Afghanistan, Libia, Siria, Palestina: hanno fatto un deserto e l'hanno chiamato "pace"
Top

Afghanistan, Libia, Siria, Palestina: hanno fatto un deserto e l'hanno chiamato "pace"

Una “rivoluzione” culturale prim’ancora che politica. Dalla “guerra giusta” alla pace giusta.

Bambini siriani in un campo profughi
Bambini siriani in un campo profughi
Preroll

Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

30 Settembre 2021 - 18.28


ATF

Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato “pace”. In Siria, in Iraq, e cambiando latitudine, in Cecenia e per venire a giorni più ravvicinati, in Libia, in Afghanistan, nella dimenticata Palestina.  E se è vero, come credo che sia, che la sconfitta della sinistra, in tutte le sue declinazioni, che segna il presente, non solo in Italia, sia anzitutto una sconfitta culturale, l’affermarsi di una idea di pace senza aggettivi ne è una delle espressioni più devastanti. Di fronte alla quale, non c’è ritocco che regga. E’ un salto di mentalità, la sfida da affrontare.  

Una rivoluzione culturale

Una “rivoluzione” culturale prim’ancora che politica. Dalla “guerra giusta” alla pace giusta. La pace non è assenza di guerra né può ridursi, come spesso e su vari quadranti mondiali è stato, alla ratifica dei rapporti di forza imposti sul campo di battaglia. La pace non è, o non dovrebbe essere, sinonimo di resa. Pace non significa soltanto assenza di conflitto evidente: soltanto una pace giusta, che si basi su diritti e dignità di ogni individuo, è una pace veramente duratura. Io credo che la pace sia instabile laddove agli esseri umani è proibito esprimersi, è tolto il diritto di parlare liberamente o venerare il Dio prescelto, viene impedito di scegliersi i propri governanti o di riunirsi senza timori per le conseguenze. Promuovere i diritti umani non significa soltanto esortare e caldeggiare. Ogni tanto a ciò si deve aggiungere un’azione diplomatica diligente e precisa. So che impegnarsi a trattare con regimi repressivi significa privarsi della purezza appagante dell’indignazione. Ma so anche che le sanzioni che non hanno seguito, le condanne senza discussione, possono implicare un paralizzante status quo. Nessun regime repressivo può imboccare una strada nuova, a meno di avere la scelta di una via di uscita, una porta aperta…”. E’ una parte del discorso che l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, pronunciò a Oslo, il 10 dicembre 2009, in occasione del ritiro del Premio Nobel per la Pace. Non è questa l l’occasione per valutare quanto, nei suoi due mandati presidenziali, Obama sia stato fedele a questa importante riflessione. Fatto è che quelli che sono stati percepiti come i due grandi leader globali dei tempi attuali, Obama e papa Francesco, si siano cimentati con il tema epocale della pace giusta. Che per essere tale deve intervenire e incidere sulle cause che sono alla base del proliferare di crisi, conflitti regionali, disastri ambientali, crescita delle diseguaglianze tra i pochi che posseggono ricchezza e i Sud del mondo che ne sono espropriati. Riflettendo su una intervista di Papa Francesco sul tema della pace giusta, Pierangelo Sequeri annota su l’Avvenire:Non si tratta solo di portar fuori il tema della legittima difesa dal contenitore semantico obsoleto della guerra giusta. Si tratta anche di non lasciare spazio ad un pacifismo generico e retorico dello ‘stare in pace’. L’orrore della normalità con la quale si praticano la crudeltà (‘Oggi i bambini non contano!’) e la tortura (col pretesto della sicurezza e della deterrenza), indica chiaramente che la soglia è superata. E nessuno può, con nessun pretesto, voltarsi dall’altra parte. L’umanesimo della pace giusta non si sottrae all’impegno di un difficile discernimento, alla fatica di una vigilanza incessante, al sacrificio generoso della presenza e della testimonianza che rischiano di persona, per attestare la persuasività e l’efficacia del perseguimento di mezzi alternativi alla guerra…”. 

Una pace giusta non contempla una verità assoluta, che nella Storia coincide il più delle volte con quella dei vincitori. E’ “giusta” una pace che riconosce i diritti dell’altro da sé. E che valorizza la parola “compromesso”. Scrive in proposito il grande scrittore israeliano Amos Oz: “Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. Una pace giusta parte da qui. Dalla lungimiranza del più forte, del generale che ha combattuto mille battaglie e proprio per questo è consapevole che la battaglia più difficile da vincere è quella per una pace giusta. Questa è stata la tragica grandezza di Yitzhak Rabin, il ministro della Difesa durante la prima Intifada che scandalizzò il mondo per aver giustificato i soldati israeliani che reprimevano brutalmente i giovani palestinesi lanciatori di pietre; ma era sempre il generale Rabin, diventato primo ministro d’Israele, a sbalordire il mondo accettando di stringere la mano al nemico di sempre, Yasser Arafat, perché la pace si fa con il nemico e con lui si apre un cammino di speranza. Rischiando tutto, compresa la propria vita. Perché la pace giusta non nasce da poeti o sognatori, ma da chi ha conosciuto le asprezze e gli orrori della guerra ed ha saputo non restarne succube. La pace giusta ha bisogno di una visione che vada oltre la contingenza di un angusto presente, di leader che sappiano andare controcorrente, non piegandosi all’umore del momento, finendo per cavalcare insicurezze o alimentando sogni di grandezza, ma avendo chiara la meta da perseguire e i valori da preservare. 

