La "dottrina Austin" cambia le prospettive della guerra: il fine non è liberare l'Ucraina ma sconfiggere il nemico russo
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La "dottrina Austin" cambia le prospettive della guerra: il fine non è liberare l'Ucraina ma sconfiggere il nemico russo

La “dottrina Austin” svela la nuova fase della guerra. Meglio ancora: le sue finalità. Così come sono determinate dalla potenza americana.

La "dottrina Austin" cambia le prospettive della guerra: il fine non è liberare l'Ucraina ma sconfiggere il nemico russo
Lloyd Austin
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

26 Aprile 2022 - 15.28


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La “dottrina Austin” svela la nuova fase della guerra. Meglio ancora: le sue finalità. Così come sono determinate dalla potenza americana. “Vogliamo vedere la Russia indebolita al punto di non poter fare il tipo di cose che ha fatto con l’invasione dell’Ucraina”. Lo ha dichiarato il segretario Usa alla Difesa, Lloyd Austin, di ritorno da Kiev, dove, insieme al segretario di Stato Antony Blinken, ha incontrato il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. Mosca, sottolinea il capo del Pentagono, “ha già perso molta capacità militare e molte truppe, per essere franchi, e vorremmo che non riesca a ricostituire rapidamente questa capacità”.

Il Cremlino ha subito ribattuto: la Nato è in guerra per procura contro di noi. Non sono solo parole. Ieri c’è stato un attacco mirato in territorio russo che ha colpito a Bryansk, a cento chilometri dal confine. Due incendi disastrosi sono scoppiati in contemporanea in due grandi depositi di carburante vicino alla città. Non si sa se gli ucraini abbiano usato droni o addirittura un commando di sabotatori sul suolo nemico.

Un ritratto illuminante

E’ quello tratteggiato da Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera

Scrive Sarcina: “Lloyd Austin, il capo del Pentagono, è sicuramente la figura meno appariscente, meno loquace nella ‘terna di guerra’ di cui fa parte, insieme con il segretario di Stato Antony Blinken e il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan. Negli ultimi due mesi, però, la sua parola è stata spesso quella definitiva. C’è la sua impronta nelle scelte strategiche più importanti di Joe Biden.  Già nel novembre scorso il capo del Pentagono aveva avvertito la Casa Bianca: i russi stanno ammassando truppe al confine con l’Ucraina, fanno sul serio. In quelle settimane era ancora fresco il trauma del ritiro dall’Afghanistan. Nell’estate del 2021 Austin aveva insistito a lungo: dobbiamo lasciare almeno un presidio a Kabul. Non venne ascoltato. Biden diede ordine di smobilitare e Austin si caricò sulle spalle, senza fiatare, la gestione di un ritiro disastroso. 

I repubblicani chiesero le dimissioni del segretario alla Difesa. Ma il presidente non ci ha mai pensato un momento. Sei mesi dopo, Austin si ritrova, in maniera inaspettata, al centro della politica americana e mondiale. Da quando è scoppiato il conflitto in Ucraina, passa in ufficio anche il sabato e la domenica mattina, prima di andare a messa con la moglie Charlene. Per il resto non ha cambiato abitudini. Poche conferenze stampa, zero «briefing riservati». A quelli ci pensa il suo attivissimo portavoce, l’Ammiraglio (in pensione) John Kirby. È anche difficile incontrarlo in uno dei tanti incontri organizzati dai centri studi di Washington. Nelle riunioni di governo, però, non si nasconde: la sua posizione è sempre molto chiara. 

Biden lo aveva scelto nel 2021 per una serie di ragioni. Innanzitutto per accontentare la lobby afroamericana che chiedeva posti ad alta visibilità. Ma, secondo il Washington Post, anche perché non avrebbe fatto ombra al presidente. Così Austin, 68 anni, nato a Mobile, in Alabama, diventò il primo segretario alla Difesa afroamericano. Di per sé una svolta: su 41 generali a quattro stelle, solo due sono afroamericani.

