Il giovane Marx per meglio capire lo sfruttamento e le diseguaglianze nel nome del neoliberismo
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Il giovane Marx per meglio capire lo sfruttamento e le diseguaglianze nel nome del neoliberismo

Giulio Marcon nel suo volume, Il giovane Marx. La radice delle cose racconta i primi trent’anni di vita del filosofo con la convinzione che molto di quel pensiero continui ad essere di grande attualità.

Carl Marx
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2 Maggio 2021 - 17.31


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di Antonio Salvati

Non tanto sorprendentemente assistiamo in questi anni a una riscoperta di Marx e del suo pensiero. Non solo per ragioni di carattere editoriale, con la ristampa di molte opere, o celebrativo (nel 2018 abbiamo ricordato i 200 anni dalla nascita di Marx e i 170 anni dalla pubblicazione del Manifesto del partito comunista), ma riguardano anche l’attualità del suo pensiero di fronte alle trasformazioni del capitalismo di questi anni. Il neoliberismo ha favorito un aumento considerevole delle diseguaglianze, la svalorizzazione del lavoro, la progressiva mercificazione del mondo, inedite condizioni di asservimento e di sfruttamento. L’espressione «lavoro servile» è tornata a essere utilizzata anche per definire le condizioni del lavoro nell’Occidente, nei Paesi più sviluppati. Lo stesso si può dire per l’espressione dei «working poor», un fenomeno che riguarda una parte crescente della manodopera mondiale. Giulio Marcon nel suo ultimo volume, Il giovane Marx. La radice delle cose (Jaca Book 2021 pp. 334, € 24), ci racconta i primi trent’anni di vita del filosofo tedesco (1818-1883) con la convinzione che molto del pensiero e delle intuizioni del giovane Marx continua ad essere di grande attualità. Le pagine dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, che Marx scrisse a 26 anni e in particolare i capitoli dedicati al denaro, al lavoro alienato, ai bisogni rappresentano, per Marcon, un’efficace raffigurazione di una società – quella attuale – «disumanizzata, capovolta, dominata da potenze esterne ed estranee che producono sfruttamento e schiavitù».

Marx ha origine ebraiche. Il nonno e il bisnonno paterni erano stati rabbini della città, il nonno materno lo era stato della città olandese di Nijmegen. Al padre, di idee liberali e illuministe, nel 1837, alla sola età di 19 anni, Marx scrisse una lettera intensa per spiegargli che avrebbe lasciato per sempre la via del diritto e seguito la sua amata strada della filosofia. Da essa dobbiamo partire per comprendere il percorso giovanile di Marx. «Ci sono momenti della vita, che si piantano come regioni di confine davanti ad un tempo trascorso, ma al tempo stesso indicano con precisione una direzione nuova», scrive da Berlino il giovane studente Marx, in piena crisi esistenziale. In un passaggio di questa lunga lettera Marx sostiene: «ancora una volta volli immergermi nel mare, ma con la ferma intenzione di trovare la natura spirituale altrettanto necessaria, concreta e solidamente fondata quanto la natura fisica, di non esercitare più l’arte della finzione, ma di portare la pura perla alla luce del sole». In altri termini, Marx aveva intuito, giovanissimo, che la realtà materiale senza realizzazione psichica non è niente.

Moses Hess – uno dei fondatori della «Gazzetta Renana» di cui Marx divenne il direttore – scrisse entusiasticamente di Marx sostenendo che avrebbe dato «il colpo di grazia alla religione e alla politica medievali. Egli unisce alla più profonda serietà filosofica, l’arguzia più tagliente. Immagina Rousseau, Voltaire, Holbach, Lessing, Heine e Hegel uniti in una sola persona (e dico uniti, non messi insieme alla rinfusa) e avrai Karl Marx». Già prima di approdare al comunismo nel 1844, il giovane Marx ha la consapevolezza che era necessario portare avanti «la critica spregiudicata di tutto ciò che esiste» perché era chiaro «come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente». Pochi anni prima del 1848 – quando pubblicò il noto Manifesto – Marx aveva chiara la sua vocazione che si tradurrà in un impegno che porterà avanti per tutta la vita, quello di cambiare il mondo: «l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole». Marx in questo periodo – spiega Marcon – professa un umanesimo radicale e «porta fuori l’uomo dall’astrattezza del sapere speculativo riconducendolo al mondo, alla storia, alla società».

Nel 1843 – dopo aver sposato Jenny – si trasferisce a Parigi, dove studia l’economia politica, conosce il socialismo francese, si avvia verso il comunismo. A Parigi la sua vita con Jenny e la sua famiglia – come sarà per il resto della sua esistenza – sarà caratterizzata – ricorda Marcon – dalle ristrettezze economiche e spesso dalla povertà estrema. Karl e Jenny avevano un rapporto con i soldi difficile e problematico, disinteressato. A Parigi Marx conosce e frequenta rivoluzionari e capi operai, filosofi e pensatori del movimento socialista. Conosce Pierre-Joseph Proudhon, di cui è da principio affascinato. Tuttavia, presto ne prenderà le distanze. Proudhon si poneva il problema dell’equa distribuzione della ricchezza prodotta e della proprietà. Proudhon in relazione alla teoria del valore-lavoro (in ogni merce è oggettivata una certa quantità di lavoro necessaria a produrla) rivendicava un diverso trattamento salariale. Per Marx – spiega Marcon – «ciò non era che il meccanismo dello sfruttamento capitalistico (il valore del lavoro è quello necessario a mantenerlo in vita), ed era quello che andava abolito, non meglio gestito. Proudhon proponeva un socialismo in chiave distributiva (basato su sistemi complicati come i buoni-lavoro, le cedole-orario), senza mettere in discussione i fondamenti dei meccanismi di produzione del sistema capitalistico».

