Libia, la trattativa tra l'Italia e la mafia di Bengasi mentre chi denuncia corruzione viene fatto fuori
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Libia, la trattativa tra l'Italia e la mafia di Bengasi mentre chi denuncia corruzione viene fatto fuori

Questa è la “nuova Libia” sorta sulle ceneri della guerra del 2011, che l’Europa a guida francese, e con dentro l’Italia, spacciò come una guerra “umanitaria” per celare gli interessi petroliferi

Scontri tra Haftar e le milizie jihadiste di Bengasi
Scontri tra Haftar e le milizie jihadiste di Bengasi
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

12 Novembre 2020 - 15.53


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Chi ha il coraggio di denunciare soprusi e corruzione, lo paga con la vita. Questa è la “nuova Libia” sorta sulle ceneri della guerra del 2011, che l’Europa a guida francese, e con dentro l’Italia, spacciò come una guerra “umanitaria” per celare i veri interessi, petroliferi in primo luogo, che avevano portato all’abbattimento del regime di Gheddafi e all’eliminazione fisica di quello che sarebbe potuto diventare un testimone scomodo per capi di Stato (come Sarkozy), primi ministri e imprenditori, pubblici e privati, che il Colonnello aveva lautamente foraggiato e con cui aveva fatto affari miliardari. Questa è la Libia nella quale si consuma la trattativa tra lo Stato italiano e la mafia di Bengasi.

Il generale mafioso

La sua morte ha scosso le organizzazioni umanitarie internazionali a partire dalla missione dell’Onu. Una morte avvenuta dopo le critiche dell’avvocata Hanan Al-Barassi, al figlio del generale Khalifa Haftar e il ministro dell’Interno del governo con sede nell’Est del Paese. La notizia arriva dal Lybia Observer.   Al-Barassi aveva denunciato “corruzione, abuso di potere e violazioni dei diritti umani”. “La sua tragica morte – si legge in una nota diffusa nelle ultime ore  – è la prova delle minacce con cui devono fare i conti le donne  libiche che osano parlare” e ricorda “ai libici con incarichi di  responsabilità che devono mettere da parte le divergenze” e arrivare “rapidamente a una soluzione inclusiva” per riportare la “giustizia” nel Paese nel caos dal 2011 e porre fine “al clima prevalente di  impunità”. Unsmil ha chiesto giustizia, “prendendo atto della decisione delle autorità competenti nell’Est di avviare un’indagine rapida e approfondita”.

“Siamo seriamente preoccupati e seguiamo da vicino i resoconti dei media sull’avvocatessa Hanan Al-Barassi, che ha attivamente cercato di combattere la corruzione in Libia, assassinata a Bengasi”. Lo scrive in una nota l’ambasciata degli Stati Uniti in Libia sottolineando che “non dovrebbe essere tollerato mettere a tacere le voci degli attivisti pacifici” e “ribadendo il forte impegno degli Usa a consentire a tutti i libici, comprese donne e giovani, di avere voce nel futuro del loro Paese”. “Mentre i libici di tutto lo spettro politico si riuniscono a Tunisi, questa sfacciata uccisione sottolinea l’importanza di istituire un governo che sia responsabile nei confronti del popolo libico piuttosto che consentire alla corruzione e alla forza bruta di dettare il futuro della Libia”. Che ci sia allora un’indagine delle autorità libiche su questo omicidio. Sempre nella nota dell’ambasciata Usa si chiede chiarezza e si “esprimere preoccupazione per le notizie secondo cui i passeggeri delle linee aeree in viaggio da Bengasi a Tripoli sono stati illegalmente detenuti dopo l’arrivo su uno dei primi voli commerciali ripristinati da l’Est e l’Ovest del Paese. Alla vigilia di una soluzione politica del conflitto in Libia, il tempo della sparizione e delle uccisioni dei civili deve finire ora”, conclude il comunicato.

