Pasolini: così Dacia Maraini e Massimo Recalcati ricordano e raccontano il grande intellettuale
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Pasolini: così Dacia Maraini e Massimo Recalcati ricordano e raccontano il grande intellettuale

Nel centenario della nascita di Pier Paolo Paolo Pasolini ci sono da segnalare i libri di Dacia Maraini e Massimo Recalcati dedicati al poeta e regista

Pasolini: così Dacia Maraini e Massimo Recalcati ricordano e raccontano il grande intellettuale
Pier Paolo Pasolini
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12 Novembre 2022 - 22.50


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di Antonio Salvati

Numerose iniziative sono ancora in corso per celebrare il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, indubbiamente tra le personalità più rappresentative del Novecento italiano. Un’artista decisamente eclettico che si è cimentato in diversi campi – dalla scrittura al cinema, alla musica e alla pittura – insegnandoci ad avere, attraverso il suo pensiero controcorrente, uno approccio attento e severo verso la società capitalista. Un intellettuale che – come pochi – ha invitato a riservare spazio agli ultimi della società. Secondo Dacia Maraini, Pasolini «ha rappresentato un pensiero critico e sincero sul Paese, tanto critico e sincero da suscitare timore e desiderio di isolarlo per poi annientarlo».

Anche la Maraini – che ebbe per molti anni un’intima amicizia con lo scrittore friulano fino alla tragica notte del 1975 in cui fu assassinato in circostanze ancora non del tutto chiare – ha voluto lasciarci una testimonianza dell’intellettuale che con i suoi innumerevoli scritti ha insegnato a diverse generazioni ad essere severi critici – pur amandolo – del proprio Paese. Anzi, sostiene la Maraini, «proprio perché lo si ama, si cerca di suscitare negli altri la voglia di cambiare in meglio». Dacia Maraini ha pubblicato Caro Pier Paolo con l’editore Neri Pozza (2022 pp. 240, € 18). Si tratta di una raccolta di lettere rivolte oggi a Pasolini, accompagnata dall’idea tipicamente giapponese (Maraini, com’è noto, ha vissuto la sua infanzia in un campo di concentramento in Giappone) che con i morti ci si parla, che sono presenti e dai quali si accettano consigli; non sono dei fantasmi come si tende a credere nel nostro paese. Un’altra maniera di conoscere il poeta, attraverso la visionarietà dei sogni (la Maraini sostiene di aver più volte sognato Pasolini). Non un volume nostalgico o malinconico, ma scritto con l’idea che la memoria rappresenta il motore del corpo umano, un’attività vitale per proiettarsi verso il futuro. Un volume ricco di ricordi e aneddoti, scampoli di una amicizia profonda quale è stata quella fra Dacia Maraini e Pasolini. Un’amicizia intensa fatta anche di discussioni vivaci come quella relativa all’aborto. Pasolini attraverso una rabbiosa polemica si scagliò contro chi voleva legalizzare l’aborto secondo il quale – ricorda la Maraini – non era una soluzione e neanche una bandiera. Interrompere un progetto di vita, infierire sul corpo materno, non è una giusta decisione. La Maraini contrapponeva la necessità di una legge contro l’aborto clandestino per eliminare l’orribile pratica su cui si arricchivano tanti trafficanti.

Pasolini e la Maraini rifletterono anche sulla povertà. Per lo scrittore friulano, la povertà reale, la povertà delle cose, che libera dalla schiavitú del possesso, è da considerarsi una benedizione. «Son pronto a qualsiasi sacrificio personale, naturalmente. A compensarmi, basterà che sulla faccia della gente torni l’antico modo di sorridere; l’antico rispetto per gli altri che era rispetto per sé stessi; la fierezza di essere ciò che la natura, che la propria cultura “povera” insegnava a essere. Allora si potrà forse ricominciare tutto da capo…». Queste sono le parole di Pasolini scritte nel 1969. Aggiungeva: «Era forse una troppo lucida profezia da disperati pensare che la storia dell’umanità fosse ormai la storia dell’industrializzazione totale del benessere». Per Pasolini era entrato nella testa della gente che la proprietà e l’uso dei beni fossero il segno che l’umanità progredisce, cresce, si fa matura e consapevole. Ma è un inganno pericoloso, poiché trascura completamente le esigenze profonde, quelle che riguardano i rapporti fra gli esseri umani, i rapporti con la natura, con il tempo, tutte cose che riguardano il mondo dei sentimenti e della coscienza e che non vengono mai soddisfatte dalla sicurezza della proprietà e dalla comodità del vivere. Senza dubbio, parole e visioni profetiche.

Per diverse generazioni Pasolini è stato sinonimo di anticonformismo, libertà intellettuale, pensiero critico. Il personaggio pubblico, il divo, l’intellettuale, il poeta, l’omosessuale appariva fuori dagli schemi, introverso e inassimilabile al pensiero dominante. Era sufficiente quello – ha giustamente ricordato Massimo Recalcati nel suo volume Pasolini. Il fantasma dell’Origine (Feltrinelli 2022 pp. 64, € 10)- per provocare nelle nuove generazioni simpatia spontanea e ammirazione, che spesso però prescindevano dalla conoscenza della sua opera. Era un’empatia fisica, emotiva, viscerale. Per questa ragione la sua morte appariva a tanti giovani come un attentato alla propria libertà, alla libertà senza argini della propria giovinezza. Il corpo straziato di Pasolini – ricorda Recalcati – fu una scossa. Per i più giovani che negli anni settanta si accostavano ai conflitti della politica, questa scossa «ebbe l’effetto di un’autentica testimonianza: era possibile mettere il proprio corpo e la propria vita nella lotta per una società più giusta».

