Controffensiva Usa: il fronte strategico è nel Pacifico e l'obiettivo "Dragone rosso", ossia la Cina
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Controffensiva Usa: il fronte strategico è nel Pacifico e l'obiettivo "Dragone rosso", ossia la Cina

Come più volte documentato da Globalist con articoli e interviste, il competitor assoluto per gli Stati Uniti non è la Russia. E’ la Cina

Controffensiva Usa: il fronte strategico è nel Pacifico e l'obiettivo "Dragone rosso", ossia la Cina
Joe Biden e Xi Jinping
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

11 Luglio 2022 - 12.43


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Si scrive “Ucraina”. Si legge “Taiwan”. Perché il vero fronte strategico della controffensiva americana su scala globale, non è l’Est europeo. E’ il Pacifico. Perché, come più volte documentato da Globalist con articoli e interviste, il competitor assoluto per gli Stati Uniti non è la Russia. E’ la Cina.

Schermaglie diplomatiche

Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha esortato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi a condannare l'”aggressione” russa dell’Ucraina, sottolineando che in questa situazione non si può essere neutrali. I due pari grado si sono visti a Bali, a margine della riunione dei ministri degli Esteri del G20. Lo ha riferito lo stesso Blinken alla stampa: “Questo è davvero il momento in cui tutti noi dobbiamo alzarci in piedi, come hanno fatto i Paesi del G20 uno dopo l’altro, per condannare l’aggressione ed esigere, tra le altre cose, che la Russia consenta l’accesso alle derrate alimentari bloccate in Ucraina”, ha affermato Blinken, sottolineando di non aver visto “alcun segno” di cooperazione da parte di Mosca.

Immediata la reazione della Cina, che richiama gli Stati Uniti a smettere di diffamare e attaccare il sistema politico cinese e ad abbandonare la “mentalità da Guerra Fredda” nei suoi confronti. Gli Stati Uniti, ha dichiarato il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, nell’incontro con il suo omologo statunitense, Antony Blinken, a margine del G20 dei ministri degli Esteri di Bali, in Indonesia, “dovrebbero rispettare il socialismo con caratteristiche cinesi scelto dal popolo cinese e smettere di diffamare e attaccare il sistema politico cinese”. 

Gli Stati Uniti, ha aggiunto, Wang, citato in una nota della diplomazia di Pechino, “dovrebbero abbandonare la mentalità della Guerra Fredda, non impegnarsi in giochi a somma zero e smettere di unirsi in piccoli circoli”, come il G7 o il Quad, il gruppo formato con Australia, Giappone e India e che, secondo Pechino, mira a contenere la Cina nell’Indo-Pacifico.

Due contributi preziosi per capire la posta in gioco

Il primo è di Alon Pinkas, tra i più autorevoli analisti di geopolitica israeliani. Scrive Pinkas su Haaretz: “Collegare la crisi ucraina alla nuova politica americana incentrata sulla Cina sembrava inizialmente un puzzle geopolitico sfocato. Ma poi, con la gestione sconsiderata e calamitosa del presidente russo Vladimir Putin, è arrivato il momento dell’eureka: l’Ucraina non solo non è palesemente una distrazione dalla politica e dall’orientamento degli Stati Uniti verso l’Asia, ma è fondamentale per il suo successo. L’Ucraina non solo funge da modello per i Paesi asiatici che temono la Cina. L’Ucraina non è solo un modello per i Paesi asiatici preoccupati dalla Cina, ma pone anche la Cina in una situazione strategica difficile per quanto riguarda l’alleanza con la Russia, la lascia isolata e aumenta la fiducia dei Paesi dell’Asia orientale e sudorientale che osservano la coesione della Nato e la risolutezza dell’America, a scapito della Cina.

