Mediterraneo: la "nuova Libia" si chiama Tunisia
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Mediterraneo: la "nuova Libia" si chiama Tunisia

La “nuova Libia” si chiama Tunisia. Uno Stato in default. Una rivoluzione tradita. Un Paese giovane che non offre futuro ai suoi giovani.

Mediterraneo: la "nuova Libia" si chiama Tunisia
Migranti in Tunisia
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20 Marzo 2023 - 14.12


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La “nuova Libia” si chiama Tunisia. Uno Stato in default. Una rivoluzione tradita. Un Paese giovane che non offre futuro ai suoi giovani. Globalist lo ha documentato in più articoli. Denunciando la miopia di una Europa, e dell’Italia, la cui politica ha un punto fermo, una vera, sciagurata ossessione: l’esternalizzazione delle frontiere. E la ricerca sulla sponda sud del Mediterraneo, di “gendarmi” da armare e finanziare perché facciano il lavoro sporco – i respingimenti – al posto nostro.

La “nuova Libia”

Di grande interesse sono le analisi di due giornalisti che del Mediterraneo sanno molto.

Annota Dario Prestigiacomo su EuropaToday: “Anche grazie ai finanziamenti di Ue e Italia, le partenze dalle sue coste sono state per lo più bloccate. Ma adesso, il “tappo” della Tunisia potrebbe saltare, inasprendo la pressione migratoria nel Mediterraneo in direzione dell’Europa. Non è certo solo questo aspetto a preoccupare Bruxelles, ma di sicuro è tra i fattori principali che hanno spinto finalmente Bruxelles ad affrontare il dossier tunisino e a inserirlo nell’agenda della riunione dei ministri degli Esteri in corso oggi nella capitale europea. Il Paese nordafricano si trova da tempo in una grave situazione di crisi economica e instabilità politica, e per molti analisti potrebbe essere una “nuova Libia”, non solo per quel che riguarda le rotte migratorie.

Il sogno tradito

Dopo la rivoluzione dei Gelsomini, che nel 2011 portò alla caduta del regime dei Ben Ali, la Tunisia era considerata a Bruxelles come il Paese della cosiddetta primavera araba che più sembrava avviato verso un percorso di crescita democratica. Dopo dodici anni, il rischio che si avvii verso un nuovo regime autoritario è sempre più concreto. L’uomo forte di oggi, il presidente Kais Saied, a livello elettorale è debole: al recente referendum per confermare la nuova Costituzione – che toglie poteri ai partiti e restringe gli spazi di dissenso – si sono presentati alle urne solo tre tunisini su dieci, stando alle cifre fornite dal governo. Ma l’affluenza effettiva sarebbe meno della metà di quella dichiarata, secondo le opposizioni, che hanno chiesto a Saied di dimettersi. 

La crisi economica

Alle tensioni politiche si sono presto aggiunte quelle sociali. In Tunisia scarseggiano da mesi beni di prima necessità come il petrolio, lo zucchero, il latte e il burro. I carichi di grano e altri alimenti sono stati spesso rispediti indietro per mancanza di risorse. Il tasso di inflazione viaggia ormai sulla doppia cifra e la disoccupazione giovanile è in sensibile crescita. Per risolvere queste difficoltà economiche, il governo di Tunisi sta negoziando un prestito col Fondo monetario internazionale. Ma perché l’Fmi eroghi i suoi fondi, occorre che Saied si impegni in una serie di riforme, cosa su cui né il presidente, né l’opposizione hanno finora dato segnali incoraggianti. Al contrario, in seguito a una recente stretta sulle autorità locali da parte di Saied, anche la linea di credito attivata dalla Banca mondiale è stata interrotta.  

