Strage di Crocus: così lo Stato islamico entra nella terza guerra mondiale a pezzi
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Strage di Crocus: così lo Stato islamico entra nella terza guerra mondiale a pezzi

Nella “terza guerra mondiale a pezzi” rientra anche lo Stato islamico con le sue articolazioni caucasiche. E lo fa seminando morte e distruzione nel centro Krokus-City

Strage di Crocus: così lo Stato islamico entra nella terza guerra mondiale a pezzi
La strage di Cocrus
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

23 Marzo 2024 - 13.14


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Nella “terza guerra mondiale a pezzi” rientra anche lo Stato islamico con le sue articolazioni caucasiche. E lo fa seminando morte e distruzione nel centro Krokus-City (il bilancio provvisorio è salito ad almeno 143 morti, ma sembra destinato ad aumentare col trascorrere delle ore). Per Vladimir Putin, appena “incoronato” presidente russo a vita in una elezione-farsa, è uno smacco da lavare col sangue. Per gli eredi del “Califfato” del fu al-Baghdadi, un messaggio al mondo: esistiamo ancora, non ci avete annientati, possiamo colpire e far male quando e dove vogliamo. 

Una lunga scia di sangue

Di grande interesse sono le analisi di grandi firme del giornalismo italiano, profondi conoscitori della realtà russa e del radicalismo islamico armato.

Scrive Anna Zefosova su La Stampa: “Beslan, Dubrovka, il settembre nero del 1999 a Mosca. Le riprese terribili dall’interno del centro Krokus-City fanno ricordare i momenti più neri della recente storia russa. Il ritorno del terrorismo, nel cuore della Russia, pochi giorni dopo la proclamazione di Vladimir Putin come non solo vincitore delle «elezioni» presidenziali, ma anche come dell’unico politico russo, che governa un Paese di esecutori e sottoposti, fa esplodere quella immagine di controllo totale che il Cremlino aveva proposto come una delle sue principali conquiste. 

Un complesso commerciale e una sala concerti che erano diventati un monumento alla nuova Mosca moderna e ricca (il Krokus-City aveva ospitato, tra l’altro, il concorso Miss Universo patrocinato da Donald Trump, che aveva avuto trattative di affari con il suo proprietario Emin Agalarov) è stato ridotto in cenere, la capitale russa è stata di nuovo ferita al cuore, le sue certezze trasformate in paure, la sua sicurezza in frantumi. Cancellati spettacoli teatrali, chiusi i cinema, rinviate le lezioni nelle università, fatti evacuare i centri commerciali, non solo a Mosca: all’improvviso, la Russia si sente in guerra. Una guerra lontana che diventa vicina, come era accaduto anche nelle ondate di terrorismo precedenti, a opera di estremisti islamisti prevalentemente originari del Caucaso russo. Beslan nel 2004 e Dubrovka, nel 2002, e ancora prima, negli anni ’90, Budennovsk e Pervomayskoe, erano stati atti drammatici della guerra in Cecenia, prese di ostaggi di massa in un tentativo della guerriglia cecena di costringere il Cremlino a cessare i bombardamenti e trattare. Dopo che Beslan era finita in una strage degli innocenti, era arrivata una stagione di atti terroristici in senso stretto, commessi non per trattare, ma per uccidere: attentati, bombe, terroristi e terroriste kamikaze, attacchi molto simili a quelli che avevano scosso l’Europa e il Medio Oriente, in quella offensiva dell’islamismo contro un Occidente del quale anche la Russia sembrava far parte, in una causa comune contro i jihadisti. 

La scenografia della strage di Krokus ricorda tanto Beslan e soprattutto Dubrovka, la presa di ostaggi nel teatro, un altro attacco alla Mosca benestante e indifferente a una tragedia lontana. Ma a vedere le immagini dei commandos che sparano contro le guardie e il pubblico, senza – almeno da quello che si sa per ora – nessuna minaccia, rivendicazione o richiesta – viene in mente semmai la strage del Bataclan. Gli uomini entrati al Krokus non volevano negoziare o mostrare il proprio messaggio, volevano uccidere il maggior numero di persone nel minor tempo possibile, fare terrorismo nel senso più stretto della parola, seminare terrore, totalmente indifferenti a chi sarebbero state le loro vittime. Più che Beslan, o Dubrovka, l’attacco di ieri sera ricorda il raid di Hamas contro Israele, in una festa della violenza. 

