di Antonio Salvati
Ogni qual volta si affrontano le questioni del pianeta carcere abbiamo la concreta percezione di una situazione “fuori controllo”. I riflettori sul tema del carcere e del suo ruolo riabilitativo in Italia restano sempre accesi, soprattutto per via dell’ennesima notizia di cronaca sul detenuto che si è tolto la vita o che fa uno sciopero della fame, sulla denuncia di sovraffollamento o violenza interna e via dicendo. Nello stesso tempo, in merito al carcere e alle esperienze dei detenuti si è scritto molto. Mi vengono in mente due scritti italiani letti da giovanissimo: Le mie prigioni di Silvio Pellico, del 1832, che descrisse la sua detenzione in seguito alla sua adesione ai moti carbonari, e le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, una raccolta di centinaia di lettere scritte durante i suoi sette anni di prigionia, tra il 1927 e il 1934.
Pertanto, il volume del detenuto Alessandro Limaccio, Vivere il carcere (Nep edizioni 2024 pp. 190, € 16,00) si aggiunge ad una lunga serie. Limaccio da 28 anni sconta una condanna all’ergastolo per delitti di mafia. Ha sempre proclamato con forza la propria innocenza, rinunciando a chiedere qualsiasi beneficio. Il libro – spiega l’autore – è un’etnografia del “mondo carcere”, che mette in evidenza la figura del detenuto rientrante nella categoria “Alta Sicurezza” e la sua reale volontà di reinserimento culturale e socio-lavorativo nella società civile.
Il libro ha il pregio di evidenziare la valenza per il recupero dei detenuti della pratica dell’espressione artistica, letteraria e teatrale. Leggere e un esercizio che educa al discernimento, alla coltivazione della curiosità e alla conoscenza. Esercita alla critica e alla scelta. Aiuta a capire la propria umanità, a vagliarla così com’è. Leggendo riusciamo ad avere uno sguardo attento, impariamo a stare al mondo, dentro il mondo e con il mondo. Anche quello del carcere. Potremmo dire che leggere è un atto di apertura verso sè stessi e verso gli altri, guardando la realtà oltre la superficialità della prima impressione. Ha scritto Recalcati: «Un libro non è forse fatto per essere, come un mare, sempre aperto? Non è questo il primo gesto di ogni lettore: aprire il libro, tenerlo aperto sulle ginocchia, sul tavolo, sul letto? Che senso avrebbe un libro che restasse chiuso, che non fosse mai aperto? Un libro chiuso, in fondo, e un controsenso: non e un libro. Come il mare, il libro e una figura straordinaria dell’Aperto. Apre e non chiude il mondo. Un libro e un mare e non un muro. Se un libro e un mare e perché la sua natura e quella di sovvertire la tentazione del muro, di contrapporsi a ogni spinta che vorrebbe segregare, recintare, rinchiudere all’Aperto del mondo. Il libro è un mare perché porta con sé l’inesauribilità della lettura, in quanto ogni libro può essere letto in mille modi diversi e può dar luogo a Infiniti altri libri, perché la “proprietà” del libro, come il mare, non è mai, infatti, una proprietà che si può acquistare o della quale si può disporre in modo esclusivo […] Ogni libro e un mare e come il mare ogni libro e sempre aperto. Mentre ci apre a mondi impensati, inauditi, non ancora visti, non ancora conosciuti, apre la testa del lettore, ovvero lo aiuta a rinunciare alla tentazione del muro». In tal senso, la lettura e la letteratura non rappresentano la modalità per scappare dal mondo – quante volte sentiamo parlare con termini denigranti di romanzo di evasione, utile lettura per allontanarsi dalla realtà per qualche ora (o giorno) –, ma forniscono uno sguardo nuovo e vivo sul mondo e la realtà. A proposito di letture di evasione – talvolta, impropriamente intesa come lontana dalla realtà e con fini esclusivamente ricreativi – come non pensare al profondo impatto esercitato dai laboratori teatrali e dalle biblioteche operanti nelle carceri italiane. Insieme agli amici della Comunità di Sant’Egidio, ho frequentato diverse carceri per oltre vent’anni e ho potuto sperimentare direttamente cosa rappresentano le attività delle biblioteche nelle carceri. Ricordo in particolar modo l’attività meritoria delle biblioteche comunali di Roma che dal 1999, grazie ad una convenzione siglata tra il Comune e il Ministero della Giustizia, hanno iniziato ad essere presenti anche nei penitenziari romani, consentendo anche ai detenuti – insieme ai cittadini liberi – di accedere a un patrimonio culturale comune in grado di soddisfare variegati interessi umani e culturali. Un investimento sulla cultura coronato da successo, grazie anche all’impegno attivo di molti detenuti divenuti bibliotecari. Un successo non solo legato all’ingente numero dei fruitori. Ricordo, nel 2000, gli incontri con gli scrittori Andrea Camilleri, Erri De Luca, Domenico Starnone, Marco Lodoli, Edoardo Albinati, che raccontarono le loro vite e le loro storie mettendole in mezzo a quelle degli altri, trasformando l’angolo buio che c’è in tante persone in una pagina scritta, in un pugno di versi. In carcere, il libro è veramente l’unica evasione possibile. Molti hanno sottolineato la valenza trattamentale dell’iniziativa delle biblioteche in carcere che offre non solo l’opportunità di utilizzare al meglio il tempo della detenzione, ma di valorizzare e rendere effettiva l’attività della lettura che per la maggior parte dei detenuti era un’esperienza sconosciuta. Ho conosciuto detenuti divenuti dipendenti della lettura. In questo senso hanno vissuto l’etimo del verbo leggere che – come ci ricorda la Treccani – è “raccogliere”, un’azione diversa da quella di accumulare. Raccogliere implica un vagliare attento, una selezione accurata di quello che si mette insieme. Per estensione, quindi, leggere significa scegliere, avere cognizione di causa, essere consapevoli. Potremmo dire possiede un altro verbo: accogliere. Raccogliere presso di sé. Fare proprio.