I tre presidenti americani che si sono succeduti – George W. Bush, Barack Obama e Donald Trump – hanno giurato e si sono impegnati in una nuova svolta politica, individuando nella Cina il principale concorrente, rivale e, in alcuni scenari e circostanze avverse, possibile nemico dell’America. Tutti e tre sono stati distratti da questioni e crisi diverse o non sono riusciti a formulare una politica coerente nei confronti della Cina, ciascuno per ragioni distinte e peculiari. Sin dal primo giorno della sua amministrazione, Biden ha cercato di trasformare il concetto di “pivot to Asia” in una politica estera graduale ma dettagliata, attuabile e realizzabile.

Non è stato il primo presidente a percepire la Cina come la più grande sfida dell’America nei prossimi decenni. Ma Biden è stato certamente il primo a elaborare una politica appropriata, a focalizzare il pensiero politico intellettuale, a ridefinire e ridefinire le priorità della difesa e degli interessi economici, a spostare le risorse e a impegnare il capitale politico.

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La sua politica estera è nata da una lettura strategica chiara e concentrica del posto dell’America nel mondo, nell’area del Pacifico e nei confronti della Cina. Si trattava di una superpotenza economicamente in ascesa – nonostante gli attuali gravi problemi economici della Cina – che stava espandendo il proprio raggio d’azione attraverso una strategia ambiziosa (la Belt and Road Initiative), intenzionata a flettere i muscoli diplomatici ed eventualmente militari, rappresentando una sfida tangibile, geograficamente ampia, multidimensionale e minacciosa.

Basta unire i puntini degli ultimi 18 mesi, da quando Biden ha assunto l’incarico: il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, il graduale disimpegno dal Medio Oriente, gli impegni di sicurezza nei confronti della Corea del Sud, del Giappone e di Taiwan, la convocazione del vertice dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico a Washington, il rilancio del Quadrilatero – abbreviazione di Quadrilateral Security Dialogue, ma meglio definito come una nascente alleanza tra Stati Uniti, India, Giappone e Australia – e l’avvio dell’Aukus: una nuova alleanza di difesa tra Australia, Gran Bretagna e Stati Uniti.

Qualche anno fa, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi aveva descritto il Quad come nient’altro che “schiuma del mare” (here now, gone soon). Ora, però, con la convocazione da parte di Biden di un vertice del Quad a Tokyo, martedì, come punto culminante del suo viaggio in Asia, Pechino sta schiumando dalla bocca per il Quad, descrivendolo come un grande pericolo per la Cina e per la regione – e, vittima inevitabile di queste lagne, la “stabilità”.

Il Quad è stato riacceso nel 2017 dopo una pausa di dieci anni in cui l’Australia ha perseguito un percorso semi-indipendente che esplorava la possibilità di forgiare un rapporto migliore con una Cina economicamente ascendente ed espansiva. Una volta che l’Australia ha concluso che si trattava di un esercizio inutile e che, contemporaneamente, la Cina stava esplorando un programma più assertivo e aggressivo in tutta l’Asia orientale e centrale, nel Pacifico meridionale e fino all’Africa e all’Europa, il Quad è rinato.

Gli Stati Uniti descrivono ufficialmente il Quad come “un primo raggruppamento regionale nell’Indo-Pacifico”. Ma in effetti rappresenta – e può potenzialmente trasformarsi in – qualcosa di molto più grande, più ampio e più muscoloso. Potrebbe diventare, come dice la Cina, “una Nato asiatica” – un termine che assume un significato e una dimensione completamente nuovi dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

Finora, il Quad ha evitato in larga misura le grandi questioni di sicurezza, tenendo conto dei diversi interessi e delle inclinazioni tradizionali dei vari Paesi – da ultimo la crisi ucraina, dove Giappone e Australia si sono schierati con gli Stati Uniti, mentre l’India ha mantenuto i suoi legami tradizionali con la Russia, ma ha mantenuto i dialoghi e le consultazioni del Quad. Il Quad si è invece concentrato sul cambiamento climatico, sulla pandemia Covid, sulla salute, sulla tecnologia e sulla sicurezza informatica.