In effetti Austin non ha mai fatto ombra a Biden, se mai lo ha aiutato a navigare nella crisi più difficile e più rischiosa, capovolgendo anche schemi consolidati. È Austin a bocciare, fin dall’inizio, l’istituzione della ‘no-fly zone’, per presidiare lo spazio aereo dell’Ucraina. Ed è sempre il segretario alla Difesa a tracciare la distinzione tra «armi difensive» e ‘offensive’, usata da Biden per limitare, almeno all’inizio, la fornitura di ordigni all’Ucraina. Un diplomatico polacco, in servizio alla Nato, ha raccontato al Corriere: ‘Di solito il Pentagono spinge per una linea più aggressiva, ma in questo caso Austin è sempre stato più prudente dello stesso Blinken’…

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Il segretario alla Difesa ha comandato sul campo le operazioni in Iraq nel 2010 e ha ricoperto incarichi operativi in Afghanistan. Conosce, ha vissuto direttamente la guerra. E forse per questo la considera l’ultima possibilità. Può sembrare sorprendente, ma Austin, il laureato di West Point, l’ufficiale con 40 anni di carriera nell’esercito, ha fatto il possibile per favorire i negoziati. Ora, però, a torto a ragione, l’Amministrazione Biden pensa che quel tentativo sia fallito e non resti che appoggiare fino in fondo la resistenza di Zelensky. Austin, scrive ancora il Washington Post, ha fatto preparare una mappa dell’Ucraina con diversi colori: a ogni macchia corrisponde una fornitura di missili, cannoni, elicotteri o droni arrivata a destinazione. Quella cartina plana ogni giorno sulla scrivania di Biden”. 

Così Sarcina.

Trascinare alle lunghe la guerra può essere nell’interesse dei nostri alleati di oltre Oceano e dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Biden è in crollo nei sondaggi, e quando un presidente americano è in questa situazione – vedi George W.Bush – ecco provare a risalire la china e conquistare consensi interni perduti, vestendo i panni del “commander in chief”. A Bush jr gli andò bene, al Medio Oriente male. Molto male. Perché quella sciagurata guerra, nata da una bufala spacciata per verità dal presidente Usa e dal suo vassallo londinese, Tony Blair (armi di distruzione di massa in mano a Saddam), non solo non stabilizzò l’Iraq ma destabilizzò l’intera regione. E ora la storia si potrebbe ripetere nel cuore dell’Europa. Le elezioni di mid term negli Usa sono in programma a novembre. La guerra non può trascinarsi fino ad allora. Non è nell’interesse dell’aggredito. E non è nell’interesse dell’Europa, che dal trascinamento della guerra ha solo da perdere.  E allora, ecco un’altra asserzione che dovrebbe unire il fronte progressista: un no secco, chiaro, a chi è fautore di un “fine guerra mai”. Che fare, allora? Evitare una escalation militare. Lavorare per una “escalation” diplomatica. E questo significa porsi il problema di uno sbocco negoziale. Su questo occorre essere realisti. E prendere atto che un compromesso negoziale non può fondarsi sul ritorno allo status quo ante il 24 febbraio. 

Cosa vuol dire? Vuol dire, ad esempio, che l’autodeterminazione del popolo ucraino va “combinata” con la realtà, composita, di quel popolo. Per essere ancora più chiaro: il Donbass.

