Siria: dopo Russia e Iran ora è la Cina a sdoganare il "macellaio di Damasco"
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Siria: dopo Russia e Iran ora è la Cina a sdoganare il "macellaio di Damasco"

Dopo Russia e Iran, è la volta della Cina a riaprire le porte al “macellaio di Damasco”, cancellando oltre un decennio di crimini, di distruzione, di morte. 

Siria: dopo Russia e Iran ora è la Cina a sdoganare il "macellaio di Damasco"
Assad in Cina
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

22 Settembre 2023 - 18.58


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Dopo Russia e Iran, è la volta della Cina a riaprire le porte al “macellaio di Damasco”, cancellando oltre un decennio di crimini, di distruzione, di morte. 

Una visita all’insegna del “ritorno” di Damasco su uno scacchiere internazionale più esteso. Bashar al-Assad è arrivato ieri in Cina nella prima visita di Stato del presidente siriano nel gigante asiatico dal lontano 2004. Assad – riferisce la televisione cinese di Stato Cctv – è giunto all’aeroporto di Hangzhou, capitale della provincia orientale del Zhejiang, accompagnato dalla moglie Asma e da una larga delegazione ufficiale. Domani sarà presente alla cerimonia di apertura della 19esima edizione dei Giochi asiatici e parteciperà, a margine dell’evento sportivo, a un ricevimento ospitato da Xi Jinping a cui dovrebbero presenziare anche il principe ereditario del Kuwait e il premier sudcoreano Han Duck Soo. Assad si sposterà successivamente a Pechino per nuovi colloqui con i leader cinesi. Secondo la portavoce del ministero degli Esteri cinese Mao Ning, la visita «permetterà di approfondire ulteriormente la reciproca fiducia politica e la cooperazione in vari campi, spingendo le relazioni bilaterali a nuovi livelli».

Pechino e Damasco, ha aggiunto Mao, hanno «una tradizionale e profonda amicizia» prima di ricordare che la Siria «è stata tra le prime nazioni arabe a stabilire relazioni diplomatiche con la Repubblica popolare ed è stata anche uno degli sponsor dell’accordo di ripristino del seggio legittimo della Cina all’Onu» al posto della Repubblica di Cina, l’attuale Taiwan. Un’amicizia ricambiata certamente dalla Cina che, in questi ultimi dodici anni di guerra in Siria, ha opposto il veto almeno otto volte al Consiglio di sicurezza dell’Onu per bloccare mozioni di condanna contro il regime di Assad, tra cui una relativa all’uso di armi chimiche. Anche l’accademico e analista cinese Yin Gang considera la visita «un segno che le relazioni sino-siriane potrebbero tornare al livello precedente alla Primavera araba, quando i due Paesi erano impegnati in un ampio spettro di programmi di cooperazione e condividevano una forte amicizia». Le “nuove potenziali aree di cooperazione” riguardano i progetti di ricostruzione della Siria, più precisamente la costruzione di dighe e di piattaforme petrolifere.

Difficile non guardare alla missione di Assad in Cina anche alla luce del ruolo sempre più importante che Pechino sta svolgendo in Medio Oriente e nel Nord Africa. Già nel 2018, circa 200 società cinesi hanno partecipato alla Fiera del commercio di Damasco, inaugurando una nuova stagione di collaborazione in continua espansione, mentre al gennaio 2022 risale l’adesione di Damasco alla Belt and Road Initiative (Bri), più nota come la “Nuova via della seta”. Il ruolo di Pechino si vede oggi “favorito” sia dall’impegno bellico russo in Ucraina, specie in quelle nazioni che si sentono “trascurate” da Mosca, sia dalle preoccupazioni elettorali negli Stati Uniti. 

La crescente influenza della Cina in Medio Oriente si è manifestata lo scorso marzo, quando Pechino ha ospitato i colloqui tra l’Iran e l’Arabia Saudita, sfociati nella ripresa delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi, interrotte dal 2016. Fu questa normalizzazione a sorpresa a contribuire, tra altre motivazioni, alla scelta saudita di invitare Bahar al-Assad al vertice della Lega Araba tenutosi nel maggio scorso a Gedda, permettendo al rais siriano di posare, per la prima volta dal 2010, tra i suoi omologhi e alla Siria il reintegro nel consesso arabo. 