L’amministrazione Biden ha riattivato il partenariato e si è impegnata ad ampliare la cooperazione in materia di sicurezza. Ha istituito un incontro annuale dei leader e riunioni dei ministri della Difesa e degli Esteri. È stata inoltre istituita una cooperazione tra i quattro Paesi a livello di agenzie, tra cui il Forum strategico di intelligence del Quadrilatero con i capi dei servizi di sicurezza dei rispettivi membri e un’esercitazione navale annuale.

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Dopo il rilancio del Quadrilatero, gli Stati Uniti hanno avviato l’Aukus, il partenariato di sicurezza trilaterale con Gran Bretagna e Australia che prevede anche l’armamento della marina australiana con sottomarini a propulsione nucleare. L’Aukus può basare gran parte della sua intelligence operativa su Five Eyes, un’alleanza per la condivisione dei segnali di intelligence che comprende Australia, Canada, Nuova Zelanda, Gran Bretagna e Stati Uniti.

La Cina, irritata, vede nel Quadrato l’idea degli americani di “coalizzarsi” nella regione Asia-Pacifico e di “provocare il confronto”. Ciò che preoccupa maggiormente la Cina è che gli Stati Uniti stiano gettando le basi per modellare il Quad dopo la Nato, in particolare nel contesto della nuova e migliorata Nato che sta emergendo dalla crisi ucraina.

Ciò che infastidisce particolarmente la Cina è il fatto che l’India faccia parte di queste fondamenta. Le dimensioni dell’India, i suoi confini con la Cina, la sua tendenza ad allontanarsi dalla Russia e ad avvicinarsi agli Stati Uniti rappresenterebbero una potenziale minaccia per la Cina che, con il dovuto rispetto per le sue dimensioni e la sua popolazione, dal punto di vista geopolitico non ha sostanzialmente alleati, certamente non potenti.

C’era la Russia, ma poi è arrivata l’invasione dell’Ucraina. Nella strategia cinese, la Russia era un alleato minore ma essenziale per bilanciare ed eventualmente sfidare l’ordine mondiale dominato dagli Stati Uniti. D’altra parte, la vasta economia cinese dipende fortemente dalle economie, dai mercati e dalle istituzioni finanziarie occidentali.

Così, il presidente Xi Jinping ha pensato di poter emulare la politica del Terzo Fronte di Mao Zedong degli anni ’60, quando Mao riuscì ad alienarsi sia gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica in un periodo in cui la Cina era ben lontana dall’essere una superpotenza. Ora che è una superpotenza auto-percepita, ha bisogno di un atto di equilibrio, eppure Putin si è trasformato da risorsa a passività.

Con l’India che gioca un ruolo più ampio nel Quadrilatero, la situazione strategica in cui si trova la Cina, causata dalla Russia, si aggrava: Xi non può appoggiare Putin, ma non può nemmeno dissociarsi da lui. L’attuale retorica e politica ufficiale della Cina è quasi grottescamente antiamericana. La guerra in Ucraina, il Covid-19, la rivolta di Hong Kong, la minoranza uigura, i tibetani, l’inquinamento della gioventù cinese con la cultura decadente: secondo la Cina, sono tutte colpe degli Stati Uniti. La retorica antiamericana nasconde a malapena la questione: La Cina si rende conto che, per quanto possa pensare di essere forte, è stata messa alle strette dagli Stati Uniti e dai suoi alleati – e tutto questo perché Xi si è legato alla Russia, ignorando i consigli contrari.

Negli Stati Uniti, la percezione è stata speculare: se la Russia avrà successo in Ucraina, la Cina si sentirà più forte e diventerà più assertiva. Se la Russia sarà sconfitta e la Nato rafforzata, l’Asia guarderà con favore all’America e la Cina dovrà ricalibrarsi”.

Così Pinkas.

