Israele: le "camice brune" di Ben Gvir
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Israele: le "camice brune" di Ben Gvir

La destra oltranzista, guidata dal ministro della Sicurezza interna Itamar Ben Gvir, che ha “barattato” la sua disponibilità al “congelamento” con l’impegno del premier a costituire una “Guardia nazionale” alle dipendenze dello stesso Ben Gvir

Israele: le "camice brune" di Ben Gvir
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

29 Marzo 2023 - 14.09


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Israele, la notte della democrazia non è finita ma s’intravvede un flebile spiraglio di luce. La protesta popolare che per dodici settimane ha segnato il Paese, culminata con lo sciopero generale che lunedì ha paralizzato Israele, ha costretto il primo ministro Benjamin Netanyahu a sospendere la contestata riforma della giustizia fino alla prossima sessione parlamentare, a inizio maggio.

Lo scontro resta aperto con una destra oltranzista, guidata dal ministro della Sicurezza interna Itamar Ben Gvir, che ha “barattato” la sua disponibilità al “congelamento” con l’impegno del premier a costituire una “Guardia nazionale” alle dipendenze dello stesso Ben Gvir. Tocca allora al capo dello Stato, Isaac Herzog, provare a ricucire lo strappo e a trovare una soluzione alla più grande crisi politica nella storia d’Israele. Herzog ha chiesto di avviare “un immediato processo negoziale” sotto gli auspici della presidenza per raggiungere un accordo di compromesso sulla riforma della giustizia. Il presidente israeliano l’ha chiesto a Netanyahu e ai leader dell’opposizione Yair Lapid e Benny Gantz.

Il presidente, ha fatto sapere l’ufficio di Herzog come scrive il Times of Israel, ha chiesto la creazione di team per i negoziati in modo che possano iniziare i colloqui. Gantz ha presto annunciato la scelta dei parlamentari Gideon Sa’ar (ex ministro della Giustizia), Chili Tropper e Orit Farkash-Hacohen insieme al giurista Ronen Aviani. E nella mattinata di ieri è arrivato anche l’annuncio di Lapid, che ha indicato i parlamentari Orna Barbivai e Karin Elharrar, l’ex direttore generale dell’ufficio del premier Naama Schultz e il giurista Oded Gazit. Nel team di negoziatori del governo ci sono il ministro per gli Affari strategici, Ron Dermer, il capo di gabinetto Yossi Fuchs e il numero uno del dipartimento legale al Kohelet Forum, Aviad Bakshi. “Siamo impegnati in un dibattito importante, e ne verremo fuori. Il nostro obiettivo è quello di raggiungere vaste intese”: così si è espresso Netanyahu in un incontro con i dipendenti dell’ufficio del primo ministro, in occasione della imminente Pasqua ebraica. 

Netanyahu si è fermato ad un passo dalla guerra civile. E lo ha fatto anche per non arrivare ad una rottura insostenibile con l’amministrazione Usa. Non è un caso che la Casa Bianca ha dato l’ok alla visita di “Bibi” solo dopo l’annuncio della sospensione della riforma spacca-Israele. Resta però in piedi un governo marchiato dall’estrema destra. Il rischio di implosione democratica non è mai stato così alto. E questo nel momento in cui sullo scenario regionale si assiste ad un riavvicinamento tra i nemici di sempre: Iran e Arabia Saudita. Resta l’humus culturale, prim’ancora che politico, che tiene insieme il governo più a destra nella storia d’Israele: un impasto di messianismo religioso, dalle forti venature razziste,  e un progetto politico, di cui la riforma della giustizia è parte ma non è il tutto, che mira sovvertire le basi democratiche dello Stato. E questo progetto non è stato “congelato”. A presidiarlo sarà la “Guardia nazionale” in mano a Ben Gvir. Le “camice brune” d’Israele.

Allarme nero

Globalist ha raccontato passo dopo passo l’assalto allo stato di diritto portato avanti da una destra radicale, oltranzista, animata dalla volontà di stravolgere, cancellare i fondamenti del sistema democratico e seppellire ciò che resta del pionierismo sionista che animò i padri fondatori d’Israele. E’ il fascismo che va al governo e si fa Stato.

