Gian Luigi Rondi sapeva perché Pasolini andò all'Idroscalo dove fu ucciso
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Gian Luigi Rondi sapeva perché Pasolini andò all'Idroscalo dove fu ucciso

Ripubblichiamo a più di sei anni di distanza il 'necrologio' del grande critico cinematografico Gian Luigi Rondi che ha rivelazioni sull'omicidio

Gian Luigi Rondi sapeva perché Pasolini andò all'Idroscalo dove fu ucciso
Pier Paolo Pasolini e Gianluigi Rondi
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David Grieco Modifica articolo

31 Dicembre 2022 - 11.24


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Devo ammettere che la morte di Gian Luigi Rondi mi ha profondamente scosso. Tanti anni fa, una reazione del genere da parte mia non l’avrei neppure potuta immaginare. Tanti anni fa, Gian Luigi Rondi ed io eravamo letteralmente Nemici.


Lui era il critico cinematografico del Tempo di Roma, io il critico cinematografico de l’Unità. Io ero un ragazzo, lui era un uomo di grande prestigio. Io lo attaccavo cogliendo qualunque pretesto, lui non reagiva.
Questa piccola guerra, non proprio fredda, iniziò nel 1971, quando Gian Luigi Rondi venne nominato direttore della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia con l’incarico di restaurare (in tutti i sensi) il più antico Festival del mondo, nato mussoliniano e messo a dura prova dalla contestazione del 1968.


Nel 1971, Rondi prese le redini della Mostra e spalancò le braccia a tutto il cinema italiano dichiarandosi un uomo non di destra e affermando di essere perfettamente consapevole che il mondo del cinema era e sarebbe stato sempre orientato a sinistra. Per tutta risposta, l’associazione degli autori cinematografici italiani (l’Anac) allestì una “contro Mostra” organizzando a Mestre le Giornate del Cinema in antitesi al Festival. Ma alla resa dei conti, Rondi trionfò. Le Giornate furono un fallimento, e tutti i migliori autori finirono per accettare l’invito di Rondi.
In quei giorni, io mi inabissai negli archivi de l’Unità e cominciai a sfogliare le collezioni del Tempo di Roma. Mi capitò di trovare tante stroncature scritte da Rondi nei confronti di De Sica, di Rossellini, e di tanti capolavori del neorealismo italiano. Pubblicai su l’Unità (due pagine intere) gli stralci delle recensioni più perfide per dimostrare che Gian Luigi Rondi era senza alcun dubbio un uomo di destra, come il suo soprannome (l’Andreotti del cinema) stava a testimoniare. Su queste due pagine posi un titolo a caratteri cubitali, un titolo ad effetto: “Diario di un Cavaliere Nero”.


Gian Luigi Rondi fece fuoco e fiamme, e per almeno un paio d’anni non ricambiò mai il mio saluto quando ci incrociavamo alle proiezioni per i critici. Poi, un giorno che eravamo rimasti soli in sala, mi disse a bruciapelo che gli avevo arrecato il dolore più grande della sua vita. Cominciammo a dialogare, e io gli risposi semplicemente che quelle recensioni piuttosto infami le aveva scritte lui, non le avevo scritte io. Lui rispose che era stato obbligato dai proprietari del Tempo, la famiglia Angiolillo. Io ribattei che se l’Unità mi avesse chiesto una prestazione del genere, cosa mai accaduta, io avrei lasciato il giornale all’istante.


A poco a poco, pur rimanendo su opposte barricate, diventammo amici. E Gian Luigi mi diede l’opportunità di trascorrere dieci giorni da solo con il grande regista sovietico Andrej Tarkovskij al Festival di Taormina.
Tarkovskij voleva ad ogni costo fuggire dall’Unione Sovietica e alla fine ci riuscì, probabilmente anche grazie a Rondi. Io, dal canto mio, cercavo di scoraggiare Andrej. Ma non per motivi ideologici. Dicevo a Tarkovskij che ero assolutamente d’accordo sul fatto che tanti intellettuali sovietici volessero scappare dall’Unione Sovietica per cercare altrove la libertà, ma che questo non era il suo caso.