Il piano lacrime e sangue

L’Italia spinge perché Tunisi accetti le condizioni dell’Fmi e ottenga il prestito. Sulla stessa linea dovrebbe essere l’Unione europea. Di contro, l’opposizione lamenta che il possibile compromesso tra Saied e l’Fmi potrebbe trasformarsi in un’ulteriore colpo per i diritti sociale e dei lavoratori. Il sindacato Ugtt, che inizialmente aveva assecondato l’ascesa di Saied, hanno accusato i funzionari governativi di aver rinnegato un accordo di aumento salariale per i lavoratori del settore pubblico proprio per arrivare a un’intesa con l’Fmi. Tra le altre politiche di austerity sul tavolo dei negoziati per il prestito, ha riportato al-Jazeera, ci sono anche la completa eliminazione dei sussidi per cibo e carburante, il taglio della spesa per la sanità pubblica, l’istruzione e la protezione sociale e la privatizzazione delle principali aziende pubbliche. Un piano lacrime e sangue che ha spinto la popolazione a scendere in piazza, con tanto di repressione autoritaria da parte di Saied.

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I migranti

Il peggio, però, è arrivato sul fronte dei migranti. Tutto il mondo è Paese, e così capita che anche in un Paese africano i migranti (africani) diventino un buon capro espiatorio. Il 21 febbraio il presidente Saied si è infatti lanciato in un discorso xenofobo in cui ha parlato di “orde di migranti irregolari provenienti dall’Africa subsahariana” arrivati in Tunisia, portando “la violenza, i crimini e i comportamenti inaccettabili che ne sono derivati”. Il capo di Stato l’ha definita una situazione “innaturale”, parte di un disegno criminale per “cambiare la composizione demografica” e fare della Tunisia “un altro Stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico”, dato che tali migranti sono spesso di religione cristiana. Parole che hanno innescato un’ondata di violenze contro i migranti subsahariani e spinto diversi Paesi dell’Africa occidentale a organizzare voli di rimpatrio per i cittadini timorosi. Molti dei circa 21 mila migranti dell’Africa subsahariana che vivono in Tunisia si sono ritrovati senza lavoro e senza casa.

I fondi Ue

La Tunisia, in tutto questo, ha beneficiato per anni (e continua a beneficiare) di lauti finanziamenti per la gestione dei flussi: riceve infatti decine di milioni di euro dall’Unione europea e dall’Italia per programmi di cooperazione sulla migrazione. L’ultimo memorandum d’intesa tra Roma e Tunisi prevede uno stanziamento di 200 milioni di euro per il periodo 2021-2023, di cui 11 milioni per la cooperazione sulla migrazione.

Di fatto questi aiuti si traducono in finanziamenti per le operazioni della guardia costiera tunisina. L’accordo di cooperazione ha due facce: da un lato, ha ridotto al minimo le partenze dalle coste tunisine sui barconi, anche se non sono mancate le tragedie (di recente, alcune ong hanno accusato la guardia costiera tunisina di speronare le imbarcazioni dei migranti). Dall’altro, l’attivismo via mare non ha fatto il pari con i controlli lungo i confini terrestri: e così, i flussi si sono spostati dalla Tunisia verso la Liba, e da qui verso l’Europa. Non a caso, nel 2022, la quota di richiedenti asilo che si dichiaravano tunisini all’arrivo in Italia è stata la più alta della storia recente. Anche per via delle pressioni italiane, l’Ue aveva promesso di definire un nuovo piano di finanziamenti per la Tunisia, e il Paese è stato anche inserito in progetti importanti sul fronte energetico e digitale. Ma questi piani potrebbero venire congelati se Saied dovesse continuare a seguire una strada autoritaria”.

Così muore una speranza

Lo racconta Paolo Lambruschi inviato di Avvenire a Tunisi: “Persino migranti subsahariani che una volta erano accolti stanno abbandonando la Tunisia mentre l’Italia prova a salvarla. Perché il tracollo del Paese maghrebino vicinissimo alle nostre coste va assolutamente scongiurato. Anzitutto perché in questo momento ha superato la Libia per numero di partenze dei migranti. Secondo, perché per Roma il Paese nordafricano è diventato economicamente e politicamente strategico.