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A darne conto è un illuminante, coraggioso, drammatico editoriale di Haaretz, voce illuminata della protesta popolare anti-governativa: “Nel suo discorso di lunedì sera, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha ripetutamente messo in guardia da una guerra civile. Come si addice al nostro incitatore nazionale, lo ha fatto anche mentre diffamava e calunniava i suoi avversari. “C’è una minoranza estremista che è disposta a fare a pezzi il Paese e sta fomentando una guerra civile”, ha accusato, aggiungendo che questa minoranza “usa la violenza, è un piromane, minaccia di fare del male ai funzionari eletti, tifa per la guerra civile e invita a rifiutarsi [di fare il servizio militare], che è un crimine terribile”.
Ma non ha detto una parola sul suo ruolo nel portare Israele sull’orlo della guerra civile. Al contrario, nel suo discorso, Netanyahu ha insistito sul fatto che lui, a differenza degli oppositori del colpo di Stato contro il nostro sistema di governo, “non è disposto a fare a pezzi la nazione”. Ma come al solito con lui, le sue parole non hanno alcun rapporto con i suoi fatti. Poco prima di rivolgersi alla nazione dicendo di essere disposto a congelare le leggi di revisione legale fino alla sessione estiva della Knesset in nome del “dialogo”, ha firmato l’impegno a istituire una guardia nazionale che sarà subordinata al ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. O, in parole povere, la forza di polizia privata di Ben-Gvir.


Ben-Gvir, discepolo di Meir Kahane, è un criminale aggressivo, estremista e condannato. Formare una milizia che sarà subordinata a lui piuttosto che alla polizia è una mossa irresponsabile che metterà necessariamente in pericolo gli israeliani che non hanno commesso alcun crimine. Un leader politico che non è interessato a una guerra civile non crea e finanzia una forza di polizia privata armata per il membro più estremista del suo gabinetto. Questa mossa dimostra effettivamente che Netanyahu si sta preparando alla guerra civile. Netanyahu ha guadagnato tempo fino all’estate per reprimere le proteste e impegnarsi nel “dialogo”. Ma a quanto pare intende usare questo tempo soprattutto per prepararsi al meglio alla prossima ondata di proteste. E lui e il suo partner kahanista affronteranno questa ondata con una forza di polizia privata a loro disposizione che è direttamente subordinata al ministro della Sicurezza nazionale, non al commissario di polizia Kobi Shabtai. La sua bandiera non sarà quella di Israele, ma quella del movimento Kach di Kahane. A giudicare dalle sue azioni, Netanyahu non è diretto verso la pace, ma verso la guerra. Nel suo discorso di lunedì sera, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha ripetutamente messo in guardia da una guerra civile. Come si addice al nostro incitatore nazionale, lo ha fatto anche mentre diffamava e calunniava i suoi avversari. “C’è una minoranza estremista che è disposta a fare a pezzi il Paese e sta fomentando una guerra civile”, ha accusato, aggiungendo che questa minoranza “usa la violenza, è un piromane, minaccia di fare del male ai funzionari eletti, tifa per la guerra civile e invita a rifiutarsi [di fare il servizio militare], che è un crimine terribile”.

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Ma non ha detto una parola sul suo ruolo nel portare Israele sull’orlo della guerra civile. Al contrario, nel suo discorso, Netanyahu ha insistito sul fatto che lui, a differenza degli oppositori del colpo di Stato contro il nostro sistema di governo, “non è disposto a fare a pezzi la nazione”. Ma come al solito con lui, le sue parole non hanno alcun rapporto con i suoi fatti. Poco prima di rivolgersi alla nazione dicendo di essere disposto a congelare le leggi di revisione legale fino alla sessione estiva della Knesset in nome del “dialogo”, ha firmato l’impegno a istituire una guardia nazionale che sarà subordinata al ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. O, in parole povere, la forza di polizia privata di Ben-Gvir. Ben-Gvir, discepolo di Meir Kahane, è un criminale aggressivo, estremista e condannato. Formare una milizia che sarà subordinata a lui piuttosto che alla polizia è una mossa irresponsabile che metterà necessariamente in pericolo gli israeliani che non hanno commesso alcun crimine. Un leader politico che non è interessato a una guerra civile non crea e finanzia una forza di polizia privata armata per il membro più estremista del suo gabinetto. Questa mossa dimostra effettivamente che Netanyahu si sta preparando alla guerra civile.


Netanyahu ha guadagnato tempo fino all’estate per reprimere le proteste e impegnarsi nel “dialogo”. Ma a quanto pare intende usare questo tempo soprattutto per prepararsi al meglio alla prossima ondata di proteste. E lui e il suo partner kahanista affronteranno questa ondata con una forza di polizia privata a loro disposizione che è direttamente subordinata al ministro della Sicurezza nazionale, non al commissario di polizia Kobi Shabtai. La sua bandiera non sarà quella di Israele, ma quella del movimento Kach di Kahane. A giudicare dalle sue azioni, Netanyahu non è diretto verso la pace, ma verso la guerra.