L’interesse cinese per la Siria è inoltre legato a preoccupazioni securitarie. Durante l’ascesa del Daesh in Medio Oriente, diverse centinaia di cittadini cinesi uighuri si sono recate nella regione per combattere nelle fila dell’organizzazione terroristica, molti dei quali si sarebbero successivamente rifugiati nella provincia antigovernativa di Idlib. Da qui una cooperazione bilaterale nell’ambito della sicurezza da cui deriva un interesse cinese a favorire la stabilità del regime di Damasco. La Cina è il terzo Paese non arabo visitato da Assad sin dall’inizio della guerra in Siria, nel 2011. Gli altri due sono l’Iran e la Russia, coinvolti direttamente nel conflitto in Siria, i principali alleati del suo regime.

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L’America con gli oppositori

Da un lancio di agenzia Nova: “Tre deputati della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, i repubblicani Joe Wilson e French Hill e il democratico Brendan Boyle, hanno avuto, questa settimana, contatti telefonici con il capo druso Hikmat al Hijri, che dallo scorso 13 settembre ha dichiarato il proprio sostegno ai manifestanti che da oltre un mese protestano a Suwayda, capoluogo dell’omonimo governatorato della Siria meridionale, per il cambiamento politico. Al quotidiano emiratino “The National”, Boyle ha affermato di aver “ribadito il sostegno trasversale da parte del Congresso Usa alle proteste pacifiche a Suwayda e Deraa” durante il suo colloquio con il capo druso. “In qualità di co-presidente del Gruppo degli amici della Siria libera, stabile e democratica, ho avuto il piacere di discutere brevemente con sheikh Hikmat al Hijri, incoraggio i miei colleghi alla Camera e al Senato a fare lo stesso”, ha spiegato. Le proteste di Suwayda, infatti, iniziate principalmente con la richiesta di un miglioramento delle condizioni di vita, hanno assistito a un progressivo prevalere delle rivendicazioni politiche su quelle economiche.

Tra gli slogan scanditi dai manifestanti, dunque, sono divenuti gradualmente maggioritari quelli inneggianti alle dimissioni del presidente siriano, Bashar al Assad, a una transizione politica in senso democratico e a un ordinamento politico decentrato, in base alla risoluzione numero 2254 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Una fonte interna all’ufficio di Hill, ha riferito a “The National” che, durante il colloquio con Al Hijri, il deputato Usa ha discusso della “frustrazione della popolazione locale” e di come il capo druso “sia preoccupato per la sua incolumità”. Inoltre, ha aggiunto la stessa fonte, “Al Hijri ha riferito che il regime di Assad sta tagliando l’accesso all’acqua e all’elettricità e ha menzionato il traffico di Captagon”, uno stupefacente a base di fenetillina (droga di sintesi della famiglia degli anfetaminici). Mouaz Moustafa, direttore esecutivo della Syrian Emergency Task Force, con sede a Washington, che ha reso possibili i contatti telefonici tra i deputati Usa e il capo druso e vi ha personalmente assistito, ha dichiarato a “The National” che i colloqui sono sembrati “una conversazione tra amici”.

Un Paese in ginocchio

A raccontarlo, in un documentato report per Osservatorio Diritti, è Asmae Dachan. Scrive Dachan: “Dopo oltre dodici anni di guerra e terrorismo, l’economia della Siria è in ginocchio. Il cambiamento demografico ne è un segno tangibile: delle 22 milioni di persone che abitavano il Paese mediorientale prima dell’inizio delle ostilità, oggi circa 7,5 milioni sono sfollati interni e altrettanti sono profughi nei Paesi limitrofi, Turchia, Libano, Giordania e non solo. Il tessuto produttivo è decimato, la disoccupazione ai massimi storici, come l’inflazione.

La maggior parte dei rifugiati  non intende tornare perché mancano le condizioni minime di sicurezza, con fermi, arresti e sparizioni forzate denunciate anche dall’ Ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite (Ocha) e dal Syrian Network for Human Rights.

