Raid in Siria: Netanyahu riapre un fronte di guerra per placare quello interno
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Raid in Siria: Netanyahu riapre un fronte di guerra per placare quello interno

Per distrarre l’attenzione dalla protesta popolare che da oltre te mesi sta infiammando Israele, non c’è niente di meglio per un primo ministro alle corde, del rispolverare la minaccia estera, riaprendo il fronte nord: quello siriano.

Raid in Siria: Netanyahu riapre un fronte di guerra per placare quello interno
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

2 Aprile 2023 - 18.15


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Per distrarre l’attenzione dalla protesta popolare che da oltre te mesi sta infiammando Israele, non c’è niente di meglio per un primo ministro alle corde, del rispolverare la minaccia estera, riaprendo il fronte nord: quello siriano.

Fronte di guerra

Nella notte tra sabato e domenica c’è stato un attacco aereo nella provincia di Homs, in Siria. Secondo il ministero della Difesa siriano l’attacco ha causato 5 feriti ed è stato compiuto da Israele. Anche alcuni giornali israeliani lo hanno attribuito alle forze israeliane: è il terzo attacco di questo tipo nel giro di tre giorni. In uno degli ultimi, compiuto venerdi vicino a Damasco a Damasco molto probabilmente sempre da Israele, è stato ucciso un membro delle Guardie rivoluzionarie iraniane, la forza militare più potente dell’Iran.

Come in altre circostanze simili, Israele non ha commentato l’accaduto: ma i suoi attacchi in territorio siriano sono frequenti, e in generale Israele ha ammesso di voler prendere di mira obiettivi militari legati all’Iran e al suo alleato Hezbollah, gruppo radicale sciita libanese che sostiene il regime siriano di Bashar al Assad, che riceve armi che transitano dalla Siria e il cui nemico principale è proprio Israele.

Un quadro strategico diverso e delicato

A darne conto in un documentato report del 24 marzo su InsideOver è Paolo Mauri

Annota tra l’altro Mauri: “Da quando è scoppiata la guerra civile in Siria nel 2011, Israele ha effettuato centinaia di attacchi aerei, prendendo di mira principalmente le posizioni dell’esercito siriano, delle milizie sciite sostenute dall’Iran (Hezbollah) e delle stesse Guardie della Rivoluzione Islamica iraniane (le Irgc meglio note come pasdaran) che sono presenti attivamente nel Paese.

In particolare le milizie appoggiate da Teheran hanno una forte presenza nella regione di Aleppo in quanto hanno fornito un fondamentale supporto all’esercito siriano nella sua riconquista dei distretti della città controllati dai ribelli e dai terroristi nel 2016. 

Secondo i primi rapporti di Damasco, l’attacco israeliano ha seguito uno schema ben consolidato: i caccia della Iaf sono giunti dal mare, in questo caso a ovest della città di Latakia ove è presente un insediamento militare russo (la base aerea di Hmeimim è poco più a sud) lanciando i missili prima di entrare sul territorio siriano, quindi usando munizionamento stand-off. Secondo il ministero dei Trasporti siriano, i raid hanno causato danni alla pista dell’aeroporto di Aleppo e ad altre strutture dello scalo, costringendo tutti i voli in arrivo a essere reindirizzati a Damasco o a Latakia. 

Non si tratta della prima incursione su Aleppo: il 7 marzo un altro attacco all’aeroporto aveva causato tre vittime e la chiusura dello stesso per tre giorni. Ancora prima, a settembre, ne era stato effettuato un altro. 

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Tel Aviv, infatti, ha aggiornato la sua tattica di contrasto alla penetrazione iraniana in Siria da qualche tempo, e gli attacchi più frequenti agli aeroporti siriani lo dimostrano. A fine dicembre, infatti, la Difesa israeliana aveva fatto trapelare l’intenzione di interrompere i collegamenti aerei tra Iran e Siria che vengono utilizzati da Teheran per rifornire di sistemi d’arma Hezbollah e gli stessi pasdaran presenti in Siria. Poco dopo, il 2 gennaio, un’incursione aerea della Iaf aveva colpito l’aeroporto internazionale di Damasco causando gravi danni. Le incursioni sono poi proseguite seguendo lo stesso schema di attacco dal mare: il mese scorso, un raid ha ucciso 15 persone in un distretto di Damasco. Quanto accaduto negli ultimi tre giorni arriva in un momento particolarmente delicato e di svolta per la stabilità del Medio Oriente: Iran e Arabia Saudita, tramite mediazione cinese, hanno infatti riallacciato i rapporti diplomatici con in agenda un percorso di normalizzazione del conflitto in Yemen e non solo. Casa Saud infatti, a margine dell’accordo con Teheran, ha avviato il processo per riaprire anche la propria legazione a Damasco. 