Resta da capire se Vladimir Putin vorrà trasformare la strage di Krokus nel suo 7 ottobre. Inevitabile la discussione sul cui prodest. I turboputiniani hanno già lanciato accuse all’Ucraina e agli Usa – l’”oligarca ortodosso” Konstantin Malofeev ha addirittura invocato un attacco atomico contro le città ucraine – e la polizia di Mosca sembrava convinta che i terroristi avessero usato un pullmino con la targa ucraina (che poi si è rivelata belorussa). I servizi segreti di Kyiv, e i volontari russi che combattono a fianco degli ucraini, hanno immediatamente accusato le trame dell’Fsb, ricordando che «il terrore contro i civili è il vecchio metodo amato da Putin». Che il presidente russo sia diventato una star della politica promettendo di «ammazzare i terroristi nel cesso» dopo gli attentati che avevano fatto circa 300 morti a Mosca e in altre città russe è vero, così come è vero che aveva approfittato dello shock degli atti terroristici per implementare il suo programma politico, come quando nel 2004 aveva usato il dolore di Beslan per abolire l’eleggibilità dei governatori regionali. Oggi, una strage a Mosca, se attribuita agli ucraini o a dei “partigiani” russi – e che il commando del Krokus era fatto di professionisti lo si è visto dalla sua mostruosa efficacia – può sicuramente far nascere nei russi una rabbia vera, che potrebbe giustificare una nuova chiamata alle armi che molti temono come imminente. Sarebbe però anche un colpo grave all’immagine del regime, che si propone come l’unico in grado di difendere i russi dalle minacce esterne e interne, e che si fa sfuggire, in una città piena di telecamere e poliziotti, un commando armato fino ai denti che riesce a dileguarsi nel nulla. È sintomatico che ieri sera i canali tv russi avevano a lungo trasmesso film e spettacoli, invece di dare la notizia della tragedia al Krokus, e che i portavoce ufficiali dei servizi e del governo erano stati molto prudenti, in attesa di sapere a chi avrebbe attribuito la colpa Putin”.

Radiografia del Jihad caucasico

La tratteggia, con la consueta capacità di dettaglio, Guido Olimpio per il Corriere della Sera: “I gruppi terroristici partono dal basso, prima con attacchi su target vicini, poi allargano il raggio d’azione e preparano gli uomini, infine, se possono, colpiscono oltre l’orizzonte. È il sentiero seguito dallo Stato Islamico-Khorasan, la «provincia» con basi nell’area afghana, diventata oggi la punta di lancia del Califfato. I sospetti per la strage di Mosca, rivendicazione inclusa, si concentrano su questa formazione che non è certo sbucata sotto i radar.


Creata attorno al 2015 da combattenti talebani-pachistani «scontenti» della casa madre, ha raccolto altri dissidenti ed ha messo insieme una forza di circa 2 mila uomini. I suoi leader, nonostante l’eliminazione di alcune figure importanti centrati dai droni Usa, sono riusciti a portare avanti il loro progetto. E lo hanno dimostrato con il primo segnale duro: l’eccidio all’aeroporto di Kabul durante l’esodo americano. 
La prova di forza, una sfida nella sfida. Con il passare del tempo l’intelligence occidentale, pur distratta da una infinità di crisi, ha continuato a mettere in guardia sul pericolo del «Khorasan», un timore motivato dalle «tracce» evidenti. La fazione ha reclutato mujaheddin nell’ex repubbliche sovietiche, nel Caucaso e coltivato simpatizzanti in Europa, ha inquadrato nel mirino la Russia e l’Iran.

Una combinazione di lotta totale, propaganda, proselitismo dichiarando guerra ai nemici storici occidentali, ai cristiani, agli ebrei, ai russi, agli iraniani. 
Insieme a molte azioni ridotte sul fronte afghano contro il nuovo potere talebano, ha pianificato incursioni all’estero. Ed ecco il massacro nella cittadina iraniana di Kherman, un bersaglio triplo: 1) gli sciiti. 2) il regime dei mullah. 3) il mausoleo dedicato al generale Soleimani, padre delle milizie avversarie. Questo episodio devastante è stato accompagnato ulteriori passi, molto più ad Ovest.  Dal 2020 ad oggi ci sono stati arresti di terroristi collegati al «Khorasan» in Germania, Olanda, Austria, cellule che volevano seminare morte in occasioni di festività o all’interno di siti religiosi. Una settimana fa i tedeschi hanno bloccato una coppia di afghani che si preparava ad un gesto contro il Parlamento svedese. 