A dissuadere i siriani dal rientro in patria ci sono, inoltre, il perdurare della violenza e la povertà.  Secondo l’Onu, il 90% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. La lira siriana continua a perdere valore, con il cambio 1 lira siriana a 0.000398005 dollari americani a inizio settembre. I prezzi dei beni di prima necessità sono aumentati sensibilmente e la popolazione è ormai esasperata.

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La situazione in Siria: proteste da Sweida a Daraa

Da settimane le piazze della Siria sono tornate ad animarsi di manifestanti, non solo nell’area ribelle del nord-ovest, dove di fatto non si sono mai interrotte, ma anche nella città di Daraa, periferia di Damasco, e a Sweida. Quest’ultima è abitata dalla comunità drusa, un gruppo etnico-religioso sciita ismaelita che nel 2011 non si era unito alle proteste, godendo della protezione governativa in virtù della vicinanza alla comunità alawita, a cui appartiene il presidente Bashar al Assad.

Tra le aree più povere c’è proprio la Siria del nord-ovest, dove vivono circa 4,5 milioni di persone, di cui almeno 2 milioni sfollati, che secondo l’Ocha rischiano di non ricevere più nemmeno il pane a causa delle politiche di chiusura dei valichi di frontiera imposte dalla Russia in sede di Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Frontiere siriane ostaggio della politica

La Russia, nel suo ruolo di storica alleata del regime di Assad, oltre a partecipare attivamente ai bombardamenti e ad avere da anni le sue navi da guerra nei porti di Latakia e Tartous, in sede di Consiglio di Sicurezza ha sempre posto il veto sulle risoluzioni che riguardano la Siria. Secondo un nuovo report pubblicato dal Jusoor Center for Studies, in collaborazione con InformaGene for Data Analysis Foundation,Mosca ha 120 basi militari in Siria.

Nonostante la guerra all’Ucraina, la Russia continua ad avere una grande influenza anche nelle decisioni che riguardano la chiusura e l’apertura dei valichi di frontiera che collegano la Siria e la Turchia, che costituiscono l’unica possibilità per la popolazione delle aree del nord del Paese di ricevere gli aiuti umanitari, indispensabili per la sopravvivenza.

Gli accordi per garantire la sopravvivenza: il confine con la Turchia

Dopo lunghe trattative, lo scorso 8 agosto è stato raggiunto un accordo con il governo siriano e la Russia per riaprire il principale valico di frontiera dalla Turchia per consentire la consegna di aiuti umanitari. Per i prossimi sei mesi, il valico di frontiera di Bab al-Hawa, che collega la Turchia meridionale alla Siria del nord-ovest, sarà accessibile e consentirà all’assistenza tanto necessaria di raggiungere milioni di persone nel nord-ovest della Siria.

Bab al-Hawa è stato utilizzato dal 2014, quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha autorizzato le consegne di aiuti transfrontalieri oltre le linee di conflitto. Da allora, circa l’85% degli aiuti umanitari sono passati da Bab al-Hawa.

Il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha accolto con favore la decisione. L’accordo prevedeva anche l’autorizzazione per le Nazioni Unite a utilizzare per altri tre mesi i valichi di frontiera di Bab al-Salam e Al-Ra’ee, originariamente aperti all’inizio di quest’anno come parte della risposta di emergenza al disastro del terremoto che ha colpito la Siria e la Turchia il 6 febbraio.

La regione nord-occidentale è l’ultima roccaforte dell’opposizione in Siria e gli aiuti vengono consegnati dalla Turchia attraverso un meccanismo transfrontaliero autorizzato per la prima volta dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel 2014. Nel luglio 2023, un primo tentativo di rinnovare l’accordo presso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è fallito a causa del veto della Russia.

Il primo progetto di risoluzione, presentato da Brasile e Svizzera, richiedeva una proroga di nove mesi e includeva un paragrafo sull’espansione delle operazioni transfrontaliere, sull’aumento dei finanziamenti, sul rafforzamento delle attività di recupero precoce e sull’azione umanitaria contro le mine. Sebbene 13 dei 15 paesi del Consiglio abbiano votato a favore della risoluzione, questa è stato respinto dal voto negativo della Russia, uno dei cinque membri permanenti. La Cina, altro membro permanente, si è astenuta.