Tarkovskij in Urss godeva paradossalmente di una libertà che non avrebbe potuto trovare in nessun altro paese. Le riprese dei suoi film erano interminabili, e nessuno gli metteva fretta perché tutti i suoi collaboratori dipendevano dallo Stato e ricevevano tutto l’anno un regolare stipendio. Per fare un solo esempio, le riprese del film “Lo Specchio”, che a mio modesto avviso è il suo capolavoro, durarono più di 50 settimane. Dopo 50 settimane, da Mosca gli fecero sapere che doveva sbrigarsi a finire il film. Lui non ne volle sapere. E allora i burocrati non gli inviarono più la pellicola a colori, ma lo rifornirono esclusivamente di pellicola in bianco & nero per indurlo a gettare la spugna. Andrej non se ne fece un problema e continuò imperterrito a girare. Ecco perché nello “Specchio” ci sono molti momenti in bianco & nero. Alla faccia di tutti quei critici, anche illustri, che hanno scritto fiumi d’inchiostro per spiegare in modo spesso cervellotico la scelta di Tarkovskij di usare il bianco & nero in determinate scene.


Andrej Tarkovskij riuscì infine a trasferirsi in Italia dove fece un film intitolato “Nostalghia” e in seguito in Scandinavia dove realizzò “Il Sacrificio”. Ma non tardò a constatare che aveva commesso un errore e che non era più riuscito a ritrovare l’ispirazione poetica che lo abitava quando viveva nel suo paese. Del resto, poco dopo si ammalò e morì a soli 54 anni.


Tornando a Gian Luigi Rondi, la nostra amicizia si era definitivamente cementata proprio di recente. Gian Luigi aveva visto il film che ho fatto sulla morte di Pasolini, “La Macchinazione”, e lo aveva molto amato. Mi aveva telefonato per farmi tanti complimenti e a un certo punto era persino scoppiato a piangere, lodando il mio coraggio e ricordando il proverbiale coraggio di Pasolini, per fare mea culpa su tutte le volte che a lui il coraggio era mancato. “Io sono omosessuale e non ho mai avuto il coraggio di dirlo, ma ora a 94 anni sono stufo delle menzogne, e sento il preciso dovere di dire sempre la verità prima di passare a miglior vita”.


Una settimana dopo, Gian Luigi Rondi decise di andare in televisione (cosa che non faceva più da molti anni per via delle sue condizioni di salute) per perorare la causa della “Macchinazione”. Venne accolto dal conduttore Tiberio Timperi a “Unomattina in famiglia”, in diretta, per parlare del film. Fin dalla prima domanda, lasciò tutti (me compreso) ammutoliti. Timperi gli chiese subito cosa pensava della mia singolare idea di legare la morte di Pasolini al furto del negativo del film “Salò o le 120 Giornate di Sodoma”. Rondi gli rispose che quella non era una mia singolare idea, ma era la verità storica della morte di Pasolini. Gian Luigi spiegò all’esterrefatto Timperi che Pasolini gli aveva telefonato due settimane prima di morire per chiedergli un consiglio. Pasolini gli confidò che sarebbe potuto rientrare in possesso del negativo del film senza pagare alcun riscatto a condizione di incontrare personalmente i ladri, che avevano improvvisamente deciso di restituirglielo senza pretendere alcun riscatto. Ma quei ladri erano quelli della Banda della Magliana. Rondi si spaventò e lo sconsigliò, lo supplicò di non andare. Il seguito lo conosciamo.


Giorni dopo, andai a trovare Gian Luigi Rondi per ringraziarlo dello straordinario sostegno al film e lo ringraziai soprattutto di quella rivelazione perché Sergio Citti ed io non siamo stati quasi mai creduti tutte le volte che abbiamo detto che il furto delle bobine di “Salò” aveva rappresentato l’architrave della macchinazione ordita per ammazzare Pasolini. Gli chiesi anche perché avesse taciuto fino ad ora. Mi rispose con grande onestà e semplicità: “Ho avuto paura”.


La paura purtroppo è un denominatore comune a molti italiani. È per via di questa paura collettiva che noi non conosciamo la nostra storia. E gli italiani coraggiosi, spesso, fanno la fine di Pier Paolo Pasolini.


Pasolini aveva con Rondi un rapporto abbastanza simile al mio. Una volta scrisse di lui “sei talmente ipocrita che quando morirai finirai all’Inferno ma crederai di essere in Paradiso”. Tuttavia, anche Pasolini, come me, voleva bene a Rondi, sapeva apprezzarlo quando c’era da apprezzarlo, e lo stimava profondamente.


Ora, io posso solo constatare che Gian Luigi se ne è andato non prima di aver trovato il coraggio della verità, come mi aveva detto. Non sono credente e non ho idea di dove si trovi ora. Ma gli auguro tutto il bene possibile e piango la scomparsa di un intellettuale estremamente colto, intelligente e raffinato che ha dato al cinema italiano più di chiunque altro.

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