In concreto: un referendum. In cui l’alternativa è questa: far parte di uno Stato federale d’Ucraina o separarsi. E’ un cedimento a Putin? No. E’ un punto di caduta possibile di un negoziato tra belligeranti. E qui arriva il discrimine. Il non detto che va svelato. Per quale finalità sosteniamo l’Ucraina, anche militarmente? Sostenere l’aggredito, è la premessa, non il fine. Il fine, dunque. La mettiamo giù brutalmente: da una parte ci sono quelli che sostengono, con accenti diversi, che la resistenza serve per arrivare ad una pace giusta, quanto più onorevole, con la Russia. E altri, soprattutto a Washington e a Londra, per cui l’Ucraina è diventata il campo di battaglia di una guerra che deve portare alla sconfitta della Russia. Della Russia, e non “solo” di Vladimir Vladimirovich Putin. Noi siamo nel primo campo. Senza se e senza ma. 

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La “Coalizione dei volenterosi” 2.0.

Di grande interesse è il report di Andrea Muratore su InsideOver: “Organizzare in forma sistemica gli invii di armi all’Ucraina, mettere nero su bianco l’obiettivo di portare Kiev alla vittoria, ribadire l’unità di un “campo largo” occidentale contro la Russia: sono questi gli obiettivi della riunione convocata nella giornata del 26 aprile dagli Stati Uniti nella base tedesca di Ramstein, tra le più importanti in Europa, per costituire la personale “coalizione dei volenterosi” di Joe Biden. Ovvero l’asse tra i Paesi che desiderano armare l’Ucraina e opporre una strategia comune all’aggressione di Mosca contro Kiev.

C’è la certezza che l’Ucraina, se aiutata a resistere, possa arrivare a vincere la guerra. Gli Stati Uniti credono che Kiev ce la possa fare “se ha l’attrezzatura giusta, il sostegno giusto”e vogliono vedere la Russia “indebolita” al punto che non possa lanciare nuove guerre: a dirlo è l’uomo chiave del momento, il segretario alla Difesa Lloyd Austin. Fautore di una linea cauta, ha mediato con la forza della linea antirussa del collega del dipartimento di Stato Tony Blinken,  con il quale ha visitato Volodymyr Zelensky a Kiev, e ha fissato precise linee. Da un lato, no all’invio di determinati tipi di armi, come i caccia, dall’altro sì alla volontà di fermare Mosca sul campo. Il primo segretario alla Difesa afroamericana ha delineato quella che è già stata ribattezzata dal suo nome ‘dottrina Austin’, fissando l’obiettivo strategico degli Usa nel conflitto ucraino, ossia sconfiggere Vladimir Putin e ridimensionare la sua macchina da guerra.

Di questo si parlerà a Ramstein. Ove converranno i membri dei più stretti alleati Nato e non solo. Sono oltre venti i Paesi partecipanti secondo quanto filtrato dalle agenzie, ma Breaking Defense porta il loro numero a quarantatre anticipando documenti consultati in esclusiva: a tutte le nazioni Nato si aggiungono almeno quattordici partner esterni all’Alleanza Atlantica. L’Ucraina, in primis, ma anche Svezia e Finlandia, in predicato di unirsi alla Nato. Cui si aggiunge il quartetto del Pacifico: Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda e, ovviamente, Australia. Tre le nazioni mediorientali: Israele, a cui per occasioni del genere nonostante la linea prudente l’invito non è mai negato, la Giordania bastione Usa ai confini della Siria filorussa e il Qatar, nuovo cavallo di battaglia dell’amministrazione Biden nel Golfo dopo i chiari di luna con l’Arabia Saudita. Infine, quattro nazioni africane: Kenya e Liberia, fidatissimi alleati Usa, ma anche Marocco e Tunisia, come a mettere pressione all’Algeria terza acquirente di armi russe al mondo.

In cattedra alla riunione ci sarà il gotha del mondo militare Usa e ucraino. Oleksii Reznikov, ministro della Difesa di Kiev, e Austin apriranno le danze del meeting; quello che il portavoce del Pentagono John Kirby ha definito come “Ukraine Defense Consultative Group” proseguirà con un intervento del capo del Joint Chief of Staff Mark Milley situazione nel fronte est e con uno del comandante Usa in Europa Tod Wolters sulle richieste di armi ucraine. Siamo certi che in tal senso i servizi segreti occidentali, specie quelli dell’Anglosfera, siano in prima linea a misurare le necessità delle forze armate ucraine.

