Muri di cemento, muraglie di sabbia: l'inferno subsahariano
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Muri di cemento, muraglie di sabbia: l'inferno subsahariano

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Muri di cemento, muraglie di sabbia: l'inferno subsahariano
Migranti nelle rotte del Sahara
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

4 Gennaio 2022 - 18.55


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La “rotta della morte”. Quella che guarda alla Spagna

Sono stati più di quattromila i migranti morti o dispersi nel tentativo di raggiungere la Spagna lo scorso anno, il doppio rispetto al 2020. Lo ha reso noto l’Ong Caminando Fronteras, affermando che 4.404 esseri umani sono deceduti o sono dispersi sulle rotte verso la nazione lo scorso anno: una media di 12 al giorno. La Ong ha affermato che il 90 per cento di dispersi o morti riguarda i 124 naufragi nel viaggio verso le Isole Canarie nell’Oceano Atlantico. Dal 2020, le isole al largo delle coste africane sono diventate la principale destinazione per i migranti che cercano di raggiungere la Spagna, con una quota molto più piccola che cerca di attraversare il Mar Mediterraneo fino alla penisola iberica. Il 2021 diventa quindi l’anno più mortale dal 2015, secondo i dati dell’associazione. Nel 2020 Caminando Fronteras aveva identificato 2.170 morti o dispersi su questa rotta.

I dati della ong relativi al 2021 sono molto superiori a quelli dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), che dal canto suo ha registrato almeno 955 morti o dispersi nella traversata verso le Isole Canarie e 324 verso la Spagna partendo dal Marocco e dall’Algeria. Helena Maleno, fondatrice di Caminando Fronteras, ha spiegato a Reuters che il gruppo ha raccolto i suoi dati dalle linee telefoniche istituite per i migranti sulle navi in difficoltà per chiedere aiuto e dai familiari in cerca di informazioni. Il gruppo indaga sul destino di ogni barca e si presume che i dispersi in mare da almeno un mese siano morti. Secondo le statistiche ufficiali spagnole, l’anno scorso 39.000 migranti privi di documenti hanno raggiunto con successo la Spagna via mare o via terra, una cifra simile all’anno precedente.

Racconto da Ceuta

E’ il bel reportage di Graziano Masperi per osservatoriodiritti.it

“La frontiera tra il Marocco  e l’enclave spagnola di Ceuta è un concentrato di disuguaglianze e violazioni di diritti.  Sono le 6 del mattino quando lungo la strada che porta alla dogana si incontrano centinaia di donne.  Una fila lunga almeno 2 chilometri e destinata ad aumentare con il passare delle ore. Sonole transfrontaliereche si recano a Ceuta per acquistare le balle di stoffa da rivendere in Marocco.

Rimangono in fila per giorni e nottiintere prima di vedersi rilasciare il pass giornaliero dalla Guardia Civil. Oltre alle ragazze che acquistano la merce ci sono colf e badanti che lavorano nelle abitazioni spagnolerigorosamente in nero. La polizia marocchina cerca di gestirle in maniera ordinata, suddividendole in gruppi. Altrimenti c’è il rischio che si disperdano.

Le condizioni sono al limite, al punto che anche soltantorecarsi in bagno rischia di diventare un’impresa. Molte donne, pur di non rinunciare al posto acquisito nella fila, espletano i bisogni fisiologici sugli scogli e si fanno tenere il posto dall’amica. Lo scorso anno, nel mese di settembre, una donna cadde, picchiò la testa sugli scogli morì. «Andare in bagno vuol dire perdere il posto. C’è un bagno alla frontiera, ma vieni controllato almeno sei volte prima di arrivarci. E, per tornare indietro, ci sono altri controlli. Passa più di un’ora tra andare e tornare e non sono più di duecento metri», racconta una donna. Dall’altra parte ci sono gli uomini e i bambini. Raja ha 15 anni ed è di Casablanca. Sporco e malnutrito perché da giorni è accampato vicino alla frontiera in attesa del momento buono per passare. Non ha nulla, se non gli stracci che indossa. L’amico parla un po’ di italiano e traduce: «Cerchiamo di infilarci tra le donne e, se ci va bene, non ci vedono. Raja vive in una baraccopoli. Io sono di Dakhla, Sahara Occidentale. Nel nostro gruppo siamo tutti marocchini, il più grande ha 17 anni».

