Capitalismo di sangue: analisi su conflitti globali e crisi economica
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Capitalismo di sangue: analisi su conflitti globali e crisi economica

Fabio Armao esplora il 'Capitalismo di sangue' in un'analisi approfondita sulla guerra in Ucraina e la crisi economica mondiale, evidenziando l'intreccio tra potere politico ed economico nella società contemporanea

Capitalismo di sangue: analisi su conflitti globali e crisi economica
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25 Marzo 2024 - 01.11


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di Antonio Salvati

L’aggressione della Russia all’Ucraina sembra aver riportato il mondo sull’orlo di un nuovo conflitto globale. Chi è nato e cresciuto nel Novecento si era illuso di aver già visto il peggio rispetto alla guerra nelle sue massime espressioni: le trincee della Prima guerra mondiale, l’olocausto, le camere a gas dei campi di sterminio e i bombardamenti terroristici delle città della Seconda. Nella seconda metà del Novecento abbiamo vissuto sotto la minaccia, termonucleare, dell’equilibrio del terrore per l’intero corso della Guerra fredda. Dopo il 1989, tanti avevano creduto che si fosse aperta per la democrazia una finestra di opportunità senza precedenti. Consapevolezza quasi subito delusa in maniera brutale dalla guerra nella ex Jugoslavia e dall’assedio della città di Sarajevo (1992-1995). Come siamo arrivati a una guerra devastante in Ucraina e a una crisi economica mondiale incombente? Come potremmo ancora evitare che finisca del tutto fuori controllo?

A queste e altre domande prova a rispondere Fabio Armao, professore di Relazioni internazionali all’Università di Torino, con il suo volume Capitalismo di sangue. A chi conviene la guerra (Feltrinelli 2024, pp. 124, € 15). Per Armao poco non si possono interpretare gli eventi odierni appellandosi a vecchie categorie, come quelle adoperate per spiegare le guerre mondiali del secolo scorso: la politica di potenza, l’imperialismo, i nazionalismi. L’invasione dell’Ucraina va intesa come una conseguenza «della globalizzazione fuori controllo e si inserisce nel filone delle “nuove guerre”, che vedono protagonisti – insieme alle forze armate tradizionali – mercenari, terroristi, mafiosi e nelle quali la logica privatistica del mercato si fa gioco delle ideologie». La società odierna è assai differente da quella di inizio Novecento e propone un modello di relazioni tra politica e mercato, tra pubblico e privato, diverso e in gran parte originale rispetto ad allora. Dopo il crollo del comunismo, abbiamo assistito ad una grande trasformazione, tuttora in corso, ed espansione del mercato autoregolato, aprendo al capitalismo territori di conquista illimitati. La finanziarizzazione dell’economia, la crescita esponenziale dei redditi da capitale rispetto a quelli da lavoro, l’aumento inarrestabile delle diseguaglianze sono – osserva Armao – «tutti aspetti di un capitalismo in delirio di onnipotenza; cui, oltretutto, fa da contraltare la contemporanea ritirata dello stato democratico – la graduale distruzione del welfare, l’abbandono delle lotte per i diritti, la rinascita dei fascismi». Questa grande trasformazione coinvolge anche la guerra, attraverso un’integrazione peculiare tra dimensioni pubbliche e private, tra sfera politica e sfera economica, tra stati belligeranti a tutti gli effetti, sostenitori di una delle parti in lotta e semplici spettatori passivi. In un tempo di forte ridimensionamento degli spazi pubblici in politica, in cui prevale la privatizzazione clanica – definita da Armao “oikocrazia” (dai termini greci kratos, potere, e oikos, che identifica la casa, la famiglia e il clan), una forma di governo ormai pressoché universale che riscopre il clan come struttura di riferimento e antepone gli interessi privati dei propri membri a quelli pubblici collettivi – è inevitabile «che anche in campo bellico sia sempre di più il mercato a dettare le regole, alimentando le pratiche di subappalto a corporation private di funzioni un tempo monopolio dello stato: dalla logistica, all’addestramento delle truppe, dall’intelligence ai ruoli di combattimento (per non parlare dell’industria degli armamenti, privatizzata già dalla fine dell’Ottocento)». La guerra globalizzata trae in inganno, sembra meno pericolosa, perché su tanti fronti: la “guerra mondiale a pezzi” secondo la felice espressione del Papa. Ma ormai si è riabilitata la guerra come strumento per affermarsi o risolvere i conflitti. Del resto – scrive Fabio Armao – «la guerra conviene»: «al punto da fare della violenza stessa uno dei principali e più redditizi settori del capitalismo del terzo millennio». Commercio delle armi, più volte condannato da Papa Francesco, «che muove i fili delle guerre con tutti i soldi pubblici destinati agli armamenti». No alla guerra «viaggio senza meta, sconfitta senza vincitori, follia senza scuse».

