Kurt Cobain, più pesante del cielo
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Kurt Cobain, più pesante del cielo

Più pesante del cielo" di Charles R. Cross racconta la vita tormentata e l'impatto della musica di Kurt Cobain

Kurt Cobain, più pesante del cielo
Kurt Cobain
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14 Aprile 2024 - 02.19


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di Rock Reynolds

Ci sono storie che sembrano essere state concepite ancor prima di passare per la mente di chi le racconta. Ci sono vite la cui fine pare nota ancor prima che nascano. Il mio nome, come sapete, sembra un inno a quella musica di cui Kurt Cobain è stato l’ultimo eroe in grado di lasciarvi una traccia duratura. Non sono mai stato un suo fan, ma ne riconosco da sempre alcuni tratti fortemente originali.

Se il buongiorno si vede dal mattino, l’alba della storia dei Nirvana non avrebbe potuto essere più fosca e indicativa di un percorso a ostacoli destinato alla rapida estinzione. La band, infatti, aprì il suo primo concerto pubblico con “Downer”, uno dei primi pezzi che Cobain avesse scritto, una sorta di zoppicante manifesto dell’arte di Kurt: “Distribuite lobotomie/Per salvare qualche famigliola”, era l’eloquente ritornello. E non è che il resto dello show sia stato all’insegna di serenità e luce. D’altro canto, quel senso di abbandono che la sua famiglia disfunzionale e il continuo vagare da una casa all’altra come l’ultimo dei senzatetto devono avergli instillato non era il carburante giusto per brani più edificanti. Ma furono proprio “l’atteggiamento, la frenesia, i ritmi fuori fase… gli accordi di chitarra estremamente melodici… e soprattutto l’ipnotica intensità di Kurt” a guadagnargli consensi crescenti specialmente tra i coetanei che conoscevano bene almeno un aspetto delle sue difficoltà: lo squallore sociale e il senso di isolamento derivanti dall’essere nati e cresciuti in una monotona, bigia, povera, triste, fredda, disperata località di provincia nel Nordovest degli USA, dove l’unico settore economico trainante era quello del legname. I paradisi artificiali di cui Kurt avrebbe cantato sempre più spesso e con crescente disillusione erano ben noti a milioni di ragazzi americani. Ed erano anni, quelli, che avevano in sé una mancanza disperante di fiducia nel domani e un’identità collettiva ancora da plasmare. Certo e per fortuna, non tutti avevano sulle spalle il fardello insostenibile di una famiglia così disastrata e assente. E non tutti avevano tare psichiatriche ereditarie come quelle della famiglia di Kurt, da parte del padre, con svariati suicidi destinati ad arricchirsi di almeno un ulteriore episodio autolesionistico. Ma il quadro complessivo dell’ambiente di Aberdeen, stato di Washington, una cittadina portuale in una baia protetta sul Pacifico, a poca distanza dall’Olympic National Park e a un paio d’ore d’automobile da Seattle, non era consolante quanto la bellezza mozzafiato degli immancabili boschi di conifere a strapiombo sull’oceano.

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Più pesante del cielo – Vita di Kurt Cobain (Il Saggiatore, traduzione di Giancarlo Carlotti, pagg 460, euro 26) di Charles R. Cross traccia il percorso umano, ancor più che musicale, del biondo angelo di Aberdeen. Naturalmente, la storia dei Nirvana è esplorata in profondità, ma a rendere l’opera quanto mai interessante è la ricostruzione psicologica e sociale del mondo di Kurt, senza mai abbassarsi a semplicismi, vuote cronache e inutili pettegolezzi. La realtà è che Kurt Cobain non rappresentava il soggetto ideale per una vicenda all’insegna di lustrini e red carpet.

Nato da due tipici, o quasi, genitori “all American” nella deprimente, uggiosa, piovosa, noiosa provincia dello stato di Washington, Kurt fu vittima del DNA autodistruttivo della famiglia e dell’incapacità dei genitori di fornire una guida affettiva prima ancora che educativa alla sua giovane vita.

