivi condivisi dai paesi membri – continua Ferrera – per la modernizzazione dei sistemi di protezione sociale volti in parte a incoraggiare riforme e ristrutturazioni che prevedevano anche qualche taglio, ma anche a favorire l’inclusione”. E gli effetti di queste iniziative li abbiamo visti anche in Italia, dove per la prima volta ci sarà un piano nazionale contro la povertà. “Quel poco che si è fatto sul tema dell’inclusione e della povertà lo dobbiamo essenzialmente alle pressioni dell’Ue – aggiunge Ferrera -. Oppure la riforma degli ammortizzatori sociali: per effetto della pressione dell’Ue siamo arrivati al Jobs Act che, nella parte che riguarda gli ammortizzatori sociali, ha finalmente messo insieme un sistema allineato a quello di altri paesi europei”. Eppure, nonostante i risultati positivi, spiega Ferrera, “si è creata una asimmetria tra l’Europa sociale e quella economica, tutto a discapito della prima. Un’asimmetria che adesso bisogna in qualche modo bilanciare”.

Unione sociale europea: una proposta ambiziosa. Come fare, allora, per rimettere al centro l’Europa sociale? Per Ferrera, una proposta “ambiziosa, ma anche ragionevole” ci sarebbe. “Quella di istituire una Unione sociale europea, che faccia da contraltare all’Unione economica e monetaria – spiega -. Non un welfare state federale europeo, visto che ciascun paese ha le proprie tradizioni, pratiche e preferenze, ma una unione di stati sociali nazionali”. Per prima cosa, spiega Ferrera, bisogna “rafforzare lo spazio di cittadinanza europea”, ma anche investire risorse dove necessario. Occorre “razionalizzare il diritto che tutti i cittadini europei hanno di entrare e di uscire dai sistemi di welfare di altri paesi, in caso di spostamento per motivi di lavoro, ma non solo – aggiunge -. L’Unione europea dovrebbe istituire anche un fondo che alleggerisca il costo che alcuni paesi subiscono rispetto ad altri perché destinazioni particolarmente ambite. Lo spazio della cittadinanza europea dovrebbe essere confermato, ma in qualche modo sostenuto finanziariamente da Bruxelles”.

Le ragioni di una Unione sociale. Sebbene il progetto europeo abbia portato tanti vantaggi, non bisogna dimenticare che in alcuni casi l’integrazione ha creato anche delle difficoltà. Per questo, spiega Ferrera, a quelli che possono essere rischi condivisi occorre “dare una risposta comune – aggiunge -, attraverso l’istituzione di schemi di assicurazione a livello comunitario e sovranazionale. Si parla molto, a livello europeo, di una assicurazione contro la disoccupazione, per esempio. C’è un veto tedesco, ma bisogna convincerli che non ha senso perché la presenza di questa Unione economica e monetaria espone i singoli paesi ad un rischio di shock asimmetrici e temporanei. Siccome sono il risultato di una unione comune, è giusto che questi rischi siano compensati o attutiti da forme di assicurazione comune. Non costerebbe nemmeno tanto”. Altro rischio da “mutualizzare” per Ferrera è quello della stagnazione, “un altro campo in cui l’Unione sociale europea potrebbe avere un ruolo”, ma tra i temi centrali c’è anche quello della povertà. “Durante la crisi abbiamo visto l’enorme aumento della povertà assoluta e materiale nei paesi più periferici – spiega Ferrera -. Abbiamo visto tutti nei telegiornali alcuni cittadini greci costretti a rovistare nelle pattumiere per trovare cibo. Fenomeni di questo genere non possono essere soltanto una responsabilità dei governi nazionali. Bisogna che l’Unione europea si faccia carico di questo compito: fare in modo che nessun cittadino europeo rimanga o corra il rischio di rimanere senza mezzi di sussistenza. Esiste già un piccolo fondo che si chiama Fondo europeo per l’aiuto agli indigenti creato nel 2014, ma deve essere potenziato e diventare un simbolo di solidarietà paneuropea”.

