Perché in Italia la questione meridionale è ancora aperta
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Perché in Italia la questione meridionale è ancora aperta

Per capire le caratteristiche e le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che delineano la nuova questione meridionale ci aiuta Gianfranco Viesti con il suo volume, Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo

Famiglia del sud
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1 Settembre 2022 - 23.03


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di Antonio Salvati

All’Italia spettano molti miliardi di Next Generation EU proprio perché esiste una questione meridionale ancora aperta. Il Mezzogiorno e la sua strutturale arretratezza economica, politica e sociale favoriscono – e favoriranno – l’arrivo in Italia di consistenti finanziamenti europei in quanto Sud del nostro paese è individuato come prioritario nella programmazione dei fondi. I dati disponibili dimostrano – dopo oltre 160 anni dalla proclamazione dell’Unità d’Italia – la persistenza di notevoli divari territoriali che contrappongono il Mezzogiorno al Centro-Nord, soprattutto attraverso alcune dimensioni come: l’istruzione, la demografia, la politica industriale e il funzionamento della pubblica amministrazione sia nella sua funzione di erogazione i servizi, sia nella sua capacità di spesa dei finanziamenti pubblici.

Il XXI secolo ha visto il declino dell’Italia e l’approfondirsi delle sue disparità interne. Per meglio capire le caratteristiche e le trasformazioni demografiche, sociali, politiche ed economiche che delineano la nuova questione meridionale – molto diversa rispetto a quella che ha caratterizzato la storia d’Italia dalla unificazione all’inizio del ventunesimo secolo – ci aiuta Gianfranco Viesti con il suo volume, Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo (Laterza, 2021, pp. 496 € 28), in netta controtendenza con la fuga della complessità e dalla ipersemplificazione. Un libro per tutti, seppur scritto da un economista.

Economicamente parlando ci sono da sempre, e continueranno ad esserci, i centri e le periferie, ossia aree geografiche con diversi livelli di sviluppo: i centri, che hanno raggiunto prima maggiori livelli di reddito, e le periferie che li “inseguono”. Illusorio immaginare – spiega l’autore – un mondo completamente equilibrato, in cui le condizioni di vita diventino del tutto simili fra i diversi luoghi. Esisteranno sempre differenze tra centri e periferie in virtù delle condizioni geografiche, delle evoluzioni storiche, dei cambiamenti tecnologici, degli assetti istituzionali che hanno caratterizzato e continueranno a plasmare un assetto di diversità. Viesti parte dall’assunto che dalle condizioni geografiche si dipanano percorsi storici complessi e differenziati: “la storia conta”. Una lettura puramente economica è inadeguata. Lo sviluppo economico «non è mai un fenomeno deterministico e a partire da condizioni simili si può arrivare ad esiti diversi». Negli sviluppi storici sono rilevanti innumerevoli elementi. Lo sviluppo economico scaturisce dall’investimento sui fattori produttivi, lavoro e capitale, e dalla produzione di nuove conoscenze. Sono determinanti le grandi infrastrutture, l’aumento dei livelli di istruzione dei lavoratori, gli sforzi nella ricerca scientifica. Contano però «anche i rapporti di forza politici fra territori, i regimi di cambio, le politiche del commercio estero. Le “istituzioni” che ciascun territorio, ciascuno stato, sviluppa al proprio interno: pratiche sociali, sistemi di valori capaci o meno di favorire l’adattamento virtuoso alle mutevoli caratteristiche del quadro economico e tecnologico; la qualità delle sue classi dirigenti e della sua azione di governo». In questo libro ci si occupa in modo delle regioni, dei diversi territori all’interno della stessa nazione. Dei rapporti fra centri e periferie di una nazione, invece che del mondo. Molti elementi sono simili, ma ci sono anche importanti differenze. L’integrazione economica oggi – avverte Viesti – è più facile, rapida, intensa; «favorita non solo dalle minori distanze geografiche ma anche da norme, costumi, lingua comuni, ed è irreversibile a meno di eventi traumatici di carattere secessionista». È più semplice e ampia la circolazione di merci, servizi e capitali; «è molto più intensa la circolazione delle persone. Le condizioni e le politiche macroeconomiche sono le stesse; la moneta è unica e non c’è tasso di cambio. Compaiono le politiche del bilancio pubblico, che tendenzialmente garantiscono un prelievo uniforme e soprattutto un simile livello di servizi a tutti i cittadini, in tutte le regioni».

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Acutamente Viesti colloca le sue analisi sullo sviluppo regionale italiano, ed in particolare delle disparità interne al paese, in un quadro più ampio, partendo dalla convinzione che per comprendere le cause, la situazione e le prospettive dello sviluppo di tutti i territori italiani «sia indispensabile collocarle nell’ambito delle grandi trasformazioni, economiche, tecnologiche, politiche del quadro internazionale, compararle sistematicamente con ciò che avviene nel resto d’Europa, comprendere l’importanza e l’impatto di tutte le politiche pubbliche. È difficile capire il Mezzogiorno o l’Italia guardando solo quel che accade nel presente, e nei loro confini».

L’Italia è, fra i paesi economicamente avanzati, uno di quelli che presentano i più gravi problemi di disparità territoriali nello sviluppo economico. In comparazione internazionale, i divari italiani si presentano particolarmente ampi e persistenti nel tempo; disegnano una frattura geografica piuttosto netta fra le regioni del Centro-Nord e quelle del Sud. Per Viesti non vi è una sola determinante, sia essa di tipo antropologico, istituzionale o economico del ritardo di sviluppo del Mezzogiorno. Al contrario tale ritardo è stato certamente influenzato «da profonde differenze di tipo geografico e dalle condizioni iniziali, ma soprattutto dall’evoluzione storica del paese. È stato marcato da circostanze, diverse nel tempo, che hanno segnato alcuni fondamentali punti di svolta nella storia italiana, rallentando i processi di trasformazione strutturale e quindi di convergenza del Sud e innescando dinamiche differenti interne al paese». Direbbero alcuni esperti che «in Italia, il tempo e la geografia si sono alleati insieme per favorire il Nord».