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L’obiettivo è convincere la maggior parte delle nazioni convenute a sottoscrivere piani comuni di forniture di armi all’Ucraina e di concentrare le strategie che stanno per ora consentendo di fornire mezzi sempre più pesanti a Kiev. Sono di un valore di oltre 6,25 miliardi di dollari le forniture compiute finora. Ma il Pentagono sottolinea nei suoi comunicati che l’occasione sarà anche quella di discutere sul futuro degli Usa e della sua rete di alleanze con “una più larga visione delle sue esigenze difensive, andando oltre la guerra in corso”. Al meeting, a cui per l’Italia ci sarà il titolare della Difesa Lorenzo Guerini, si parlerà dunque di una vera e propria “coalizione dei volenterosi” che appare una sorta di Nato parallela di portata globale. Logico pensare che alcuni Paesi, come Israele e Qatar, non aderiranno al contrasto duro e puro a Mosca, ma anche che per capire la ratio del summit bisogna analizzare gli assenti, oltre che i presenti. Manca, come detto, l’Arabia Saudita e manca anche l’Egitto. 

Mancano India e Pakistan, oltre a tutti i Paesi Asean; mancano i Paesi latinoamericani più vicini a Washington, dal Messico alla Colombia, manca il Sudafrica e un Paese strategico come gli Emirati Arabi. Insomma, questi Stati indicati sono ritenuti o non utili alla causa o lontani oramai dall’influenza di Washington sul tema della condotta da tenere nel conflitto.

Quel che è certo è che chi promuoverà, dopo questa riunione, una strategia di netto contrasto alla Russia saprà che Ramstein è un vero e proprio “anno zero” delle relazioni tra la Russia e il campo occidentale. Per la prima volta si metterà nero su bianco l’idea della guerra asimmetrica e si valorizzerà la strategia promossa innanzitutto da Polonia e Regno Unito volta a battere Mosca sul campo grazie all’esercito ucraino. La strada per l’escalation è dunque tracciata, per quanto governata dall’effetto moderatore di Austin su Blinken. E sarà anche un passaggio cruciale per capire quanto l’Occidente avrà intenzione di far durare a lungo la guerra e porre fine a ogni speranza di colloquio già tramontata dopo il rilancio delle offensive russe. Mentre per l’Ucraina si tratta di una vittoria, vista l’ampiezza della solidarietà ottenuta da Zelensky e dal suo governo. Ma la lista degli assenti parla chiaro: il mondo non è ancora pronto a dividersi tra pro-russi e anti-russi. E questo gli Usa dovrebbero tenerlo in conto nel programmare le prossime mosse di una strategia di contrasto che può avere impatti pesanti sul loro rapporto col resto del mondo. Non sempre disposto a guardar di buon occhio l’Occidente”.

Così Muratore.

Austin rilancia

“Oggi siamo qui riuniti, oltre 40 Paesi, per aiutare l’Ucraina a vincere la battaglia contro la Russia. L’Ucraina ha fatto un lavoro straordinario nel difendersi dalla aggressione russa e la battaglia di Kiev entrerà nei libri di storia. Ma ora la situazione sul campo è cambiata, con l’offensiva nel sud e nel Donbass e dobbiamo capire di cosa ha bisogno l’Ucraina per combattere”. Così il segretario della Difesa Usa, aprendo il vertice nella base militare Usa di Ramstein, in Germania. “C’è un senso di urgenza che tutti comprendiamo, faremo il possibile, compresa la mobilitazione della nostra base industriale”.

La guerra ha sconfinato l’Ucraina. E’ una notizia. Che getta altre ombre inquietanti sul futuro. Una terza guerra mondiale non è una boutade propagandistica ma un rischio reale.

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