Recalcati cerca di fare i conti con la complessità di Pasolini, ricordandone le diverse contraddizioni che attraversarono la vita e l’opera: «individualista, testimonia con coraggio l’impegno civile e collettivo dell’intellettuale; anticlericale, si schiera risolutamente contro l’aborto; comunista militante, subisce l’espulsione dal Pci con il quale entrerà negli anni in una relazione conflittuale sempre più aspra; ateo e marxista, resta profondamente cristiano nello spirito; anticonformista, detesta l’anticonformismo; critico acerrimo dello strumento televisivo e del mondo dei media, si rivela sorprendentemente a suo agio proprio in quel mondo; contestatore vigoroso del “sistema”, si schiera contro i giovani contestatori del Sessantotto; antipaternalista, non si risparmia nel segnalare il rischio del tramonto del padre nel nostro tempo; sperimentatore della lingua e delle sue grammatiche più raffinate, resta critico irriducibile di ogni avanguardismo; straordinario poeta civile, si mantiene fedele a una poesia che non esclude affatto i propri drammi più segreti e indicibili; pedagogo libertario, riconosce come insuperabile la figura del maestro; omosessuale e ribelle, è un conservatore dei valori della tradizione e del mondo contadino; critico spietato della borghesia e dei suoi codici di comportamento, scrive sul “Corriere della Sera” e su altri quotidiani che di quel mondo sono l’espressione più tipica».

Sempre Recalcati ricorda la sua stessa psicologia individuale scissa tra «gentilezza e attitudine alla provocazione, altruismo e rapacità pulsionale, divismo e umiltà, mondanità e solitudine, esibizionismo e introversione». Libertario nel proprio stile di vita e nel proprio pensiero, «era preda di un fantasma che lo vincolava a un godimento compulsivo simile a quello di cui è stato, paradossalmente, un feroce critico». Probabilmente quest’ultima contraddizione lo ha reso capace di leggere nello sviluppo promosso dal capitalismo italiano del secondo dopoguerra, salutato dalla maggioranza degli italiani come una redenzione, l’inizio di un’epoca di barbarie, di quello che definiva un “Nuovo fascismo”. A Pasolini va riconosciuto il merito di essere riuscito a decifrare questo nuovo “inferno” – «l’inferno della “mutazione antropologica” dell’uomo da “suddito” in consumatore, della “distruzione”, del “genocidio” dell’uomo» – perché lo viveva direttamente e intimamente nella sua stessa carne.

Sono diverse – ricorda Recalcati – le ossessioni che tornano nella vita di Pasolini come quella della sua idealizzazione dell’Origine. In essa scorgiamo il carattere regressivo e antistorico del fantasma pasoliniano che si esprime innanzitutto nella rappresentazione della vita contadina – valorizzata in ogni rito, in ogni minimo gesto e in ogni parola – e della campagna, nella quale Pasolini individuava la certezza di una continuità con le origini del mondo umano che rappresentava, ai suoi occhi lo spettacolo di un mondo perfetto. L’incidenza del fantasma dell’Origine presta il fianco a una lettura populista dell’opera pasoliniana. Quest’idealizzazione acritica del popolo e del mondo contadino ha finito per avallare una visione conservatrice che finisce per esaltare la natura contro la storia e per identificare un’entità politicamente generica come il “popolo” con il Bene assoluto. Evidentemente Pasolini «non si limita a una concezione gnostica del conflitto: la luce dell’Origine contro le tenebre del tecno-fascismo; il popolo analfabeta contro la borghesia acculturalizzata; il carattere incontaminato della “campagna” contro la degradazione della città ipnotizzata dal mito dello “sviluppo”». In realtà, Pasolini enfatizza la dimensione mitica e sacra della natura, mostrandone nel contempo il carattere irreversibilmente perduto a causa dell’alienazione introdotta dal cambiamento del linguaggio: «la ricerca rousseauiana – spiega Recalcati – di un’Origine incontaminata trova come contrappeso la consapevolezza tragica del suo essere votata alla perdita. Le figure narrative del popolo contadino del Friuli della prima giovinezza, del sottoproletariato delle borgate romane, del popolo africano o indiano non ancora contaminato dall’industrializzazione neocapitalista dell’ultimo cinema pasoliniano non sono figure ingenuamente idilliache, ma espressioni di un’Origine che non può sottrarsi all’alienazione della storia e del linguaggio, dunque di un’Origine destinata a essere irreversibilmente perduta. La disperazione per questa perdita – più che l’accanimento perverso al suo ritrovamento – è la cifra ultima del pensiero pasoliniano. Una visione nostalgica verso un passato irreversibilmente perduto, espresso efficacemente con la metafora della scomparsa delle lucciole, utilizzata, in un noto articolo apparso sul Corriere della Sera nel 1975, per descrivere in maniera univoca il cambiamento da cui non si può più tornare indietro e che prospetta una «nuova epoca della storia umana», in cui assistiamo ad una metamorfosi del potere che, cambiando il proprio volto, non passa più per l’esercizio di un’autorità verticale, ma assume il carattere di invisibilità orizzontale. In altri termini, dal potere del re a quello di un nuovo totalitarismo che è quello delle merci che trasforma i sudditi in consumatori. Trasformazione che si tramuta in quella mutazione antropologica, di pasoliniana memoria.

Un’ultima suggestione pasoliniana: portare la carità nelle istituzioni. Anche se Pasolini ha predicato più volte che le istituzioni sono antagoniste alla vita, è consapevole che esse rappresentano una faccia fondamentale vita e necessitano della “carità”, cioè dell’amore, che ricondurrebbe «gli ideali della fede e della speranza alla cura per il carattere inviolabile e immensamente sacro della vita», per favorire un’esperienza generativa della comunità.

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