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Il ritardo del Mezzogiorno non è l’esito di un destino avverso, ma il frutto combinato di dinamiche storico-politiche dell’Italia. Ha caratterizzato l’intera prima metà del Novecento ed è divenuto più intenso e importante a partire dall’inizio della Prima Guerra Mondiale. Le disparità territoriali italiane sono una vicenda successiva all’unificazione. Non si dispone – spiega Viesti – di stime del reddito pro capite per regioni al momento dell’Unità, ma il lavoro degli storici soprattutto nel periodo più recente consente di avere un quadro piuttosto affidabile delle loro condizioni socioeconomiche. La stessa integrazione linguistica era di là da venire, perché l’uso dell’italiano era poco diffuso e l’utilizzo dei dialetti predominante, come hanno messo in luce gli studi del linguista Tullio De Mauro. Lo stesso Cavour si esprimeva preferibilmente in francese. Al momento dell’Unità solo poco più del 10% dei meridionali sapeva leggere e scrivere, una percentuale assai inferiore a quella del Piemonte e della Lombardia, dove l’alfabetismo sfiorava il 50%, come risultato delle politiche per l’istruzione di base messe da tempo in atto dal Regno di Sardegna e dall’Impero Austro-Ungarico. Anche in Emilia e Toscana il livello di alfabetismo era notevolmente più alto. Dall’ultimo decennio dell’Ottocento fino alla Prima Guerra Mondiale emigrarono 4,5 milioni di meridionali, e solo un terzo rientrò. Con l’enorme flusso in uscita si ridusse la pressione demografica e cambiarono le condizioni del lavoro nelle campagne, dove i salari dei braccianti aumentarono. Inoltre, le rimesse degli emigrati giocarono un ruolo fondamentale tanto nella bilancia dei pagamenti nazionale, di cui rappresentavano circa un quarto delle entrate, quanto nel consentire investimenti nelle aree di origine, favorendo lo sviluppo di una classe di piccoli coltivatori. Con la Prima Guerra per la prima volta nella storia economico-territoriale italiana si produsse una frattura di grandi dimensioni fra le due parti del paese che non verrà mai più sanata. Secondo i moderni studi le regioni non possono più essere interpretate soltanto all’interno delle dinamiche nazionali (che pure restano importanti), ma devono essere anche considerate nel quadro continentale, dato che sono parti di stati nazionali membri di un’Unione fortemente integrata. E quindi anche regioni d’Europa. È fondamentale notare – e rimarcare ai cosiddetti euroscettici – che la politica europea di coesione ha come obiettivi non gli stati membri ma le regioni. Essa interviene in tutti i territori, ma concentra particolarmente risorse e interventi in quelle regioni il cui reddito pro capite calcolato a parità di potere d’acquisto è inferiore al 75% della media comunitaria, con un criterio definito a fine anni Ottanta e poi rimasto immutato nel tempo.

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Il pregio del libro scaturisce dall’imperativo di sottolineare come il futuro non sia scritto, predeterminato e come sia possibile realizzare – con efficaci politiche pubbliche – processi di sviluppo soddisfacenti per l’intero paese, migliorando la vita e le opportunità di tutti i suoi cittadini. Una sorte di ostinazione della speranza. Pertinente, in tal senso, rievocare le tristi parole che il grande romanziere Amin Maalouf ha dedicato al suo Libano e che all’inizio degli anni Venti potrebbero bene descrivere i sentimenti di molti italiani: «dalla scomparsa del passato ci si consola facilmente; è dalla scomparsa di futuro che non ci si riprende. Il paese la cui assenza mi rattrista e mi ossessiona non è quello che ho conosciuto in gioventù, è quello che ho sognato e che non ha mai potuto vedere la luce».

Viesti insiste nel sottolineare che le politiche pubbliche possono favorire i fenomeni di agglomerazione facilitando i contatti fra le persone e la circolazione delle idee, attraverso interventi in favore della mobilità; o rafforzando le dotazioni e la disponibilità di servizi di natura telematica. Strade e ferrovie accrescono la possibilità di circolazione di merci e persone, porti ed aeroporti accrescono la possibilità e la convenienza delle relazioni economiche internazionali. Fondamentali sono le politiche dell’istruzione. Se in una economia agricola conta quasi solo la forza delle braccia, in quelle più avanzate diviene decisivo il saper fare (know how). Lavoratori più istruiti sono in grado di partecipare a processi produttivi più complessi e avanzati; di migliorare la propria efficienza nel tempo. Ad un più elevato livello di istruzione delle forze di lavoro «corrisponde una maggiore capacità di acquisire informazioni e tecnologie provenienti dall’esterno, e quindi di intraprendere processi imitativi di attività economiche». Infine, conta poi molto la qualità delle classi dirigenti, nazionali e locali. La loro capacità realizzare interventi infrastrutturali, politiche per le imprese, servizi universalistici per i cittadini. Conta soprattutto il sistema dei valori sociali, l’atteggiamento dei cittadini nei confronti del lavoro, il loro desiderio di cooperare gli uni con gli altri. Dunque, «l’effetto delle scelte collettive che ciascun paese fa nelle diverse fasi del proprio sviluppo è sempre della massima rilevanza per le disparità territoriali. Sia quando queste decisioni si traducono in politiche pubbliche che esplicitamente o implicitamente le contrastano; sia quando, al contrario, queste scelte non sono compiute».

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