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Il tempo – avverte Armao – è quasi scaduto: le democrazie devono riprendere terreno sul “capitalismo di sangue”, consapevoli del fatto che una guerra globale renderebbe inutile il capitalismo stesso. È la preoccupazione di Papa Francesco sul quale si sono riversate parole pesanti dopo l’espressione della “bandiera bianca”. Che non significa resa, ma che solo la diplomazia può porre fine alla guerra. Francesco ha paura di una guerra più grande che travolga tutti. Niente è scontato, perché può darsi che l’equilibrio conflittuale duri, ma anche che degeneri presto. Intanto si muore nelle guerre. Il Papa pensa agli ucraini che, soprattutto, pagano il prezzo della guerra: distruzioni, bombardamenti, morti, mutilati, profughi (sei milioni) fuori dal Paese. Da qui l’invito forte a cercare di negoziare! La Chiesa resiste alla guerra, perché sa, dopo secoli nella storia, che «ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato». Questa espressione ineccepibile di Papa Francesco dovrebbe essere sufficiente a distogliere i potenti dal produrre ulteriori macerie fisiche, economiche e sociali.

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Viviamo in tempi in cui la razionalità va sciamando. Tanta irrazionalità, conflitti aperti, odio e violenza diffusi, fanno sì che ci sia un clima che ricorda il 1914, 110 anni fa, e la vigilia della guerra che scoppiò per un attentato a Sarajevo. Un clima mirabilmente descritto da Stefan Zweig ne Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo (Garzanti 2022, pp. 384, € 14). L’intero Ottocento – ricorda Zweig – fu «sinceramente vittima dell’illusione che con il solo potere della ragione si potesse risolvere ogni conflitto». A partire dall’ultimo decennio del XIX secolo si era «rinvigorito l’organismo economico dei paesi, la tecnologia aveva accelerato i ritmi di vita, le scoperte scientifiche erano l’orgoglio della nuova generazione; cominciava un’ascesa che si poteva avvertire quasi contemporaneamente in tutte le nazioni della nostra vecchia Europa. Le città divenivano di anno in anno più belle e più popolose». Mai l’Europa fu più forte, ricca, bella, «mai credette con più intima convinzione a un futuro migliore; e nessuno, al di là di un paio di vegliardi rugosi, rimpiangeva i “bei vecchi tempi”». In quegli anni molti assorbirono lo slancio vitale dell’epoca, «attingendo nuova fiducia personale da quella collettiva. […] Ma tutto ciò che ci colmava di gioia rappresentava», senza che in tanti non se ne accorgessero «anche un pericolo». Con la fiducia verso l’avvenire arrivarono anche le nubi. Forse il progresso era stato troppo rapido, «e la percezione della forza seduce sempre uomini e Stati a farne uso e abuso». Difficile per Zweig individuare un motivo ragionevole, una causa determinante che portò alla Grande Guerra. Certamente influì «quel sentimento che amavamo al di sopra di ogni cosa: il nostro comune, sconfinato ottimismo. Ognuno, infatti, era convinto che l’altro avrebbe fatto un passo indietro all’ultimo momento; e i diplomatici diedero il via al gioco del bluff reciproco». Il 28 giugno 1914, a Sarajevo, si distrusse in un solo istante «il mondo della sicurezza e della ragione creatrice in cui eravamo nati, cresciuti e che sentivamo come nostro, sfracellandolo in mille pezzi come un vaso di argilla vuoto». […] «Inerme e impotente, dovetti essere testimone della inconcepibile ricaduta dell’umanità in una barbarie che si riteneva da tempo obliata e che risorgeva invece col suo potente e programmatico dogma dell’anti-umanità». Vengono alla mente anche le considerazioni contenute nel libro col quale Christopher Clark, docente a Cambridge, ricostruì nel 2012 come l’Europa arrivò alla Grande Guerra. Il libro che si intitola I sonnambuli mostra come quanti detenevano le leve del potere apparentemente erano vigili, ma di fatto si mostrarono incapaci di vedere l’orrore che stavano per scatenare. Non a caso, nell’ultimo Rapporto Censis, pubblicato nel dicembre scorso, gli italiani vengano definiti con lo stesso termine: “sonnambuli”. Ovvero «ciechi dinanzi ai presagi». Leggiamo nel Rapporto: «Alcuni processi economici e sociali largamente prevedibili nei loro effetti sembrano rimossi dall’agenda collettiva del Paese, o comunque sottovalutati. Benché il loro impatto sarà dirompente per la tenuta del sistema, l’insipienza di fronte ai cupi presagi si traduce in una colpevole irresolutezza».

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Occorre che le democrazie riprendano terreno sul “capitalismo di sangue”. Magari ascoltando e raccogliendo il grido di pace proveniente da tante parti del mondo per mettere in movimento le persone e le coscienze, far maturare idee, sentimenti e speranze. Ha detto Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio: «Non siamo consegnati a un destino ignoto, su cui non si può esercitare nessuna influenza. Si può ascoltare, comprendere, discutere: i processi messi in moto, talvolta, travolgono le resistenze e mettono in atto movimenti che vanno ben aldilà dei singoli. C’è anche una forza della ragionevolezza della pace, risposta all’anelito di tanti: molte volte è un’energia sottovalutata».

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