Le università telematiche, ovvero "L’università vampiro"
Top

Le università telematiche, ovvero "L’università vampiro"

Il Professore Riccardo Castellana, docente presso l'Università di Siena di Letteratura italiana contemporanea solleva la rilevante questione della formazione che offrono gli atenei telematici.

Le università telematiche, ovvero "L’università vampiro"
Preroll

redazione Modifica articolo

6 Febbraio 2023 - 15.22 Culture


ATF

di Riccardo Castellana

L’invasione dei vampiri

Il fenomeno è esploso con la pandemia, quando vecchie e nuove Università telematiche hanno moltiplicato la loro offerta formativa, aprendo in tempi record corsi di laurea e master a distanza in vari ambiti, dall’archeologia alle professioni sanitarie. In diretta concorrenza con gli atenei tradizionali, Pegaso, Link Campus, Unitelma, Unicusano e altri si rivolgono, per lo più, a studenti lavoratori: ad adulti che non avrebbero il tempo di frequentare in presenza e men che meno di fare vita universitaria (cioè di andare a mensa, frequentare biblioteche e laboratori, socializzare nel tempo libero con altri studenti).

A chi critica la qualità della didattica di queste “fabbriche di titoli” o le beghe giudiziarie di Unidav o di Unicusano, i manager d’assalto delle telematiche ribattono che la loro è una mission democratica, perché chiunque, grazie alla teledidattica, può finalmente accedere a un sapere sino a ieri riservato a pochi. Sono argomenti noti, e una lettura utile è l’opuscolo del 2019 curato da Luca Lantero e Chiara Finocchietti (https://www.cimea.it/Upload/Documenti/lauree_30_frode.pdf).

Ciò di cui, invece, non si discute molto, è un altro fenomeno, per ora marginale ma destinato ad ingigantirsi: il parassitismo dei corsi on line ai danni delle strutture e dei servizi universitari tradizionali.

Unitelma, per esempio, ha aperto tre “poli didattici” in Toscana: uno nel capoluogo di regione e gli altri due ad Arezzo e a Grosseto. Queste due città ospitano, da decenni, sedi distaccate dell’ateneo senese. Ma soprattutto, e anche a causa dei disinvestimenti da parte della sede centrale, sono terre di nessuno, e come tali appetite da atenei lontanissimi e (a volte) prestigiosi: proprio ad Arezzo, il Politecnico di Milano ha aperto di recente un corso a distanza di ingegneria informatica.

I “poli didattici” sono quei luoghi fisici nei quali ci si informa sull’offerta didattica e, soprattutto, dove si fanno esami: perché quelli sì che devono svolgersi in presenza (almeno per ora). I costi di gestione di questi “poli” sono ovviamente minimi: affitto, luce, riscaldamento e connessione a Internet. Non serve altro. Spesso si tratta di stanze subaffittate da istituti d’istruzione privati (i “partner”), che così garantiscono ai loro clienti anche una certa continuità tra l’istruzione liceale e quella accademica.

Il “polo didattico” di Arezzo, poi, si trova (guarda caso) proprio dietro il campus del Pionta, la storica sede dell’ex Magistero di Siena, circondata da un bellissimo parco attraversato ogni giorno da centinaia di studentesse e di studenti di lingue e di pedagogia. Ebbene, dato che le università telematiche non possiedono biblioteche o sale di studio dotate di wi-fi, i loro allievi, quando ne hanno bisogno (perché ne hanno bisogno anche loro, prima o poi), sono invitati dagli stessi consulenti delle telematiche ad utilizzare quelle del Pionta. Così accade che gli allievi virtuali prendano corpo nella realtà a tre dimensioni; che occupino posti in sala di lettura, che consultino libri e manuali, che li prendano in prestito o che scarichino dalla rete di ateneo articoli e libri digitali. Le risorse elettroniche, in particolare, sono costosissime per l’Università di Siena, che spende ogni anno un milione e mezzo di euro solo per quelle: una cifra enorme e in crescente aumento, ma necessaria per soddisfare l’ingordigia dei monopolisti del settore come Jstor o Elsevier.

Leggi anche:  Giornata Internazionale delle Università: un giorno di condivisione e partecipazione

Come se non bastasse, poi, dato che alcuni atenei convenzionali stanno continuando, anche dopo la pandemia, ad offrire corsi in modalità ibrida (cioè sia in presenza che a distanza), molti giovani locali trovano più conveniente rimanere a vivere in famiglia anziché trasferirsi, poniamo, a Roma o a Milano, per seguire lì i corsi in presenza. E così gravano anche loro sulle strutture del Pionta. Nulla di illecito, ovvio, perché le biblioteche di ateneo svolgono un servizio pubblico e devono essere aperte a tutti, nei limiti del possibile. Però questi servizi sono pagati (anche) con le tasse degli studenti dell’ateneo senese, sui quali ricadono, dunque, i costi finali dell’operazione.

Come arginare questa tendenza? Qualcuno dice che si dovrebbe chiedere alle università vampiro di pagare almeno una quota per permettere ai loro utenti di usare le risorse degli atenei tradizionali. Così come le banche digitali pagano una tariffa a quelle fisiche per consentire ai propri clienti di accedere al bancomat e ai servizi di sportello, così Pegaso o Link Campus dovrebbero pagare un obolo per ogni libro o articolo scaricato grazie a terzi, o per ogni posto occupato in sala di lettura. Niente di più sbagliato, secondo me, perché così, oltre a legittimare una pratica predatoria e parassitaria, commetteremmo l’errore più grave di tutti, che è quello di consolidare la tendenza che considera l’istruzione universitaria un business come un altro. Cosa che, intendiamoci bene, sta già accadendo un po’ ovunque, e a prescindere dal fenomeno di cui stiamo parlando, perché le pratiche cannibaliche delle telematiche, le loro convenientissime offerte paghi uno e prendi due (lauree, ovviamente), la riduzione dell’istruzione superiore a merce, non sono che la punta dell’iceberg contro cui si sta lentamente schiantando il sistema universitario nel suo complesso.

