Strane alchimie dell'amicizia
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Strane alchimie dell'amicizia

Come diventare vedova del tuo migliore amico. Sia di Bruno Lauzi che di Massimo Catalano eravamo gli amici storici. Il ricordo di Stefano Torossi.

Strane alchimie dell'amicizia
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5 Maggio 2013 - 22.35


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di Stefano Torossi

6 maggio 2013

Strane alchimie dell’amicizia. Per un paio di mesi, dopo il 24 ottobre 2006, siamo stati la vedova Lauzi, e in questi giorni (dal 2 maggio) stiamo diventando la vedova Catalano. Serve una spiega? Forse sì. Sia di Bruno Lauzi che di Massimo Catalano eravamo gli amici storici. Con Bruno ci conoscevamo dal 1963, quando ci provammo, riuscendoci, a escogitare un inghippo per salvare un nostro amico clarinettista americano, a Roma con una borsa di studio, dal richiamo in Viet Nam. Con Massimo addirittura dal 1959, quando per breve tempo il gruppo dei Flippers ci prese in carico come contrabbassista. Sono morti tutti e due. E, prima con l’uno, poi con l’altro, ci siamo trovati, proprio nella nostra qualità di migliori amici del deceduto, a fare la parte della vedova, a ricevere le condoglianze, le scuse di chi non si sentiva a posto, e i rimpianti di chi pensava di non aver fatto abbastanza. A essere, insomma, con una grande gratificazione di protagonismo narcisistico, il punto di riferimento su cui coagulavano tutte le emozioni messe in subbuglio dalla morte. Strane alchimie dell’amicizia, davvero.

Torniamo al consueto. Due miracoli quasi contemporanei. Ecco i fatti. Martedì 30 aprile, un invito al teatro Argentina per un pomeriggio in onore del poeta Sandro Penna. Presenti e commemoranti, a cura di Franco Marcoaldi: Elio Pecora, Silvia Bre, e altri colleghi del commemorato. Il miracolo si compie quando non riusciamo a entrare in sala perché è tutto esaurito. Un incontro di poeti tutto esaurito! Altro che all’Argentina, a Lourdes sembrava di stare. Stupefatti e ultrafelici di questa manifestazione di trionfo culturale, ce ne andiamo a salutare un nuovo ristorante dalle parti del Panteon, che si chiama “La Ciambella”. Ottimi spuntini, sapienti aperitivi, birra freschissima, e voilà il secondo miracolo. Vaschette di gelatina di Negroni. Non siamo riusciti a sapere il segreto del barman; fatto sta che per noi che amiamo appassionatamente questo drink anni ’60, è stato un vero regalo. Gelatina molto morbida, colore, sapore, e soprattutto l’effetto inebriante del vero Negroni.

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Inutile crudeltà. “Festival Suona Francese” a Villa Medici, ambiente fra i più belli del mondo; un concerto del PluralEnsemble. Musiche dei giovani borsisti del Prix de Rome. Alcuni nomi: Andreyev, Sakai, Tian. Qualcuno forse farà strada, altri, ma non vi diciamo chi, secondo noi, proprio no. Esecutori buoni? Come si fa a dirlo. Di sicuro ce n’era una bellissima, bionda, eterea, che teneva per il collo un clarinetto basso recalcitrante, e sappiamo tutti che razza di suoni riesce a emettere quello strumento se non è trattato con polso. La crudeltà? L’idea di alternare nel programma le opere discutibili, e in discussione, dei ragazzi con quelle di autori affermati e indiscutibili, come Webern, Messiaen e De Falla. Un massacro.

Sabato 4 maggio al Teatro Studio una composizione dell’81 di Giorgio Battistelli: “Experimentum mundi – Opera di musica immaginistica per 16 artigiani, coro femminile, voce recitante e percussioni”. Uno di quei titoli che rimandano alle sperimentazioni, spesso interpretabili come prese per i fondelli, di quegli anni. Quindi, armati del nostro miglior ghigno beffardo, assistiamo alla preparazione della scenografia: mucchietti di calce e mattoni, deschi da ciabattino, uova e farina su un tavolo, e così via. Entrano gli artigiani vestiti giustamente da artigiani: grembiuloni, tute e canottiere, poi, in borghese, Peppe Servillo, voce recitante, poi le coriste in lungo, e finalmente il percussionista e il direttore (lo stesso compositore Giorgio Battistelli) in frak. Comincia il pasticcere rompendo mezza dozzina di uova su un cono di farina, e bisogna lodare il perfetto funzionamento dei microfoni che trasmettono mirabilmente lo spezzarsi dei gusci, lo splasc del tuorlo che cade nella farina, lo sbattere dell’albume. Poco a poco entrano tutti gli altri per creare un’ora di suoni del lavoro, tenuti a regime dal percussionista professionista, e dalla voce che elenca mestieri e utensili. Dobbiamo confessare che il ghigno beffardo ce lo siamo rimessi in tasca e abbiamo cominciato davvero a goderci questa invenzione geniale di Battistelli, dove di musica in senso tradizionale non si può certo parlare, ma di spettacolo musicale sì. In conclusione, a fine esecuzione, sul palco c’erano: tagliatelle per dodici pronte da cuocere, una botte assemblata, un paio di metri quadrati di selciato steso, un muretto costruito, altre realizzazioni varie, e applausi scroscianti.

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Ci siamo divertiti. Adesso, qualche insignificante appunto e una domanda. Gli artigiani ci sono sembrati troppo precisi nel seguire la direzione per non avere il diritto al titolo di percussionisti musicali (magari provvisori). Servillo in alcuni passaggi suonava troppo napoletano e burattinesco, alla Pappagone, per capirci. Sciocchezze. La domanda invece è questa. Come avrà fatto l’autore a depositare la sua opera alla SIAE? Perché la partitura, e sul podio la partitura c’era, sarà stata piuttosto una specie di lista della spesa: 12 uova, 1 chilo di farina, 130 sanpietrini, 2 tomaie e 4 tacchi, 50 kg di calce.

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