L’avvocata libica la scorsa settimana era apparsa in un videoclip per denunciare un tentativo di omicidio contro sua figlia, spiegando che avrebbe continuato a denunciare la situazione a Bengasi anche se questo le sarebbe costato la vita. Eppure le condanne non arrivano solo dalla Comunità internazionale ma anche dall’interno della Libia, sia da est che da ovest. Il ministero della Giustizia del Governo di accordo nazionale libico (Gna) ha diffuso un comunicato nel quale afferma che “questo omicidio si inserisce in una serie di violazioni compiute nei confronti di chi si occupa dei diritti umani e in particolare le donne”. Poco dopo è intervenuto anche il ministro dell’Interno del Gna, Fathi Bashagha, per il quale “l’assassinio di difensori dei diritti umani e di opinionisti per silenziare queste voci è un crimine atroce e una forma vergognosa di tirannia e un disperato tentativo di distruggere la speranza per la creazione di uno stato democratico civile”.
Non mancano le condanne anche dall’est della Libia. Il ministro dell’Interno del governo ad interim non riconosciuto, Ibrahim Bushnaf, ha chiesto ai servizi di sicurezza “di intensificare le indagini e le ricerche per raggiungere i responsabili dell’omicidio dell’avvocato al-Barassi e consegnarli alla giustizia per questo atto atroce”. Al suo appello si associazione anche il ministro degli Esteri del governo non riconosciuto dell’est, Abdel Hadi Lahweej. A livello internazionale, l’Unione europea ha confermato che la prosecuzione “di omicidi, rapimenti e altri atti criminali minaccia il processo di pace e mina gli sforzi per stabilizzare la Libia”. Anche l’ambasciata degli Stati Uniti, del Regno Unito e del Canada in Libia, l’ambasciatore tedesco Oliver Owcza  hanno condannato l’omicidio, invitando le autorità competenti a Bengasi a indagare sull’incidente e consegnare gli autori alla giustizia.

Hanan Al- Barassi era un’avvocata molto conosciuta in Libia, tanto che veniva soprannominata ”Azouz barqua” ovvero, la signora della Cirenaica. La sua battaglia per i diritti umani, soprattutto nella zona controllata da Haftar passava anche attraverso i social. Al-Barassi aveva accusato corruzione e malversazione funzionari dell’amministrazione parallela a quella di Tunisi. Hanan aveva dato voce alle donne vittime di violenza in famiglia, mettendo in rete il video di denunce che circolavano in Libia.  

Una ricercatrice di Human Right Watch, Hanan Salah, ha rimarcato che l’assassinio “ricorda altri crimini simili, per i quali non è stato punito nessuno”; in Cirenaica: meno di un anno e mezzo fa, era stata rapita dalla sua abitazione di Bengasi una deputata, Siham Sergewa, critica nei confronti dell’assedio di Tripoli perpetrato da Haftar. Della donna non si sa più nulla ed è probabilmente stata uccisa. Tarek Megerisi, un analista libico, considera l’assassinio di al-Barassi “il più forte simbolo del pericoloso approfondirsi delle fratture tra le aspirazioni della società dell’est della Libia” e la competizione fra “tribalisti e salafiti-haftariani”.

Amnesty International ha condannato l’omicidio e ha confermato che Al-Barassi e sua figlia hanno ricevuto minacce di morte. Un giorno prima della sua morte, l’attivista aveva detto sulla sua pagina Facebook che avrebbe rivelato la presunta corruzione del figlio di Haftar, Saddam.

Diversi attivisti per i diritti, giornalisti e dissidenti hanno lasciato la Libia colpita dal conflitto negli ultimi anni dopo essere stati minacciati, aggrediti o detenuti arbitrariamente. In un rapporto del 2018, Amnesty ha affermato che le donne che osano parlare contro la corruzione, le predazioni delle milizie o delle forze di Haftar hanno subito “”rischi specifici legati al genere” o hate speech sui social media.