Tunisi – dopo le manifestazioni delle scorse settimane organizzate dai sindacati e dai partiti di opposizione contro gli arresti ordinati dal presidente autocrate Saïed di giornalisti, sindacalisti e oppositori – resta una città quasi europea. Relativamente tranquilla, con i turisti nella Medina, il solito traffico caotico e alle prese con i preparativi per il Ramadan che inizia il 22 marzo.

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La tensione cova invece sotto la cenere nei quartieri periferici della capitale e dei principali centri urbani, dove non si arriva a fine mese né si trovano generi alimentari di base nei supermercati come caffè, farina e latte. I migranti subsahariani vivono nascosti dopo pogrom e aggressioni degli ultimi giorni di febbraio. E fuggono. Come riporta l’agenzia Nova, che ha avuto accesso ai dati del Viminale, sono almeno 12mila le persone partite dalle coste tunisine dal primo gennaio al 13 marzo, più di 170 sbarchi al giorno, con un aumento del 788% rispetto ai 1.360 arrivi dello stesso periodo del 2022. La Libia è stata superata. E da queste parti i mercenari russi della Wagner non c’entrano, non si sono mai visti.

Stando alla relazione dei Servizi italiani sul 2022, per ora nemmeno grandi organizzazioni criminali di trafficanti. Sono perlopiù i pescatori dei villaggi costieri – impoveriti come tutto il resto del Paese, dal Covid che ha bloccato il turismo di massa e dalla guerra in Ucraina che ha portato l’inflazione oltre il 10%- che guadagnano in media 450 dinari mensili (150 euro) e che per sopravvivere si accordano con i profittatori. 

Trainano dalle spiagge di Sfax, detta la Milano tunisina, e da alcuni centri minori del golfo di Gabes distanti un centinaio di miglia da Lampedusa, piccoli navigli di acciaio oppure trasportano sui pescherecci i migranti subsahariani che hanno riempito all’inverosimile il centro di accoglienza dell’isola nelle ultime settimane. Solo un quinto erano tunisini, i quali al momento resistono anche se un aggravamento della crisi economica e sociale potrebbe indurre soprattutto i giovani a partire. 

Con viaggi ad alto rischio per i poveri. Secondo il Forum tunisino per i diritti economici e sociali, nel 2022 almeno 600 persone sono morte nella traversata con barche improvvisate. La guardia costiera di Tunisi ha dato conto, pochi giorni fa, di aver soccorso in 25 operazioni 1.008 persone, di cui 954 di vari Paesi sub-sahariani.

Determinante il clima xenofobo creato dal Presidente della repubblica Kais Saïed, un panarabista conservatore, in un discorso pronunciato il 21 febbraio. Saïed si è scagliato contro le «orde illegali di migranti dall’Africa subsahariana», parte di un disegno criminale per «cambiare la composizione demografica» e fare della Tunisia «un altro Stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico». […]. Cosa sta mettendo la Tunisia in ginocchio? Dopo la rivoluzione dei gelsomini del 2011 le promesse di cambiamento non sono state mantenute, anzi. La corruzione metastatica e l’incapacità dei politici hanno aggravato la crisi. Saïed, docente di diritto costituzionale indipendente dai partiti, è stato eletto a palazzo di Cartagine nell’ottobre 2019 con un programma di riforme anticasta e anticorruzione, in nome della democrazia diretta. 

In tre anni e mezzo di iperpresidenzialismo ha liquidato il vecchio governo, i partiti, parlamento e magistratura, mandando in soffitta la costituzione del 2014 con un referendum poco partecipato e inducendo elezioni parlamentari boicottate dall’opposizione cui ha partecipato solo l’11% della popolazione. Che stando ai sondaggi, gli attribuirebbe, però, ancora il 40% di consensi soprattutto nelle fasce più basse. 

Lo appoggia l’esercito, mentre il mondo economico e produttivo lo starebbe abbandonando, come hanno fatto i sindacati. Una settimana fa Saïed ha sciolto anche i consigli municipali, ultima roccaforte del decentramento amministrativo, dominati dal partito islamista moderato Ennahda, suo principale rivale, promettendo anche qui lotta alla corruzione e nomine di sua scelta. 