È facile indovinare chi si unirà ai ranghi della milizia. Lunedì scorso, un dimostrante di estrema destra ha colpito con un bastone il giornalista televisivo di Canale 13 Yossi Eli, mentre Eli stava coprendo una manifestazione a Gerusalemme, rompendogli una costola. “C’erano alcune decine di attivisti de La Familia e dei suoi satelliti”, ha detto Eli, riferendosi a un gruppo di tifosi ultras. “Abbiamo iniziato a trasmettere da bordo campo e hanno iniziato ad attaccarci, sputandoci addosso, lanciando uova e altri oggetti. Il mio cameraman, Avi Cashman, è stato colpito alla testa con un bastone e io sono stato colpito alle costole. La polizia ha cercato di aiutarci, ma non era abbastanza”.


Le truppe d’assalto di Netanyahu/Ben-Gvir presenti alla manifestazione di lunedì a sostegno della revisione legale non erano altro che un promo di ciò che attende i manifestanti dopo la pausa primaverile della Knesset, una volta che la forza di polizia privata sarà istituita e tutti i suoi preparativi saranno completati”.

Più chiari di così!
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J-Link, una rete internazionale di organizzazioni ebraiche progressiste,  ha affidato una lettera aperta a Yitzhak Herzog, Presidente dello Stato di Israele, che esprime profonda preoccupazione riguardo alla legislazione proposta dal governo di Israele e lo esorta ad usare i suoi uffici per porre fine ad un processo ritenuto distruttivo. La lettera è stata promossa da più di 50 organizzazioni operanti in 21 paesi del mondo e sottoscritta da oltre 1600 firmatari. La lettera ha preso avvio in sostegno al movimento di protesta in Israele che è riuscito, almeno per ora, a bloccare il progetto di legge anti democratico in materia di riforma della giustizia. J-Link fa appello al Presidente Herzog perché continui ad operare attivamente in relazione alle questioni sollevate nella lettera.

La lettera originale recita che “l’esistenza di Israele come Stato democratico è in pericolo. Le limitazioni imposte all’autonomia della Corte Suprema e al potere giudiziario mirano a ribaltare le fondamenta liberal-democratiche del paese. I fondatori di Israele hanno scritto nella Dichiarazione d’Indipendenza che il nuovo Stato avrebbe garantito la completa parità di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti, indipendentemente dalla religione, dalla razza o dal sesso”. La lettera affronta anche i propositi avanzati dai partiti ultra-ortodossi in materia di revisione della legge del ritorno e delle conversioni non ortodosse all’ebraismo e afferma che  “queste scelte creano una frattura fra Israele e la diaspora e pongono in questione il fondamento stesso di Israele in quanto  Stato-nazione del popolo ebraico”.

L’appello affronta anche la questione dei rapporti con i palestinesi indicando che gli accordi di coalizione “costituiscono una grave minaccia a qualsiasi possibilità che il conflitto giunga a una soluzione a due Stati”

In conclusione si afferma che “Israele è oggi minacciato da uno scisma profondo che rischia di lacerare la sua società.  Come  firmatari del presente appello e in quanto  ebrei  che   sostengono l’esistenza e la sicurezza di Israele ma temono per il suo futuro appoggiamo i cittadini e le organizzazioni della società civile di Israele che si sono mobilitati per protestare contro le scelte politiche di cui sopra. Facciamo appello al governo di Israele affinché agisca con urgenza per fermare i provvedimenti legislativi del genere”.

Il Comitato di coordinamento della rete J-Link:

Ken Bob (Ameinu, U.S.A.), Giorgio Gomel (JCall Europe, Italia),  Barbara Landau (JSpaceCanada, Canada), Gabriella Saven (JDI, Sudafrica),  Alon Liel (Israele), Moiche Storch (J AMLAT, Brasile),  Aya Tamir-Regev (Australia)

 “J-Link è una rete internazionale di organizzazioni ebraiche progressiste che condividono l’amore per Israele ma anche una netta scelta di campo a favore della democrazia, dei diritti umani, del pluralismo religioso, nonché di una soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese. Noi crediamo nei valori fondanti della Dichiarazione d’Indipendenza dello Stato di Israele, che promette “la completa parità di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti, indipendentemente dalla religione, dalla razza o dal sesso”.

Principi, valori che sono alla base della straordinaria rivolta popolare che ha segnato la più grande crisi politica nella storia d’Israele dalla sua fondazione, 75 anni fa, ad oggi. Una crisi tutt’altro che risolta. E sulla quale incombono le “camice brune” del fascista Ben Gvir.

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