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I minorenni che cercano di andare in Europa li si incontra già qualche chilometro prima. Al porto di Tangeri Youssef, 17enne di Taroudant,è da una settimana che cerca di infilarsi sotto un camionche si sta imbarcando. In realtà, per tutti questi ragazzini riuscire a varcare la frontiera resterà solo un sogno.

La polizia marocchina e quella spagnola non guardano in faccia a nessuno, nemmeno ai bambini. Osservano scrupolosamente ogni movimento. Chiedono i documenti a ripetizione e intervengono con durezza se qualcuno comincia a dare segnali di agitazione o nervosismo. Non raramente si sono registratiepisodi di violenza. A metà gennaio hanno respinto l’assalto di trecento migranti dell’Africa Sub Sahariana.

Entrare a Ceuta è impossibile per i minorenni e per i migranti sub-sahariani. Da una parte il filo spinato e il mare, dall’altra le concertinee la muraglia. In mezzo la polizia. Ma ogni giornoentrano a Ceuta oltre 2 mila donne marocchine per lavorare in nero in una situazione di palese illegalità…”.

Il reportage di Masperi è del 19 febbraio 2020. Quasi due anni dopo, la situazione non è certo migliorata, tutt’altro.

Muraglie di sabbia

Le racconta per l’eurispes.it Marco Omizzolo, sociologo e ricercatore dell’Eurispes. “Grandi muraglie di sabbia, ossia di enormi dune il cui scopo era, in origine, quello di militarizzare il confine statale a scopo di difesa e oggi anche per fermare i profughi in fuga. Si tratta di una strategia adottata in particolare in Africa che va a sommarsi ai protocolli e accordi sopra menzionati. Una di queste barriere di sabbia è stata realizzata da Rabat, capitale del Marocco, nel 1980 con lo scopo di presidiare il territorio rivendicato dal Fronte Polisario. Questa grande muraglia di sabbia, chiamata “cintura di sicurezza”, circoscrive per circa 2.500 chilometri l’area contesa dal popolo saharawi e serve almeno a tre scopi fondamentali. Il primo è quello di ostacolare tutti coloro che ambiscono ad entrare nel paese con l’obiettivo di raggiungere le enclave europee di Ceuta e Melilla. Secondo poi, per rivendicare il principio di territorialità assoluto da parte del Marocco a discapito delle rivendicazioni del popolo saharawi. Infine, come terzo scopo, quello di impedire ai profughi di raggiungere la costa marocchina per provare l’attraversata verso l’Europa. Una muraglia fisica che nel corso degli anni è stata costantemente militarizzata grazie ad investimenti economici e tecnologici frutto dell’ingegneria di alcune delle principali società di informatica e di sicurezza del mondo. Infatti, nonostante gli accordi di cessate il fuoco del 1991, firmati sotto l’egida delle Nazioni unite, il Marocco ha continuato ad allargare quella duna gigantesca per altri 14 chilometri, giungendo fino alla frontiera della Mauritania. Stessa politica è stata adottata nel marzo del 2021, quando ancora il Marocco ha iniziato ad innalzare un nuovo cordone di sabbia di 50 chilometri circa, nell’estremo nord del Sahara occidentale, in prossimità del confine algerino. Peraltro questa muraglia di sabbia è stata rafforzata lungo quasi tutto il suo percorso da campi minati, tanto da essere divenuto uno dei campi minati più lunghi e pericolosi al mondo.

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L’Algeria ha tratto esempio dall’esperienza marocchina. Quasi tutta l’Algeria sahariana, infatti, è perimetrata da un cordone artificiale di sabbia di oltre 6.700 chilometri, pattugliato da oltre cinquanta mila militari armati. Questa grande muraglia è stata recentemente estesa anche lungo il confine con il Niger, il Mali e la Mauritania, va dai due ai cinque metri di altezza e presenta in parallelo sia una trincea sia un sentiero che collega le basi militari distanti decine di chilometri.

 In tutta l’Africa esistono centinaia di grandi muri di sabbia costruiti dai governi di paesi considerati democratici come anche da dittature e regimi militari. Si va dall’Oceano Atlantico al mar Rosso, con una programmazione non certo causale ma frutto di una volontà specifica volta a fermare vie di transito e di fuga mediante torrette di guardia presidiate da militari armati capaci di sparare. Qualcuno riesce però a transitare senza grandi problemi, nonostante l’armamentario predisposto per il blocco di qualunque passaggio. Si tratta di trafficanti di uomini e donne, di armi, di benzina e petrolio, di droga e di sigarette. I traffici illeciti di questi beni e di uomini vengono infatti agevolati perché assicurano lo scheletro del potere di tanti paesi africani, come ad esempio l’Eritrea, il Mali, il Marocco e l’Algeria.