Dietro a questa involuzione autocratica c’è la questione più drammatica, trovare i soldi per evitare il fallimento del superindebitato Stato tunisino. Il Fondo monetario internazionale sta trattando per concedere un prestito di quasi due miliardi di dollari, ma chiede riforme economiche sanguinose come l’abolizione dei sussidi generalizzati a benzina e pane e la chiusura di molte aziende pubbliche. Se Saïed dovesse cedere, la Tunisia scenderebbe in piazza, garantiscono gli osservatori, per cacciarlo. Nemmeno i generosi prestiti dei Paesi arabi servirebbero a evitare il default che inquieta Italia ed Ue non solo per ragioni di sicurezza e migratorie. Il futuro del Paese è dunque in bilico.

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Il dossier tunisino riguarda l’Italia per l’approvvigionamento energetico e gli interessi economici e commerciali. Il gasdotto Transmed, conosciuto anche come “Enrico Mattei”, porta in Italia il prezioso gas algerino passando proprio per la Tunisia. A questo si aggiunge Elmed, il progetto strategico d’interconnessione sottomarina elettrica tra Italia e Tunisia – per il quale Bruxelles ha recentemente approvato un finanziamento di 300 milioni di euro, altri 600 di investimenti se li divideranno Terna e la compagnia statale tunisina – che collegherà Capo Bon con la Sicilia. 

Il progetto dovrebbe essere completato entro il 2028 e sarà il primo collegamento di elettricità da fonti rinnovabili dall’Africa, trasformando l’Italia in un “hub energetico” per l’Europa. Inoltre l’Italia è divenuta quest’anno primo partner commerciale della Tunisia, sorpassando per la prima volta la Francia. Ci lavorano 900 imprese italiane mentre conta 217mila persone la diaspora tunisina in Italia, che l’Oim sta contattando per progetti di investimento nelle regioni d’origine con la cooperazione italiana, qui molto presente da 30 anni, per creare occupazione e prevenire le partenze. E l’Italia sta facendo molto a ogni livello per una terra con la quale ha legami antichi.

Intanto, i naufragi sono in aumento. A Zarzis, una volta “perla del Mediterraneo”, il cimitero dei migranti ignoti annegati guarda idealmente la porta di Lampedusa e continua a riempirsi”.

Non solo gelsomini

Alla luce della crisi politica e istituzionale che scuote la Tunisia, acquista una valenza “profetica” quanto ebbe a dire a Globalist . Houcine Abassi, già Segretario generale dell’Ugtt (Union générale tunisienne du travail) Premio Nobel per la Pace nel 2015 come membro del Quartetto per il dialogo: Quello compiuto in questi dieci anni non è stato un percorso lineare, la transizione democratica è ancora in atto e non potrà dirsi conclusa se non affronta la grande questione che resta irrisolta ed anzi tende ad aggravarsi”. E quella “grande questione si chiama malessere sociale. Le conquiste democratiche, avviate dopo la fuga dell’ex presidente Zine El Abidine Ben Ali, il 14 gennaio 2011, non sono state accompagnate da una crescita economica in cui tutti speravano. Secondo l’ex ministro dell’EconomiaHoucine Dimassi, “tutti i numeri indicano un netto peggioramento della situazione economica rispetto al 2010-2011”, quando Tunisi registrava un aumento del Pil tra il 4 e il 5 per cento. Una crisi economica drammatica, che non risparmia i beni primari: tutto è caro, la carne rossa costa 25 dinari al chilo, in tavola arriva se va bene una volta al mese. Senza contare che bisogna pagare l’affitto, le bollette, l’assistenza sanitaria, che non è più gratuita per nessuno, neanche per chi ne avrebbe diritto. Un dramma per un Paese, ,  che ha la disoccupazione al 30% e ben poche speranze di mobilità sociale. 

La Tunisia in crisi racconta una verità universale: senza giustizia sociale pace e stabilità sono una illusione. Una tragica illusione. 

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