La letteratura è uno spazio democratico in cui non c’è posto per gli autoritarismi; il suo obiettivo non è persuadere. Possiede una potenzialità pedagogica e di relazione considerevole, consentendo a chiunque di scoprirsi e riscoprirsi attraverso di essa. La lettura – anche in carcere – fornisce, l’incontro con l’altro e con noi stessi. Leggere, rileggere e analizzare un testo – come ho potuto vedere anche nell’esperienza letteraria dei detenuti – può rivelarsi un’attività molto seria, uno stravolgimento che puo modificare sensibilmente i nostri punti vista. Tatjana Kasatkina – filologa, filosofa, massima conoscitrice e studiosa di Fedor Dostoevskij – scrive: «[…] Come qualsiasi personalità con cui entriamo in rapporto, anche il testo agisce, fa qualcosa a chi si relaziona con lui realizzando, come accadeva nell’alchimia, un’influenza reciproca: noi influiamo sul testo e il testo agisce su di noi; ci trasformiamo reciprocamente […]». La lettura non sottrae alla realtà di tutti i giorni. Anzi, ci aiuta a stare dentro la realtà con noi stessi e vedere chi siamo, a meglio comprendere ciò che ci circonda. Se ci commuoviamo, se ci provoca rabbia, indignazione, se ci immedesimiamo o parteggiamo per un personaggio o un altro non e certo perché stiamo evadendo, ma esattamente per il suo contrario: significa che e scattato il nostro coinvolgimento e quanto più ci coinvolgiamo tanto più diventiamo ricettivi e reattivi.
Limaccio ci invita a riflettere che un ordinamento punitivo ancora incentrato essenzialmente sul carcere non è efficace e non può più reggere. Soprattutto per l’alto numero di detenuti con un vissuto personale fatto di sradicamento, di dipendenza, di sofferenza psichiatrica, di marginalità sociale, di solitudine, di violenze subite, di disperazione. Anche i migliori operatori del sistema penitenziario faticano a trovare modalità idonee ad attivare un percorso di reinserimento. Serve un ripensamento generale, un’alleanza – tra chi si trova in carcere e chi in carcere opera – per lasciarsi interrogare in profondità sulle radici della situazione attuale. Da notare che la Costituzione non parla mai di carcere. L’art. 27 si riferisce al sistema delle pene al plurale e richiede che le pene non siano mai contrarie al senso di umanità e debbano tendere alla rieducazione del condannato. Un invito a umanizzare le carceri, come si sforzano di fare quotidianamente con il loro impegno molti operatori di giustizia e i tanti volontari. Penso soprattutto al prezioso lavoro svolto da decenni dagli operatori della Comunità di Sant’Egidio. Come restituire oggi alla pena il “volto costituzionale della pena” (felice e intramontabile espressione della Corte costituzionale contenuta nella sentenza n. 50 del 1980)?
Dalla sapienza biblica, oltre che dalla sua conoscenza diretta e personale di tanti detenuti, il cardinale Carlo Maria Martini trasse la convinzione che «l’uomo vale, che l’uomo e educabile, che l’uomo può essere salvato». E anche quando fosse colpevole, l’uomo «non è bestia da domare, bersaglio da colpire, delinquente da condannare, nemico da sconfiggere, mostro da abbattere, parassita da uccidere».