Recentemente anche la Tunisia e l’Egitto hanno usato la politica dei grandi muri di sabbia. La Tunisia ha infatti sinora costruito un muro di sabbia di oltre 200 chilometri vicino alla frontiera di Dehiba, la cui infrastruttura tecnologica è stata realizzata in collaborazione con gli Stati Uniti, le sue università tecnologiche e società di sicurezza e d’alta tecnologia. L’Egitto invece ha costruito i suoi muri di sabbia lungo il confine tracciato nel 1931 dall’Italia fascista, all’epoca ricoperto di filo spinato, per una lunghezza di circa 270 chilometri. Un’altra muraglia l’Egitto l’ha realizzata per circa 30 chilometri lungo la frontiera con il Sudan, formalizzando l’occupazione del noto triangolo de Hala’ib. Un’operazione che rischia di generare un’escalation di violenze in un territorio depresso sotto il profilo economico e politico.

Muri di sabbia africana si estendono anche lungo il Sahara orientale. Il loro scopo, in questo caso, è certo quello di ostacolare il transito dei profughi, ma ancora una volta di presidiare traffici illegali di varia natura (armi, uomini, donne e minori, droga, organi, ecc.). Dal passo di Salvador, tra il Niger e la Libia, fino ad alcune gomene del mar Rosso lungo l’area tra il Sudan ed Egitto, la circolazione si svolge in modo continuativo. Ciò è dimostrato ad esempio dall’incursione dei ribelli del Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad del Fezzan libico fino al Kanem ciadiano, che ha causato la morte sul campo dell’ex presidente ciadiano Idriss Dèby Itno nell’aprile del 2020. Eppure la grande muraglia di sabbia esiste anche in quest’area per un’estensione di circa cento chilometri, innalzata, in questo caso, da gruppi armati che presidiano quei confini con lo scopo di tassare i passaggi transfrontalieri, ricavandone denaro per finanziare i propri progetti, a volte anche terroristici. La grande muraglia, in quest’area, permette anche di proteggere una delle risorse economiche più importante, ossia siti minerari auriferi, particolarmente numerosi nel sud della Libia e nel nord del Ciad, come anche per controllare le vie d’accesso ad alcune città, aree industriali o zone di sosta per i profughi in fuga. Ad esempio, la strada che collega Ubari a Ghat nel sud-ovest della Libia è controllata da un check-point inserito tra muri di sabbia alti anche sei metri l’uno. Lo stesso vale per la città di Cufra, nel sud-est del paese, circondata da una grande muraglia di sabbia che impedisce o ostacola incursioni e spedizioni non autorizzate. Lo stesso vale per gli accessi, totalmente controllati, di Nouadhibou e Zouèrat in Mauritania, Tindouf e Mokhtar in Algeria, Syrte in Libia e altrove.

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Proprio la Libia costituisce un caso particolarmente interessante. La grande muraglia di sabbia in fase di realizzazione, tra Sirte e la base aerea di Giofra, dovrebbe essere lunga circa cento chilometri ed anche in questo caso serve per impedire l’accesso ai profughi e tutelare il proprio territorio mediante l’esercizio di un controllo militare. Secondo varie fonti, peraltro, la costruzione di questa muraglia sarebbe stata appaltata dal leader libico al gruppo russo Wagner, e probabilmente non a caso. La Russia di Putin ha infatti deciso di giocare un ruolo strategico nell’area quale sfida da vincere in chiave antieuropea. Questa muraglia peraltro coincide con la linea del fronte tra i governi di Tripoli e di Tobruch, nata dopo il fallimento della conquista di Tripoli da parte dell’Esercito nazionale libico (Lna) nel 2020.

Insomma, continuano la costruzione di barriere e di grandi muri di sabbia, la militarizzazione delle vie di fuga, il controllo affidato a gendarmerie e corpi paramilitari che presidiano militarmente queste vie di fuga. L’Europa, con ciò che sta accadendo tra Polonia e Bielorussiae per via degli accordi internazionali sottoscritti per il controllo dei flussi di profughi, non può certo considerarsi esente da responsabilità”, conclude Omizzolo.

Muri di cemento, muraglie di sabbia. Barriere di filo spinato, polizia in assetto di guerra. Questa è la realtà oggi. Di una Europa che esternalizza le sue frontiere e che riempie di soldi chiunque faccia il lavoro sporco dei respingimenti. 

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