La denuncia di Bachelet

L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet ha affermato che il deterioramento della situazione della sicurezza in Libia e l’assenza di un sistema giudiziario funzionante hanno evidenziato l’importanza del lavoro di un team di esperti indipendenti per documentare abusi e violazioni dei diritti umani. Pertanto l’Alto commissario ha annunciato la nomina dei membri della Independent Fact-Finding Mission on Libya (missione conoscitiva indipendente sulla Libia): Mohamed Auajjar (Marocco), Tracy Robinson (Giamaica) e Chaloka Beyani (Zambia e Regno Unito).
La missione conoscitiva sulla Libia è stata istituita dal Consiglio dei diritti umani lo scorso 22 giugno per documentare presunte violazioni e abusi in materia di diritto internazionale, diritti umani e diritto internazionale umanitario da parte di tutte le parti in Libia dall’inizio del 2016.
“Questo corpo di esperti – ha spiegato Bachelet – servirà come meccanismo essenziale per affrontare in modo efficace la diffusa impunità per le violazioni dei diritti umani e gli abusi commessi e può anche servire da deterrente per prevenire ulteriori violazioni e contribuire alla pace e alla stabilità nel Paese”. In Libia, ha aggiunto, esecuzioni sommarie, uccisioni illegali, tortura, maltrattamenti, violenza di genere, compresa violenza sessuale legata ai conflitti, rapimenti, sparizioni forzate e incitamento alla violenza sui social media “continuano a essere commessi in un clima di totale impunità”, mentre difensori dei diritti umani, attivisti e giornalisti sono stati aggrediti e sono fuggiti dal Paese. La missione d’inchiesta indipendente fornirà un aggiornamento a voce al Consiglio dei diritti umani del prossimo settembre. Nel 2021 seguirà un report scritto completo sulla situazione dei diritti umani in Libia, contenente anche azioni e raccomandazioni per prevenire e garantire la responsabilità di abusi e violazioni dei diritti umani.

Amnesty in prima linea

Rifugiati e migranti in Libia sono intrappolati in un ciclo di gravi violazioni e abusi dei diritti umani, tra cui detenzioni arbitrarie prolungate e altre privazioni illegali della libertà, tortura e altri maltrattamenti, uccisioni illegali, stupri e altre violenze sessuali, lavoro forzato e sfruttamento da parte di attori
statali e non statali in un clima di impunità quasi totale”. E’ quanto emerge dal nuovo rapporto di Amnesty International intitolato ‘Tra la vita e la morte’ e pubblicato all’indomani dell’annuncio, da parte della Commissione europea, del nuovo ”Patto sull’immigrazione”. “Per anni rifugiati e migranti, difensori e attivisti dei diritti umani libici, giornalisti, organismi delle Nazioni Unite e organizzazioni umanitarie e per i diritti umani hanno lanciato l’allarme sulle orribili condizioni che rifugiati e migranti sono costretti a sopportare in Libia” prosegue Amnesty. “Un paese ridotto a pezzi da anni di guerra è diventato un ambiente ancora più ostile per rifugiati e migranti in cerca di una vita migliore. Invece di essere protetti, vanno incontro ad una lunga serie di agghiaccianti violenze e ora sono persino ingiustamente accusati, per motivi profondamente razzisti e xenofobici, di aver diffuso la pandemia da Covid-19”, afferma Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.

Denunce, moniti, appelli. La storia della Libia post-Gheddafi è piena di questi pronunciamenti. Tutti puntualmente caduti nel vuoto. Perché, nove anni dopo la guerra “umanitaria”, la Libia resta uno Stato fallito, dove a dettar legge sono i signori della guerra, i capi tribù, milizie jihadiste, trafficanti di esseri umani spesso “travestiti” e arruolati nella cosiddetta Guardia costiera libica. Quella Guardia che l’Italia continua a finanziare. E a sottostare ai ricatti del generale mafioso Khalifa Haftar, che da oltre 2 mesi tiene in ostaggio 18 pescatori italiani. Con questi capi mafia l’Italia preferisce trattare sottobanco, offrendo loro riconoscimento, denaro, legittimazione. Questa non è una trattativa. E’ una resa. Incondizionata.

 

 

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