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L’ultimo accordo prevede la consegna di forniture salvavita alle popolazioni del nord-ovest, nonostante la preoccupante carenza di finanziamenti che ancora ostacola la risposta umanitaria.

La crisi umanitaria in Siria

Questa notizia arriva mentre i bisogni umanitari sono ai massimi storici dopo più di 12 anni di guerra e sulla scia dei devastanti doppi terremoti che hanno colpito la regione a febbraio. Secondo l’Onu, quasi 12 milioni di persone – più della metà della popolazione della Siria – non hanno abbastanza cibo e altri 2,9 milioni rischiano di patire la fame.

A giugno, il capo delle missioni umanitarie delle Nazioni Unite Martin Griffiths aveva avvertito che «dodici anni di conflitto, collasso economico e altri fattori hanno spinto il 90% della popolazione al di sotto della soglia di povertà». Gli operatori umanitari delle Nazioni Unite hanno avvertito i membri del Consiglio di sicurezza all’inizio di questa estate che i siriani stanno affrontando una «crisi umanitaria in continuo peggioramento».

Ramesh Rajasingham, capo rappresentante dell’Ocha, ha dichiarato a luglio che «nonostante queste gravi vulnerabilità, il piano di risposta umanitaria del 2023 per la Siria è finanziato solo per il 12,4%». Rajasingham ha inoltre ammonito che, in assenza di finanziamenti urgenti, gli operatori umanitari dovranno fare «scelte difficili anche quest’anno». La crisi dei finanziamenti «senza precedenti» in Siria ha anche costretto agenzie come il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite ad annunciare vasti tagli alle forniture di aiuti, comprese riduzioni delle razioni alimentari mensili.

Assistenza ridotta ai rifugiati: il caso Giordania

La Giordania ospita la seconda più alta percentuale di rifugiati pro capite al mondo, con oltre 660.000 rifugiati, prevalentemente provenienti dalla Siria, registrati presso l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Un recente rapporto dell’Unhcr sulla situazione socioeconomica dei rifugiati in Giordania, durante il primo trimestre del 2023, ha mostrato che quasi nove famiglie di rifugiati su dieci erano indebitate.

Il rapporto Food Security in Numbers per il primo trimestre del 2023, pubblicato dal World Food Program, ha mostrato che l’importo medio del debito tra i rifugiati sia nei campi sia nelle comunità ospitanti in Giordania è aumentato del 25% nell’ultimo anno. A luglio, il Wfp ha ridotto la propria assistenza di un terzo a tutti i beneficiari nelle comunità ospitanti, colpendo 346.000 persone, secondo l’ultimo rapporto Jordan Country Brief del Wfp

L’assistenza ricevuta da tutti i 119.000 beneficiari che vivono nei campi è stata ridotta di un terzo a partire da agosto, si legge nel documento del Wfp. Inoltre, il rapporto ha mostrato che il numero complessivo di rifugiati ammissibili all’assistenza diminuirà di quasi il 12%: si passerà da 460.000 a circa 410.000 beneficiari entro fine settembre a causa di «un grave deficit di finanziamento senza precedenti. Siamo profondamente preoccupati per il potenziale deterioramento della sicurezza alimentare delle famiglie. Ma man mano che i fondi si esauriscono, le nostre mani sono legate», ha affermato Alberto Correia Mendes, rappresentante del Wfp e direttore nazionale in Giordania.

Nonostante abbia dato priorità alle famiglie più povere ed abbia gradualmente escluso circa 50.000 persone dall’assistenza, il rapporto ha mostrato che il Wfp ha ancora bisogno di un totale di circa 30 milioni di dollari per continuare a fornire assistenza a livelli ridotti da ottobre a dicembre 2023”.

Uno Stato fallito. Un Paese in macerie. Un popolo senza pace. E’ la Siria su cui continua a “regnare” un criminale di guerra, accolto con tutti gli onori a Pechino. 

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