Oltrecolore, ossia la vita, la spiritualità e l'oltre attraverso quattro artisti
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Oltrecolore, ossia la vita, la spiritualità e l'oltre attraverso quattro artisti

Padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, parla di quattro artisti e del loro lavoro di ricerca

Oltrecolore, ossia la vita, la spiritualità e l'oltre attraverso quattro artisti
Padre Antonio Spadaro
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

21 Novembre 2022 - 16.30


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Il nuovo libro di padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, della quale è stato a lungo critico letterario, parla esattamente di quel che dice il titolo del suo libro: Oltrecolore (Vita e pensiero, Euro 15). Fondamentale dunque nel volume è il colore, la sua anima, il suo argomento di studio, ma ancor di più, a pensarci bene, è  l’ oltre, l’avverbio che precede il colore, già nel titolo. Per questo è un libro da leggere  avidamente, come accade con certi romanzi, attenti più ad arrivare alla sua conclusione che alla costruzione delle singole pagine. Per il bisogno di arrivare infondo.. e andare oltre. O almeno provarci.  E’ chiaro che il volume ha a che fare con noi, con la vita, la spiritualità e quindi l’oltre. Non tanto con la religione, sebbene vi entri, senza dubbio, ma con questo bisogno di qualcosa che possiamo negare, ma sempre ci interroga, ci precede. Senza che ci riesca di farci lasciare. 

L’autore ha scelto per la copertina il blu oltremare che Yves Klein ha immortalato nel suo dipinto  “Monochrome blue sans titre”. Incantevole. Proprio Klein ha spiegato il senso di un’opera monocromatica sul blu oltremare: “Sono rimasto scioccato ad Assisi, nella Basilica di San Francesco, dagli affreschi scrupolosamente monocromi, uniformi e blu”. Poi spiega: “ Ammettendo pure che Giotto abbia avuto soltanto l’intenzione figurativa di mostrare un cielo puro e senza nuvole, tale intenzione però è davvero monocroma”. Così l’autore ci porta alla conclusione cui giunge Klein: il blu è l’oscurità che diviene visibile.  E cita Paul Claudel: “ L’azzurro tra il giorno e la notte indica un equilibrio, uno vero come dimostra quel tenue momento in cui il navigatore, nel cielo d’Oriente, vede le stelle scomparire tutte insieme”. Per Spadaro è dunque chiaro che il colore, come l’ispirazione artistica, giunge dall’esterno, “da un oltre che offre il senso alle cose di qua, alla vita, agli oggetti, alle tensioni, ai desideri. Il colore raggiunge l’artista che lo scopre. Insomma il colore di un’opera non è imitazione della natura ma intuizione di un mondo che deve venire. Questa è, a ben pensarci, l’idea dalla quale nasce questo libro”. Dunque questo libro ci parla dei colori, infiniti nelle loro sfumature che li determinano più dei nomi, dell’oltre da dove provengono e di quattro maestri di questo nostro tempo che li hanno portati a comunicarci l’attesa, l’altrove, la finestra sull’oltre, l’energia. Sì, non sono Giotto, Michelangelo, Caravaggio o Tiepolo, ma grandi nomi del nostro tempo, del nostro Novecento, e di come, dentro o fuori dalle loro tele, si sia visto l’oltre. Si tratta di Hopper, Rothko, Warhol, Basquiat. E’ soprattutto dunque l’epoca a stelle e strisce, quella che fa il nostro presente dal tempo di Hopper, a inizio Novecento, a oggi. Ma non si chiude qui. A queste brevi e affascinanti monografie, accompagnate dalla riproduzione delle principali loro tele di cui si parla, segue un’imperdibile tavolozza di quel che serve per dipingere: si va dal nero avorio al vermiglio francese, dal bianco piombo all’indifferenza a tutto tranne alle tele: così scriveva Renoir in una lettera citata da Raymond Carver in Ultramarine.     

Presentando il volume il cardinale Jose Tolentino de Mendonca ha detto: “E’ un sapere importante, questo su cui si fonda la possibilità di relazione con il colore. E’ al tempo stesso, anche la possibilità di rivelazione che esso contiene. […] Il respiro, la sensibilità e l’ambizione – quando si avvicina a Hopper, Rothko, Warhol o Basquiat- sono quelli che ritroviamo nella short stories di Carver. Spadaro scrive a proposito di loro una short story teologica. E short non solo alludendo alle dimensioni dei testi, ma perché – e questa è la lezione di Carver e forse anche la lezione che ci dà la modernità- si rende disponibile a valorizzare, della verità, non solo le proclamazioni definitive e monumentali, ma anche i suoi scintillii senza pretese, le insinuazioni tenui, le narrazioni quotidiane, e minuscole, le briciole sminuzzate, le piccole rivelazioni”. Per usare il linguaggio caro a papà Francesco si potrebbe dire che sia una storia che ci presenta “i santi della porta accanto”, non i giganti teologici. Non sono piccoli artisti, ovviamente, ma non sono  autori di o da Chiesa, quella con la C maiuscola. Sono però grandi interpreti della spiritualità che può farci vedere l’oltre. 