Charles R. Cross fa, ovviamente, qualche riferimento e paragone, per meglio contestualizzare la parabola effimera dell’astro Kurt Cobain. Un accostamento a certi travagli di John Lennon, per esempio, viene spontaneo pure a me. In entrambi i casi, si nota una profonda fragilità emotiva, figlia, nel caso di John, della mancanza di una figura paterna e, in un secondo momento, della perdita improvvisa e tragica della madre spesso assente ma con la quale c’era stato un riavvicinamento e, in quello di Kurt, della presenza di un padre debole, a sua volta alla ricerca di una donna in grado di dargli attenzioni che la madre naturale di Kurt non gli aveva saputo dare, e di una mamma distante, non del tutto anaffettiva ma certo non calorosa. La latente mancanza di autostima è un tratto molto presente in Cobain, a differenza di Lennon, ma in tutti e due si percepisce un’insicurezza generata dalla mancanza di affetto e dalla ricerca spasmodica di quel tipo di sentimento, un’insicurezza talvolta mascherata da atteggiamenti spavaldi, aggressivi. Entrambi amavano disegnare e lo sapevano fare bene, mostrando una vera e propria ossessione per le deformità umane e gli aspetti più raccapriccianti del vivere. Sia Kurt che John tendevano ad anestetizzare il dolore con alcol e sostanze. Sia Kurt che, soprattutto, John erano dotati di un umorismo sottile, anche se lo esprimevano in modo diverso. E, naturalmente, sia il fondatore dei Beatles che quello dei Nirvana erano soggetti a lunghi e disperati periodi di depressione. Le analogie si fermano qua, anche perché il modo in cui questi due artisti si espressero, scavando un solco indelebile nella storia della musica moderna, è lontanissimo. Qualcuno ha accostato Kurt Cobain a Jimi Hendrix, probabilmente perché entrambi provenivano dallo stato di Washington e sono morti giovani, entrando nel famigerato “Club dei 27”. Ma, mentre Kurt decise consciamente di porre fine alla sua esistenza terrena, la morte di Jimi, seppur facilitata dagli eccessi, fu un incidente. Un colpo di fucile in testa, peraltro dopo almeno un altro tentativo fallito di farla finita, non lascia spazio ai dubbi sulla morte di Kurt.

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La parola “grunge” – termine indicante qualcosa di ripugnante – usata per descrivere la sua musica e la musica della scena di Seattle della fine degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta – anche se, in realtà, i Nirvana non erano di Seattle, a differenza di band già piuttosto famose come Soundgarden e Mudhoney – a Kurt non piaceva tanto. Eppure il suono che gli stava a cuore era lancinante, volutamente fastidioso. La natura melodica del Kurt compositore stride con le chitarre distorte al limite della cacofonia e con la sezione ritmica debordante, oltre che  con i suoi racconti di quotidiano, disperato nichilismo, ma resta inconfondibile: quanti cantanti passano da una dolcezza quasi da ninnananna alla violenza sonora pura! Persino le sue prima passioni musicali la dicono lunga su influenze quasi incompatibili tra loro: Beatles, Reo Speedwagon, Melvins, Bay City Rollers, Boston, Elton John, Grand Funk Railroad… Sui solchi aleggia, perenne, un senso di inadeguatezza che non si può considerare senza precedenti nella storia della musica pop. A chi non viene subito in mente una figura leggendaria come quella del cantautore triste per eccellenza, l’inglese Nick Drake, morto per un’overdose di sonniferi (di cui tuttora si discute se sia stata voluta o meno) dopo soli tre dischi di bellezza e malinconia sconfinate? A differenza di Kurt, che un breve ma significativo flirt con il grande successo commerciale lo ebbe, Nick finì i suoi giorni nell’isolamento autoimposto all’interno della casa dei suoi genitori, depresso come certi antenati e incapace di reagire ai morsi del male oscuro. Il successo, per un triste gioco del destino, sarebbe arrivato solo a una decina d’anni dal decesso.

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Leggete 

Più pesante del cielo e, magari, ascoltate le strazianti richieste di aiuto di Kurt, schizzi di sangue e bava sul perbenismo della società oppure gocce di miele a ovattare la pena del vivere.

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