Il secondo contributo analitico di grande spessore viene da Luigi Romano. Che su formiche.net rimarca” […]. L’amministrazione Biden sta cercando di spingere Taiwan a imparare la lezione ucraina, rafforzare la sua strategia di difesa cosiddetta ‘porcospino’  e comprare armi e mezzi in grado di proteggere l’isola dalla Cina (droni, missili anticarro Stinger e antiaerei Javelin) respingendo alcune richieste di mezzi pesanti ritenuti dagli americani utili solo in tempo di pace. L’obiettivo di Washington è garantire a Taipei una certa autonomia strategica per renderla in grado di reagire da sola a un attacco cinese senza la necessità di un intervento statunitense: trasformare un’eventuale invasione anfibia (asset su cui Pechino sta rafforzando le truppe) in una disfatta come successo a Kiev per certi versi.

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È il momento di massimo rischio in termini di una potenziale guerra su Taiwan. Tanto che Stati Uniti e Cina nelle ultime settimane hanno rilanciato l’importanza di mantenere aperti i canali di comunicazione. Infatti, ‘nel breve e medio termine è molto più probabile che un conflitto a Taiwan si verifichi per caso che per volontà’, si legge in un rapporto pubblicato in occasione del forum di Singapore dall’International Institute for Strategic Studies, un centro studi britannico. ‘In effetti, con l’intensificarsi della coercizione cinese su Taiwan, il rischio di un’escalation involontaria sta aumentando’.

Howard W. French, professore alla Columbia University Graduate School of Journalism e firma di Foreign Policy, si è interrogatosugli scenari bellici attorno a Taiwan. Si è posto due domande. La prima: chi vincerebbe? La seconda: per chi Taiwan vale di più? Gli analisti sono divisi sulla prima. E così la seconda può aiutare.

‘È più facile rispondere a questa domanda per la Cina che per gli Stati Uniti’, scrive. ‘Per una nazione la cui ideologia di governo, il comunismo, è fortemente in contrasto con le realtà economiche, il nazionalismo è diventato sempre più la forza vincolante della vita pubblica e (…) il perseguimento dell’annessione di Taiwan stimola ancora un senso unitario di scopo, agendo come una sorta di erba gatta nazionalista’. Per gli Stati Uniti, l’importanza di Taiwan è meno evidente. ‘Pochi americani sono stati sull’isola o dedicano un momento della loro giornata a pensarci’, osserva il docente. Ma l’impegno americano ha a che fare con il potere globale. ‘Se gli Stati Uniti permettessero alla Cina di prendere il controllo di Taiwan, la posizione dell’America in Asia, e quindi come potenza globale, crollerebbe da un giorno all’altro’, scrive. ‘La sua struttura di alleanze in Oriente si sgretolerebbe e la Cina diventerebbe l’egemone regionale, nonostante le numerose proteste in senso contrario. Se, allo stesso modo, la Cina dovesse prevalere in un conflitto su Taiwan, non solo sarebbe in grado di controllare vicini come il Giappone e la Corea del Sud (tra gli altri), ma, avendo già la più grande marina militare del mondo, controllerebbe presto l’intero Pacifico occidentale’.

Il governo cinese non parla apertamente della posta in gioco, continua l’esperto. Il motivo? Ovvio: non vuole spaventare gli altri. Ma per una democrazia come gli Stati Uniti, e per i suoi alleati più coinvolti, ‘questo è inaccettabile’. Si può essere in disaccordo sull’opportunità di erodere l’ambiguità strategica statunitense su Taiwan come fatto in questi mesi dal presidente Joe Biden, ‘ma con una posta in gioco così alta, il pubblico merita una discussione chiara e aperta sugli alti rischi, sui costi e sui benefici della difesa dell’isola’, conclude”.

Così Luigi Romano.

Conclusione nostra. Che per gli inquini della Casa Bianca dell’ultimo ventennio il “Grande nemico” fosse molto più il Dragone cinese che l’Orso russo era cosa assodata. Già con Obama l’America guardava a Oriente come l’area del pianeta in cui si sarebbe giocata la partita strategica, epocale, nella definizione dei nuovi equilibri di potenza. Oriente, dunque la Cina.

Biden ha reso più esplicita questa visione geopolitica. Esplicita e “muscolare”. 

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