E’ difficile parlare delle tele di Hopper, Warhol, Rohtko e Basquiat senza poterle riprodurre, vedere insieme, ma per chiunque ne abbia un’idea appare convincente, dopo l’accostamento che può sorprendere, quanto afferma l’autore: “L’Oltre è consustanziale al colore di Hopper, Rohtko, Warhol, e Basquiat. Il colore è “ultramarino”, viene dall’aldilà di un mondo noto e chiuso in sé stesso. Per questo le opere sono icone di questo Oltre rispetto all’opera stessa. Icone dell’attesa, icone della luce, icone dell’altrove, icone del lato oscuro”. 

Se Hopper è il noto pittore della vita ordinaria, forse un po’ squallida, sorprende davvero per quell’acuta sensazione di attesa che emana da una semplice donna che giunge in un normale momento della sua giornata a porsi in finestra, o viene sorpresa da un colpo di vento entrato improvviso dalla finestra mentre si corica, scompigliandole i capelli che così le coprono il viso. C’è il vuoto, la solitudine, nei quadri di Hopper, difficile negare ci sia solitudine anche negli altri autori. Anche nel pittore delle macchie di colore invece che delle figure umane, il religioso Rohtko, emerge il timore della malinconia. Lui percepisce che senza una trascendenza regnerebbe sovrana la malinconia. La tela per Rohtko diviene una finestra. E più avanti aggiunge, citando la Lettera agli Ebrei, “l’evidenza delle cose che non si vedono”. E’ così che arrivò a trovare luce nel nero, “ma a questo punto è come se si fosse aperto un abisso che non avrebbe potuto che avere due esiti: Dio o il nulla”.

La short story per me più sorprendente è quella su Andy Warhol, la stella del pop, il riproduttore seriale dei simboli più noti della società dei consumi. Di origine cecoslovacche, l’autore si porta dentro per formazione un rapporto con le icone orientali, tardo bizantine e ortodosse russe. Questo prescinde dalla sua dimensione privata, dal suo essere o no, fino in fondo, un dissoluto. Questo non conta, sebbene va rilevato che prestasse regolarmente aiuto in una mensa per homeless. Comunque sia stato dentro di sé, è chiaro che le sue tele sono icone pop, i suoi ritratti, ci spiega l’autore, sono i ritratti dei santi pop. Dunque le sue icone ritraggono l’effimero, il vuoto, con i procedimenti espressivi delle icone sacre. Fin qui ci siamo, tutto fila con quel che si sa, ma la sorprese che apre gli occhi arriva poco dopo: “Non c’è spazio per Dio nell’opera di Warhol. O meglio: Dio è sempre e soltanto “fuori” rispetto alla sua opera d’arte. E questa è la garanzia della sua salvaguardia”. Sa bene l’autore che Warhol ha dipinto anche l’ultima cena e la Madonna con il cartellino del prezzo (6 dollari e 99 centesimi) per ricordare come tutto sia in vendita: “la religiosità artistica di Warhol è radicata invece nel suo tentativo di di spingere il suo Dio al di fuori della rappresentazione artistica, ormai condannata a raffigurare feticci, o per dirla con lo stesso Warhol, il Vitello d’Oro, cioè un fantoccio dai tratti divini, dal quale lui stesso si è lasciato affascinare”. 

Siamo così al pittore del lato oscuro, Basquiat: padre di Haiti, madre di Portorico. Segni importanti nella storia di un uomo che dormiva con le sue tele, ci camminava sopra, le usava per prendere appunti. Basquiat ha tutti i fascini dell’irregolarità e fragilità che può spiegare le regole senza piegarsi. La sua vita sembra farne il simbolo dello squilibrio urbano. Tutto questo, vissuto a New York, ha prodotto un genio difficilmente inquadrabile, scomparso giovanissimo. Spadaro ci racconta con delicatezza l’uomo e l’artista, le sue due fasi: quella segnata da scheletri e maschere, ossessionata probabilmente dalla morte, e quella successiva, che si distingue per il richiamo alla cultura di colore e haitiana. A unirle c’è per l’autore in un’inusuale energia. “I suoi quadri – per Spadaro- sono icone: non del divino, come quelle orientali, non del consumismo pop, come quelle di Warhol, ma del lato oscuro dell’esistenza, che richiama un prepotente bisogno di liberazione. “Forse è tutto qui l’affanno di Basquiat, in realtà misconosciuto dai più, anche se egli fu ricoperto da montagne di dollari che finirono per schiacciare l’artista: il desiderio affannoso, irregolare e indisciplinato di una forma di salvezza, il tentativo epico dell’artista di ricostruire un senso di pienezza”.   

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