Il generale dell’Us Army Michael Kurilla, capo del Central Command (che dirige le operazioni in Medio Oriente e Asia Centrale), ha avvertito che le forze statunitensi potrebbero effettuare ulteriori attacchi se necessario. “Siamo attrezzati per opzioni scalabili di fronte a qualsiasi ulteriore attacco iraniano”, ha affermato Kurilla in una nota. Rivolgendosi giovedì al comitato per i servizi armati della Camera degli Stati Uniti, Kurilla ha avvertito che “l’Iran di oggi è esponenzialmente più capace militarmente di quanto non fosse cinque anni fa” indicando l’arsenale iraniano di missili balistici e droni come principale minaccia.

Continua quindi la “guerra ombra” di Israele all’Iran, che vede come campo di battaglia la Siria, e lo scontro tra Washington e Teheran. I due conflitti non dichiarati, però, assumono connotazioni profondamente diverse: Israele non fa mistero della sua campagna di incursioni, che è sistematica, attiva, e coinvolge obiettivi principalmente iraniani o delle milizie sciite, effettuata col placet silenzioso di Mosca, mentre gli Stati Uniti hanno una politica esclusivamente reattiva, come evidenziato da quest’ultimo raid e dai precedenti effettuati anche dall’amministrazione di Donald Trump.

Occorre sottolineare, ancora una volta, che proprio per lo schema delle incursioni israeliane, sempre effettuate provenendo dal mare e sfiorando le basi russe di Hmeimim e Tartus, è certo che il Cremlino viene informato preventivamente delle stesse, anche per evitare “spiacevoli” eventi come quello occorso a settembre 2018, quando l’ennesimo raid israeliano aveva attivato la difesa area siriana che per errore ha abbattuto un aereo spia russo tipo Il-20M”, conclude Mauri.

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Manovre di riavvicinamento

Le ricostruisce, con accuratezza, l’Agenzia Nova: “L’Egitto sostiene una soluzione politica alla crisi in Siria, raggiunta dai siriani stessi sotto l’egida delle Nazioni Unite, e in linea con la risoluzione numero 2254 del Consiglio di sicurezza dell’Onu. È quanto affermato oggi dal ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, in occasione dell’incontro con l’omologo siriano, Faisal Miqdad, giunto al Cairo per la sua prima visita nel Paese nordafricano da circa dieci anni. Secondo quanto riferito dal portavoce del ministero degli Esteri egiziano, Ahmed Abu Zaid, in un comunicato stampa, Shoukry ha poi sottolineato il sostegno del suo Paese agli sforzi dell’inviato speciale delle Nazioni Unite in Siria, Geir Pedersen. Durante un incontro bilaterale a porte chiuse, i due ministri hanno discusso delle modalità per rafforzare le relazioni bilaterali tra i propri Paesi e di alcune questioni regionali e internazionali di mutuo interesse. Poi, i titolari della diplomazia hanno poi presieduto consultazioni bilaterali che hanno visto la partecipazione di delegati di entrambi i Paesi. Al centro delle discussioni vi sono state le modalità per aiutare il popolo siriano a ripristinare la propria unità e sovranità sull’intero territorio e ad affrontare le crescenti sfide, inclusi gli effetti del devastante terremoto del 6 febbraio scorso. Shoukry, riferisce il portavoce, ha posto l’accento sulla necessità di raggiungere il consenso nazionale tra tutti i siriani, di costruire fiducia e di continuare le riunioni del Comitato costituzionale siriano, al fine di favorire una soluzione politica globale alla crisi nel Paese mediorientale. Una soluzione, ha affermato il ministro egiziano, “porrebbe fine all’ingerenza straniera nelle questioni interne della Siria, assicurerebbe il ripristino della piena sicurezza e stabilità del Paese, ne preserverebbe l’integrità territoriale e la sovranità, salvaguarderebbe le capacità del suo popolo, eliminerebbe tutte le forme di terrorismo e consentirebbe il ritorno volontario e sicuro dei rifugiati siriani”. Da parte sua, Miqdad ha espresso l’apprezzamento di Damasco per il ruolo svolto dall’Egitto a sostegno della Siria durante gli anni della crisi, ringraziando Il Cairo per l’assistenza umanitaria fornita anche all’indomani del sisma del febbraio scorso. Il ministro siriano ha affermato che la prossima fase vedrà una maggiore solidarietà con la Siria all’interno del mondo arabo, affinché Damasco possa superare la crisi e svolgere il suo ruolo storico a sostegno delle cause della regione. Miqdad ha passato in rassegna diversi aspetti della crisi siriana, comprese le sfide economiche, umanitarie e di sicurezza che il popolo siriano continua ad affrontare. Entrambi i ministri hanno infine concordato di intensificare i canali di comunicazione tra i propri Paesi nel prossimo periodo, in modo da discutere di questioni di interesse di entrambi i popoli e nazioni.