Secondo gli esperti il movimento è tornato a tattiche consolidate, con seguaci ben addestrati, capaci di costruire «avamposti» logistici in stati limitrofi, di infiltrare adepti in grado di condurre attentati articolati, con commando che agiscono in più punti. Un modus operandi di livello superiore a quello del lupo solitario, dell’individuo che impugna una lama o usa la vettura-ariete sulla folla. La dinamica dell’assalto moscovita ricorda le stragi del Bataclan e dell’aeroporto di Bruxelles, concepite da killer con legami in Siria. Ma anche gli assedi nella scuola di Beslan e nel teatro Dubrovka eseguiti in modo feroce dagli estremisti ceceni. Qui ci può essere una saldatura tra «vecchio» e «nuovo», aumenta la spinta, gli attentati – specie se fanno molte vittime – diventano un esempio, cresce la popolarità della «branca afghana» rispetto a quella tradizionale, sempre radicata in territorio siriano e mai doma. 
Osama bin Laden aveva esaltato le «scorrerie dei cavalieri», mosse a sorpresa devastanti riprese da altre sigle quando sono riuscite ad avere opportunità ed interpreti. Lo hanno fatto i membri del Califfato in Europa, lo fanno ora esecutori pilotati da lontano. La storia del terrorismo si ripete, magari con forme diverse ma la sostanza è sempre quella. Ci sono delle pause, fasi di riorganizzazione da parte dei killer sotto pressione, ricerca di capi e di fondi, ma alla fine il serpente torna con il suo veleno”.

Annota, sempre sul quotidiano di Via Solferino, uno che la guerra in Ucraina l’ha raccontata dal campo: Lorenzo Cremonesi.

Scrive Cremonesi: “Ancora non c’è modo di verificare l’attendibilità della rivendicazione di Isis il massacro di Mosca di ieri sera. Impossibile al momento dire con certezza chi siano i responsabili. Si può però affermare che il modus operandi dei terroristi e l’attacco contro civili inermi in un momento di forte ripresa della repressione interna da parte del regime di Putin — dopo le elezioni di pochi giorni fa e la necessità di controllo sulla popolazione in vista dell’intensificazione della guerra in Ucraina —, possono indurre a guardare con attenzione anche alla pista islamica. 
Le cellule cecene erano tra le più feroci e militanti tra i ranghi del Califfato nel suo periodo di massima espansione nel 2014-16. I cristiani iracheni caduti sotto il loro controllo ne parlavano con terrore: erano spesso proprio i ceceni a eseguire gli interrogatori e le esecuzioni più feroci. 

Durante le battaglie contro le truppe di Bashar al-Assad erano ancora i ceceni a dare la caccia con maggiore determinazione ai soldati russi inviati da Putin per sostenere il regime. Quando poi, tra il 2017 e 2018, Isis venne battuto, parecchi analisti puntarono il dito sul pericolo rappresentato dai militanti che tornavano alle loro case nelle province musulmane della Russia. Alcuni di loro formarono anche cellule agguerrite per cercare di scalzare il regime di Ramzan Kadyrov nella stessa Cecenia. Altri tornarono nelle repubbliche islamiche del Caucaso del nord dove molti dei profughi delle battaglie in Cecenia avevano trovato rifugio creando un attivo movimento locale e nel 2016 agivano sventolando le bandiere nere e gli slogan di Isis. 


Le stesse autorità di Mosca nel 2016 indicavano che la guerriglia locale potesse contare su oltre 5.000 elementi. Le loro azioni sono state sporadiche. Il 18 febbraio del 2018 un militante di Isis uccise cinque persone nella chiesa russa di Kizlyar. Altri scontri a fuoco sono avvenuti nel 2019 in Daghestan e sembra che alcuni elementi si siano spostati in Azerbaigian”.

Da capire sono le ragioni della sottovalutazione del regime putiniano degli avvertimenti su possibili attacchi terroristici che si si erano fatti più stringenti in vista delle presidenziali. Come quelli provenienti dall’intelligence americana.

I servizi speciali russi avevano ricevuto informazioni dagli Usa su un piano per un attacco terroristico, ma senza «dettagli specifici». Lo ha detto all’agenzia russa Tass una fonte dei servizi russi all’indomani della strage di Mosca e dopo che la portavoce del Consiglio per sicurezza nazionale Usa, Adrienne Watson, ha riferito che gli Stati Uniti avevano informazioni su un piano per attacco terroristico a Mosca e che, come ha riferito la Cnn, avevano «condiviso le informazioni con le autorità russe». «Queste informazioni sono state effettivamente ricevute – ha detto la fonte alla Tass – Ma si trattava di informazioni di carattere generale, senza dettagli specifici».

Ma quest’ultima affermazione assomiglia molto ad una scusante a posteriori per una debacle che scalfisce pesantemente l’immagine dello “zar” garante della sicurezza dei suoi sudditi.

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