La società verticale della riconciliazione balcanica
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La società verticale della riconciliazione balcanica

L’ascensore di Prijedor (Bottega Errante Edizioni, traduzione di Elisa Copetti, pagg 117, euro 15), romanzo piccolo solo per numero di pagine dello scrittore bosniaco Darko Cvijetić

Lo scrittore bosniaco Darko Cvijetić
Lo scrittore bosniaco Darko Cvijetić
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22 Maggio 2021 - 16.43


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di Rock Reynolds

 

“C’era la guerra, la nostra città era sotto i bombardamenti alleati, eppure io non me accorgevo quasi. Ero una bambina e mi sembrava tutto un gioco: contavo i cacciabombardieri nel cielo e le bombe che esplodevano in terra” mi ha sempre raccontato mia madre. Chissà cosa pensano i bambini costretti a sfuggire alla furia delle armi in Medio Oriente e chissà cos’hanno pensato quelli che, nel terribile scenario della guerra di Bosnia, si sono accorti di non poter più giocare con il vicino di casa solo perché, da un giorno all’altro, religione ed etnia li avevano resi nemici? Chissà se il concetto di nemico lo hanno colto?

L’ascensore di Prijedor (Bottega Errante Edizioni, traduzione di Elisa Copetti, pagg 117, euro 15), romanzo piccolo solo per numero di pagine dello scrittore bosniaco Darko Cvijetić, di risposte non ne offre, ma di domande drammatiche è pieno tra le pieghe di una storia che assume contorni talmente grotteschi da avvicinarsi alla realtà più di quanto avrebbe potuto fare una fredda cronaca giornalistica. La storia di Cvijetić si svolge in un palazzo di Prijedor, città multietnica e pluriconfessionale della Bosnia ed Erzegovina, balzata tristemente alla cronaca per la violenza dei combattimenti durante la guerra nei Balcani. È una sorta di gioiosa Babele dove tutto è possibile e dove la realtà di convivenza pacifica, scandita dal tran tran del vivere quotidiano, viene sconvolta dallo scoppio del conflitto. Ed è nell’ascensore di quel palazzo che vita e morte salgono e scendono.

Difficilmente leggo prefazioni e postfazioni, ma invito tutti a fare un’eccezione: la postfazione di Federica Manzon è illuminante.

Darko Cvijetić è prima di tutto un narratore nato. Bastano poche parole per capirlo. Per esempio, ecco come descrive il cambiamento: “Ora è tutto deserto, selvatico, senza vita, senza persone. Niente funziona più già da decenni. Dove sono tutte le colonne di gente sorridente che la mattina si affrettava, comprava il giornale, le sigarette e si portava i panini? Tutto si è dissolto… Prijedor divenne una non-città, secca e atterrita. I vicini col nome sbagliato cominciarono ad essere licenziati… e gli operai si trasformarono in soldati senza neanche saperlo”.

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Gli abbiamo fatto una serie di domande e l’autore ha risposto con passione.

Perché ha scritto un romanzo per raccontare la sua città?

La realtà molto spesso trascende ogni tipo di finzione! Guerra, pandemie, coprifuoco, persone che indossano mascherine sul viso, persone che scappano l’una dall’altra, mancanza di ossigeno: le cose più inimmaginabili sono sempre intorno a noi. Ho provato a salvare un mondo, un’epoca, un sistema di valori, l’ingenuità. È passato abbastanza tempo per dare più luce al seminterrato delle nostre storie ufficiali.

Cos’è che ha reso la vostra guerra diversa dalle altre?

Un nemico non è qualcuno che non conosci. Ecco cosa c’è stato di diverso. Il nemico è stato il tuo compagno di scuola, ci hai giocato a calcio, sei andato al cinema con lui, è persino venuto al tuo compleanno. Improvvisamente è diventato un nemico. Ciò che l’uomo è disposto a inventare collettivamente sul proprio vicino è folle e incredibile. Che razza di cose devi inventare perché il tuo vicino diventi “uno che in tutti questi anni ha tramato per vendicare la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale?”. La vicina è la madre del nemico. E non è più la vicina, non è più nemmeno una madre! La follia continua tuttora. L’ascensore è ancora in funzione. E oggi ci salgono i figli del nemico.

Lei è nato in una Jugoslavia unita. Com’è stato svegliarsi e scoprire di avere un nemico che, fino alla sera prima, tale non era?