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Un terzo settore d’avanguardia. Un ruolo “significativo” nella futura Unione sociale europea dovrebbe averlo il terzo settore, aggiunge Ferrera, ma servono “incentivi di natura fiscale, come avviene in altri paesi”. Il ruolo del terzo settore in questo contesto dovrebbe essere “di complemento rispetto al welfare pubblico – spiega Ferrera – riguardo a quei bisogni che non sono ancora coperti dal welfare pubblico o che lo stesso non riesce a raggiungere perché agisce sulla base di criteri standardizzati, mentre i bisogni oggi variano a seconda di moltissimi fattori non necessariamente tutti tenuti in conto da un intervento pubblico. Un ruolo di avanguardia, per sperimentare soluzioni che poi possono essere anche trasposte nel welfare pubblico, e poi anche per mobilitare risorse, sia finanziarie che di altruismo. Anche qui si stanno sperimentando nuovi strumenti, come i social bond, i social impact bonds, forme di assicurazione mutualistica integrativa. C’è un fiorire di sperimentazioni volte a inventare e generare prestazioni sociali innovative che possano essere finanziate attraverso risorse non pubbliche che sono piuttosto significative e che potrebbero essere molto utili a colmare le lacune del welfare pubblico e incrementare la protezione senza generare nuovo debito pubblico”.

Populismi sopravvalutati, ma serve un segnale. Qualche passo verso una Europa più sociale, in realtà è stato già fatto con il Trattato di Lisbona.“Il trattato ha moltissimi articoli di natura sociale – spiega Ferrera -. Nei primissimi, ad esempio, dice che uno degli obiettivi della Ue è quello di promuovere il progresso, la giustizia sociale, la protezione. Il trattato ha ridefinito la missione del progetto di integrazione da una visione prevalentemente economica a una a tutto campo, compreso il campo sociale, e ha anche inserito alcuni dispositivi istituzionali come la clausola che dice che in tutti i suoi atti legislativi devono tenere in conto l’impatto sociale degli stessi”. Passi avanti che non hanno frenato l’avanzata di un “populismo sovranista” che dopo la Brexit agita le istituzioni europee, ma che per Ferrera è “sopravvalutato”. “Fa la voce grossa, grida – spiega Ferrera – e viene in parte corteggiato per stupidi opportunismi, in parte non contenuto dalle forze politiche più tradizionali”. L’apocalisse dell’Unione europea o anche una ulteriore perdita di pezzi per la strada sembra essere fuori discussione. “Se guardiamo i dati, in realtà gli elettori populisti, reali o potenziali, sono non più del 30 per cento nei vari paesi, il che significa che il 70 per cento non sono così, anzi – spiega Ferrera . Preferiscono stare dentro l’Ue, tenersi l’euro. Sono persino disponibili a forme di solidarietà paneuropea. Il 60 per cento dei cittadini tedeschi sarebbe favorevole a istituire quello schema di assicurazione europea di cui parlavo”. Per Ferrera, c’è una “maggioranza silenziosa” che è ancora “pro Europa, anche se è eurocritica perché non le piace questa Europa”. Una fetta di popolazione “politicamente sensibile a progetti di rilancio dell’integrazione dell’Unione europea purché diversi da quello basato su la disciplina dei conti pubblici, sull’ossessione dell’austerità che ha prevalso sino ad ora. La domanda c’è da parte degli elettori ed è vastamente superiore a quella di chiusura, di ripiegamento nazionalistico e sovranista. Questo significa che le élite politiche hanno una grande responsabilità in questo momento”. Un punto di partenza per un rilancio sociale, oltre alla dichiarazione del 25 marzo, potrebbe essere il “Pilastro europeo dei diritti sociali”, in agenda a fine aprile. “A seconda di come verrà declinato – conclude Ferrera -, può diventare il primo passo verso l’Unione sociale europea o l’ennesima dichiarazione simbolica che rimane lettera morta sul piano operativo. Ha molto potenziale nell’ottica di una Unione sociale europea, ma è un potenziale che va coltivato”. (ga)

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