Leggi anche:  “Perché non ci indigniamo?”: al DISPOC la presentazione del libro di Paolo Mancini

Proprio la pandemia ha dato l’ultima spinta a quel processo di aziendalizzazione del sapere, iniziato una trentina d’anni fa, che ha lentamente cambiato il volto dell’accademia italiana e che oggi ha smesso persino di vergognarsi di sé stesso. Ne ha parlato molto bene, di recente, Emanuele Zinato, analizzando il linguaggio e la retorica aziendalista della nuova università (Reputazione accademica e libertà intellettuale, https://www.leparoleelecose.it/?p=45847). E molto ci sarebbe ancora da dire su questa logica, che per esempio premia con centinaia di milioni i dipartimenti (cosiddetti) di eccellenza, ma con risorse sottratte ad altri che ne avrebbero più bisogno (soprattutto agli atenei del Sud), o sullo sfruttamento dei docenti precari (giovani spesso preparatissimi, pagati con la miseria di cinquanta euro lordi l’ora), e infine sui meccanismi di valutazione della qualità della ricerca: la famigerata VQR, teatro granguignolesco di sanguinose vendette accademiche protette dall’anonimato.

Nosferatu succhia il sangue a se stesso

Ma non ho ancora detto la cosa più importante, e per certi versi sbalorditiva. Per chi non lo sapesse, Unitelma è il braccio telematico della “Sapienza” di Roma, ed ha una trentina di “poli didattici” sparsi in tutta la penisola, da nord a sud. La CRUI non ha mai avuto nulla da ridire su questo: per i magnifici rettori va tutto bene, e certo bisognerebbe essere molto coraggiosi per inimicarsi il più potente e ricco ateneo italiano (e l’ardimento non abbonda, si sa, nel mondo universitario). Insomma, trent’anni fa, ai tempi della “Pantera”, temevamo che la vecchia e cara università come la conoscevamo noi sarebbe stata affiancata e poi sostituita dalle private, americanizzandosi definitivamente. E invece è proprio lei che si è gattopardescamente trasformata, fino al punto di succhiare il sangue a se stessa.

L’esempio di Unitelma ha fatto scuola, e sono sempre di più gli atenei, anche piccoli (e affetti da storici complessi di inferiorità), che stanno tentando il colpaccio ai danni dei vicini più grandi e blasonati, offrendo corsi telematici accanto a quelli tradizionali. Di più, proprio la CRUI ha pubblicato, ormai un anno fa, le linee-guida per la valutazione degli Atenei, e tra gli indicatori per misurare la qualità dei servizi suggerisce anche «la progettazione e l’aggiornamento dei corsi di studio, tenendo conto delle necessità di sviluppo espresse dalla società e dal contesto di riferimento anche in relazione agli obiettivi di internazionalizzazione e alle diverse modalità di erogazione della didattica (in presenza, a distanza o di tipo misto»). Il che va letto, ovviamente, come un invito a tutte le Università che ancora non ce l’hanno a dotarsi al più presto di un braccio, come ha già fatto la “Sapienza” di Roma.

Leggi anche:  “Perché non ci indigniamo?”: al DISPOC la presentazione del libro di Paolo Mancini

Chi insiste a voler fare le cose alla vecchia maniera, e a ribadire che la socialità della vita universitaria non è un lusso per pochi ma un valore imprescindibile, potrebbe, alla lunga, dover soccombere. A meno che, dall’alto, non si cambi radicalmente politica. Il Ministero avrebbe il potere, intanto, di bloccare l’apertura di nuovi “poli didattici”, laddove vi sia il sospetto di una concorrenza sleale. Solo che quel potere lo esercita molto poco, e con la nuova ventata neoliberista e di destra il rischio è che nei prossimi anni lo si eserciti ancora meno. Ma soprattutto, ci vorrebbe un grande piano per democratizzare realmente l’università e per incentivare la frequenza in situ dei corsi, ampliando il diritto allo studio con una robusta politica di borse e prestiti a lungo termine, o anche a fondo perduto. (E premiando anzitutto il merito, certo, perché l’università non ha né deve avere le stesse funzioni della scuola dell’obbligo).

Ma soprattutto, per incentivare la frequenza degli studenti lavoratori, vero bacino d’utenza degli atenei virtuali, si dovrebbero inventare soluzioni nuove e diverse: aprire, per esempio, corsi universitari serali appositi lungo tutto l’anno, o corsi intensivi d’estate e nei periodi in cui è più facile prendere le ferie. Corsi tenuti, magari, anche da quei bravissimi docenti precari di cui sopra, che però andrebbero pagati decentemente. La fisionomia dell’università tradizionale ne uscirebbe certo mutata, e non è affatto detto che questo cambiamento porterebbe a una separazione netta tra atenei di ricerca e community college, tra Università di serie A e di serie B. Ogni strumento, secondo me, dovrebbe essere tentato per contrastare l’ideologia e la pratica dell’insegnamento a distanza. Servirebbero, è ovvio, maggior investimenti. Il PNRR sarebbe stato l’occasione buona per avere i fondi necessari, ma nessuno, neanche a sinistra, sembra averci pensato.

Native

Articoli correlati