A Parigi conobbe anche Bakunin con il quale ebbe un rapporto contrastato. Tutti ricordiamo ciò che li divideva profondamente: per Bakunin e gli anarchici lo Stato sarebbe dovuto gradualmente scomparire, per Marx ed Engels lo Stato era un tassello fondamentale della rivoluzione comunista e del proletariato che avrebbe dovuto usarlo per mantenere il potere e per portare fino in fondo la rivoluzione. Ma Bakunin sottolineò il merito maggiore di Marx, ossia la fondazione del materialismo storico: «Marx ha dimostrato il fatto incontestabile – confermato dalla storia antica e moderna della società delle nazioni e degli stati – che i rapporti economici precedono sempre il diritto dei politici e dei giuristi. È questo uno dei principali meriti di Marx».

Nel 1845 viene espulso dalla Francia e – non potendo tornare in Germania, pena l’arresto – si spostò con la famiglia a Bruxelles, dove frequentò assiduamente rivoluzionari e associazioni operaie.  Nel 1848 Marx è un militante apprezzato e stimato nel movimento socialista europeo. Chi lo frequenta da vicino ricorda che Marx era nato per essere un capo, «i suoi discorsi erano brevi, concisi e di una logica stringente. Non pronunciava parole superflue: ogni frase era un’idea, ogni idea un anello necessario nella catena della sua dimostrazione». Il Manifesto del partito comunista (1848) com’è noto fu un testo scritto su commissione. Su di esso è stato scritto tantissimo. Ciò che è opportuno sottolineare è che Marx pensava che anche testi rivolti all’agitazione politica dovessero avere delle solide basi scientifiche, fondati sulla analisi rigorosa delle condizioni economiche e sociali, senza essere superficiali o moralistici. Non c’era un vero e proprio partito comunista: quello cui si alludeva nel titolo era la tendenza, l’orientamento politico. Oggi sappiamo con maggior chiarezza – anche attraverso il lavoro di Marcon – che malgrado la stesura del Manifesto, che chiama alla rivoluzione il proletariato, Marx capisce «che il compito attuale dei comunisti è stare nel solco delle rivoluzioni democratiche per orientarle e condizionarle. I tempi della rivoluzione del proletariato non sono ancora maturi e critica per questo il velleitarismo di chi pensa di poter trasformare le rivoluzioni borghesi in rivoluzioni comuniste». Anche con il Manifesto, Marx ed Engels vogliono contrastare «la superficialità puramente agitatoria e moralistica di chi chiama alla rivolta senza conoscere i fondamenti economici, le condizioni sociali dello sfruttamento, dei meccanismi della produzione capitalistica. Marx afferma che è fondamentale per il proletariato avere questa coscienza e questa conoscenza, senza le quali ogni rivoluzione è destinata al fallimento».

Come già detto, ristudiare, rileggere il giovane Marx significa dotarsi di importanti strumenti di analisi e di comprensione della traiettoria che la società e l’economia capitalista hanno preso negli ultimi decenni, comprendendo meglio le ingiustizie economiche, la disumanizzazione sociale che stanno colpendo le nostre comunità. Meglio avvicinare i giovani a Marx con gli scritti di questo periodo che con la più nota opera Il Capitale, che francamente è di difficile lettura. Gli scritti giovanili affascinano per la freschezza delle argomentazioni e – sottolinea giustamente Marcon – per la dimensione umana ed etica, per i rimandi alla letteratura e all’arte. Dalle opere giovanili di Marx emerge soprattutto la volontà di andare a fondo delle cose, di evidenziare sempre la centralità della condizione umana come specchio dello sfruttamento della borghesia sul proletariato. Come ebbe a dire agli inizi del suo impegno politico: «Essere radicali significa andare alla radice delle cose e la radice delle cose è l’uomo».

Senza dubbio la lotta alle disuguaglianze combattuta soltanto sul piano materiale ha perso sia sul versante comunista che su quello liberista: troppo ampie sono oggi le disuguaglianze fra gli esseri umani e pochissimi detengono la maggior parte delle ricchezze mondiali. Anche se le grandi ideologie nella storia, e soprattutto nel secolo scorso, hanno fallito, rimane prioritaria una nuova concezione dell’uomo che non lo riduca né a puro spirito né a mero robot. Il mercato da solo non risolve tutto, ha più volte sostenuto Papa Francesco, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. La fragilità dei sistemi mondiali – accentuatasi durante la pandemia – ha evidenziato che non tutto si risolve con la libertà di mercato e che, oltre a riabilitare una politica sana non sottomessa al dettato della finanza, è necessario rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno.

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