Ho scritto il romanzo alla ricerca delle parole per esprimere quella sensazione. Perché, allo stesso tempo, avviene il processo inverso e anche tu diventi un nemico per qualcuno senza nemmeno saperlo. Per qualcuno dei vicini diventi un immaginario “altro”, il male ontologico e un ostacolo alla pace completa e onnicomprensiva. Le parti in guerra ti scelgono. Le nazioni ti rapiscono da te stesso. Diventi parte di una mandria, senza intuire che anche la mandria è sola, abbandonata, spaventata dal mondo e dal prossimo inverno.

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È mai esistita la “società verticale” del palazzo del suo romanzo?

No, naturalmente. Anche il villaggio verticale è un’illusione e l’ex patria socialista della Jugoslavia era un’illusione collettiva. Ma quel periodo si è sovrapposto alla mia infanzia e giovinezza, la mia privata, “l’età più felice”, da lì il sentimento per la Jugoslavia, ma non si tratta solo di “nostalgia”. La guerra ha reso l’era precedente più “verticale”. La guerra è un livellamento orizzontale, un’uniformazione. La guerra è un taglio brutale del bosco che riporta la verticalità a un inizio orizzontale.

Le è capitato un giorno di scoprire di dover uccidere il vicino di casa o è comunque un dramma che ha visto accadere?

Anch’io ho indossato un’uniforme e un fucile e ho provocato il terrore in un bambino e la paura mortale al mio solo passaggio. Era il figlio del mio vicino. Sono stato nell’esercito in guerra, come Eschilo, come un soldato greco. E come “libero cittadino” scrivo i miei “Persiani”, la mia battaglia di Salamina. Siccome anche la madre del mio vicino ha pianto, è venuto il momento di dispiacersi per lei, finché c’è ancora tempo, finché la nostra generazione non verrà portata via dalla prossima neve. O dal prossimo virus.

Un romanzo può contribuire a guarire certe ferite?

Certe ferite guariscono mostrando ad alta voce empatia per tutti coloro che hanno sofferto e consentendo ai bambini di essere cittadini eguali dell’Unione Europea, di rispettare i loro vicini, chiunque essi siano, di qualsiasi razza, religione, genere, di “essere responsabili della loro rosa”, come il Piccolo Principe. Lo scrittore deve credere che sta scrivendo qualcosa di più grande di “Amleto” o del “Processo”, deve confrontarsi con Borges o Šalamov, ma nella sua lingua! Se necessario, può inventare una lingua propria. È importante dirlo e incanalarlo dentro la lingua. La letteratura non può niente. E la letteratura, ovviamente, può ogni cosa. Una manciata di terra pulsante e bagnata, il mormorio di qualcosa sopra la pala.

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Scrivendo, ha mai stizzito qualcuno, da entrambe le parti?

Spero sinceramente che nessun lettore resti indifferente. L’ascensore di Prijedor è una metafora della perdita di identità. Alla fine del romanzo c’è una nota del grande scrittore jugoslavo Miroslav Krleža, che racconta la storia di una scultrice di Sarajevo la quale per errore fece lo scalpo a Sofia e Ferdinando, dopo l’attentato di Sarajevo del 1914. Non ci sono volti nemmeno nella morte. Oppure, solo nella morte abbiamo un volto. Il romanzo non prende posizione. Non si può essere arrabbiati per il sangue non cancellato di un bambino. Nessuna delle mie parole prende posizione.

Ci si è sentiti più liberi nella Jugoslavia del dopo-Tito? E oggi rispetto a prima della guerra?

La Jugoslavia è scomparsa da trent’anni. Ma è ossessivamente ancora qui. È temuta, è minacciata, tutto viene paragonato ad essa, chi la ricorda pubblicamente non è il benvenuto da nessuna parte. Ogni nazione ha un sacco di scuse per le giovani generazioni per giustificare questo grosso errore. A giudicare dalla letteratura che ha generato, la Jugoslavia è stata l’ultima speranza per la salvezza di questa lingua, che è stata lacerata e mutilata e infine ridotta con un’infinita banalizzazione a un pasticcio fraseologico per un tentato vocabolario.

La riconciliazione è possibile? E quant’è vicina?

Certo che è possibile. È un avvelenamento deliberato da parte di una élite neo-feudale, un nazionalismo persistente che è sempre più inebriante. Tuttavia, credo profondamente nell’avvicinamento dei nostri nipoti, che a mio avviso impareranno di più sul patriottismo dall’ecologia  e molto meno dalla storia.

Si ritiene un’espressione del crogiolo di culture dei Balcani?

Il contesto in cui creo è sorprendente. Una miscela che è anche molto “jugoslava”. Un piccolo teatro cittadino, sopravvissuto alla guerra civile, che interpreta Čechov per alcuni amanti. I Balcani sono un’attesa nervosa. Un teatro in città, il cui contesto determina immediatamente ogni opera d’arte. Certamente, anche l’autore.

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