Quando il cibo è fonte di memoria
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Quando il cibo è fonte di memoria

Quando ero bambina, parlo dei primi anni ‘60, a casa mia avevamo il frigorifero che mia zia chiamava refrigeratore.[Giovanna Casagrande]

Quando il cibo è fonte di memoria
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11 Novembre 2013 - 18.22


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di Giovanna Casagrande

Quando ero bambina, parlo dei primi anni ‘60, a casa mia avevamo il frigorifero che mia zia chiamava refrigeratore, avevamo la lavatrice e persino la televisione, ricordo che il frigo altissimo rispetto alla mia altezza di bomba di 2/3 anni, era panciuto e aveva una targa con un nome, Bosch, solo dopo qualche anno i miei ne comprarono uno Indesit, ma dopo pochi anni mia madre poi optò per un Kelvinator che credo non si sia mai guastato.


Gli elettrodomestici come il frigorifero duravano anni, ma non è quello di cui voglio parlare, voglio parlare del cibo che veniva conservato dentro il frigo, per esempio mai la frutta, solo alcuni tipi di verdura e la carne, il burro,il latte e le uova, il pesce no perché si mangiava il giorno stesso dell’acquisto, ricordo che a Nuoro non c’erano pescherie quando ero bambina o forse non ne ricordo, ricordo che mangiavo il pesce che mio padre e signor Mario pescavano in qualche fiume o lago che non ricordo, non mi piaceva quel pesce, le trottole le chiamavo e mi facevano pena così lucide e maculate viscide e allo stesso tempo rigide, alcune piegate e impossibili da rimettere dritte, la carne non la mangiavamo tutti i giorni e a casa non mangiavamo carne di maiale, a mia nonna, che viveva con noi, non piaceva, quando diventammo più grandetti mio fratello e io dicevamo che nonna era sicuramente musulmana, non aveva mai mangiato niente che provenisse dal maiale, salumi per esempio, neanche quell’ottimo prosciutto crudo di Fonni, neanche i dolci con lo strutto, lei diceva – ozu ghermanu in sas sevadas e in sa ciambellas, ite est custa titulia, tottu custu sumene?-.

Titulia (schifezza) per mia nonna era tutto quello che arrivava chissà da dove, unica deroga riguardava le banane, ne era golosa, ma aveva una certa cura nel mangiarle, senza toccare il frutto con le dita che avevano toccato la buccia eliminava entrambe le punte dicendo che era meglio fare così, evitava di mangiare qualche germe,diceva lei.

La carne la comprava sempre da Tittinu, aveva un grosso ceppo di legno e una serie di coltellacci e credevo, in cuor mio, che il suo aiutante fosse in realtà un cattivissimo orco, spaccava schiene di animali grossissimi con una faccia che secondo me era cattivissima, mia nonna rideva della mia paura perché in realtà era un uomo buonissimo.

Compravamo la verdura da una signora che aveva l’orto, ricordo che mangiavamo i pomodori solo d’estate e che io che ne ero golosa e li mangiavo come mele mi rammaricavo quando sparivano per mesi dalla nostra tavola, mangiavano le verdure selvatiche, mia nonna nei pomeriggi senza pioggia ci portava, noi bambini, in campagnetta e ci insegnava a riconoscere le cicorie dalla bietola, ci insegnava a cogliere i finocchietti senza rovinare la pianta e a riconoscere s’irmulata, non so come si chiami in italiano a dire il vero, ma la amo stufata come cavoli.

Eravamo bambini “mezzo di città e mezzo di campagna” ci piaceva sentirci meticci in questo modo e nelle scorribande nel” campetto” eravamo pellerossa e le piccoline di casa povere giacche blu da circondare.

Ricordo la dispensa casalinga, uno scaffale posto in un luogo buio e pieno di ripiani fino in cima, c’era il posto per la provvista del formaggio, un po’ distante c’era il formaggio destinato a riempirsi di vermi, c’era lo spazio della provvista dell’olio, ricordo come nonna mi insegnò a riconoscere l’olio dal profumo, ne metteva un goccio sull’interno del polso e lo sfregava leggermente, se l’olio era vecchio e mal conservato nonna si adirava con chi lo portava a casa e si informava sulle condizioni del contenitore che doveva essere sempre in ottime condizioni, cust’ozu est tastiu, bae in bon’ora ma non ti lu so comporande- decretava nonna se finito l’olio nostro doveva rivolgersi ad altri acquirenti.

Non avevamo però il barile delle olive da confetto che aveva zia Mimmina, quando mi faceva impazzire immergere le mani dentro quell’acqua un po’ torbida e rubare quelle olive prima che le rovinassero, secondo me, con quegli spacchi che le avrebbero rese mollicce e soprattutto avrebbero tolto loro quel gusto intenso che sentivo in fondo alla gola.

E le meline di Sangiovanni e il mirto che ci rendeva le labbra viola? E le perine che prendevamo dagli alberi ed erano abitate da mini bruchi?
E il profumo di sa madriche, il lievito madre, che riempiva del suo profumo acido la stanza dove zia Angelina poi avrebbe informato quintali di pane carasau?

A volte mi era concesso di alzarmi prima, all’alba, ricordo sos contos di miei zie e le amiche, ricordo che solo zia Angelina poteva accendere il forno, c’era una cura nel riscaldare le pareti, le vedevo diventare rosse e poi dentro il pane si gonfiava e zia seduta per terra che con una maestria incredibile infornava sfornava infornava sfornava e quel pane bianco gonfio veniva separato in “fogli” e impilato velocemente.

Oggi questi ricordi mi occupano la mente, il cibo è amore e radici e identità e non riesco a rassegnarmi che quell’orribile baguette della Conad possa superare nella mia memoria olfattiva possa cancella re il profumo intenso del pane lentu che entrando in forno diventava carasau.

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