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La visita di Miqdad in Egitto si inserisce anch’essa nel quadro del progressivo riavvicinamento di Paesi arabi a Damasco. Shoukry aveva effettuato una visita ufficiale in Siria lo scorso febbraio, la prima di un funzionario egiziano dal 2011, per trasmettere al presidente siriano, Bashar al Assad, il messaggio di solidarietà dell’omologo egiziano, Abdel Fattah al Sisi, e la sua volontà di continuare a impegnarsi a sostegno dei siriani dopo il violento sisma dello scorso 6 febbraio. Nel messaggio, il presidente egiziano si diceva inoltre “fiero” delle storiche relazioni tra i due Paesi, auspicandone il rafforzamento. Lo stesso Shoukry, durante l’incontro con Assad, aveva definito il rapporto tra Egitto e Siria come “un pilastro fondamentale nella difesa dei Paesi arabi”. Da parte sua, Assad aveva ringraziato Il Cairo per il sostegno mostrato a Damasco dopo il terremoto.

Il terremoto del 6 febbraio ha posto in primo piano la questione dell’invio di aiuti umanitari al governo di Damasco, da oltre dieci anni quasi del tutto isolato a livello internazionale, sia dalla comunità occidentale che dagli stessi Paesi arabi. Vale la pena ricordare che Damasco è stata espulsa dalle riunioni della Lega araba e, eccetto i contatti con gli Emirati, a livello ufficiale è stato un decennio di gelo diplomatico. La normalizzazione dei rapporti tra Damasco e Abu Dhabi, in realtà, è in corso da prima del terremoto. Risale al marzo 2022 la prima visita del presidente siriano negli Emirati, nonchè suo primo viaggio in un Paese arabo dallo scoppio della guerra civile siriana nel 2011. La visita, giunta a soli tre giorni da quello che viene considerato convenzionalmente l’anniversario della sollevazione siriana del 2011, sembrerebbe essere stata un segnale molto chiaro del fatto che vari attori regionali, al pari degli Eau, sono disposti a normalizzare le relazioni con il governo di Damasco dopo l’isolamento decennale dovuto al conflitto nel Paese. A confermare l’ipotesi vi è stata anche, a febbraio scorso, la visita di Assad nel Sultanato dell’Oman”.

L’azzardo di “Bibi”

 Il dibattito politico in Israele “non danneggia e non danneggerà la determinazione, la forza e la capacità di agire contro i nostri nemici su tutti i fronti dove e quando lo richiedono”. Ad affermarlo è  il premier Benjamin Netanyahu nella consueta riunione domenicale del governo a Gerusalemme. Riferendosi poi – secondo i media – indirettamente agli attacchi attribuiti ad Israele in Siria, Netanyahu ha aggiunto: “Stiamo facendo pagare un alto prezzo ai regimi che sostengono il terrorismo oltre i confini del Paese. Consiglio loro di non sbagliare”.

Il fronte di distrazione di massa è aperto. Ed è un fronte di guerra.

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