Leggi anche:  Bruno Breguet, terroristi infiltrati e le vechie operazioni di destabilizzazione sovietica

 La pace vera è quella che non confonde la giustizia con la vendetta.

La lezione di Mandela

 E’ la pace di un Grande della Storia: Nelson Mandela. Ricordo ancora, con emozione, l’intervista che mi concesse il compagno di una vita di Mandela nella lotta al regime dell’apartheid: Desmond Tutu, che con “Mndiba” condivise anche il Nobel per la Pace. Il 18 luglio si celebreranno il centenario della nascita di Nelson Mandela. In quell’intervista, quando gli chiesi cosa fece grande Nelson Mandela, Desmond Tutu rispose così: “Non sono pochi nella Storia a essere ricordati come vincitori. C’è chi ha condotto rivoluzioni, chi ha sconfitto il nemico sul campo. Ma in pochi hanno saputo coniugare vittoria e giustizia. Nelson è tra questi pochi. Per questo, soprattutto per questo, è stato un grande. Non solo per come ha combattuto ma per come ha saputo vincere. Con lo spirito di giustizia, mai di vendetta. Non è da tutti riuscire ad essere, nell’arco di una vita, il leader amato, osannato di un movimento di rivolta e, successivamente, a essere visto, accettato, come il presidente di tutti i sudafricani, al di là del colore della pelle, dell’appartenenza etnica o religiosa. Nelson Mandela c’è riuscito. Con Madiba non ho condiviso solo la lotta contro il regime dell’apartheid. Ciò che ci ha ancor più legati è stata l’idea, dalla quale è nata “La Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana (istituita dall’allora primo ministro Nelson Mandela nel 1995, che operò dal 1996 al 1998, oggi presieduta da Tutu, ndr) è che fare giustizia significa risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare le vittime quanto i criminali, ai quali va data la possibilità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso. La riconciliazione non è qualcosa che ti mette comodo, non ti permette di fare finta che le cose siano diverse da come sono, la riconciliazione basata sulla falsità o sulla mistificazione della realtà non è vera riconciliazione e non può durare. Sono sempre stato convinto, e ciò non vale solo per il Sudafrica, che senza perdono non c’è futuro”. E’ questa la grandezza di una pace giusta e dei suoi facitori. E’ nell’immedesimarsi nel dolore e nella speranza, nelle rinunce e nelle aspettative del nemico che non è più tale. La pace giusta non può essere imposta dall’esterno, non la si esporta con le armi; essa ha bisogno di consapevolezza, di conoscenza, di un dialogo dal basso, del saper ascoltare e non limitarsi a sentire. Se ci guardiamo attorno, limitandoci ad annotare le balbettanti esternazioni dei Grandi della terra, dovremmo concludere che non c’è seme di una pace giusta su questa terra. Ma se si scava più in profondità, se si guarda ai movimenti carsici che agiscono dentro le società, che resistono a regimi brutali in nome di principi universali, allora il quadro si fa meno scuro, e la speranza torna a fiorire. La pace giusta non è una utopia, ma un sano principio di realtà. E’ un work in progress che unisce idealità e concretezza, intervento internazionale e crescita di esperienze, e professionalità, interne ai vari Paesi d’intervento. La pace giusta è anche questo. E si ripropone, drammaticamente, nell’approccio al tema delle migrazioni. Dire immigrazione significa, infatti, accendere un faro sulla disuguale distribuzione della ricchezza. In effetti, ben il 95% delle strutture produttive è posseduto da un sesto della popolazione mondiale. Con un reddito pro capite di circa venti volte inferiore a quello dell’Ue, l’Africa subsahariana dispone solo del 2,1% della ricchezza mondiale Resta ignorata, peraltro, la crisi alimentare gravissima che sta colpendo diversi paesi Africani, in particolare il Sud Sudan, il bacino del Lago Ciad e il Corno d’Africa, tra le maggiori zone di provenienza di profughi e rifugiati nel nostro paese. Qui, a causa degli effetti combinati di una grave siccità e dei conflitti che insanguinano alcuni paesi (Sud Sudan e Somalia in particolare), quasi 30 milioni di persone sono sull’orlo della fame. Hanno perso le loro fonti di sostentamento principali, bestiame ed agricoltura, perché non c’erano più acqua e cibo sufficienti, hanno attraversato a piedi intere regioni aride sfuggendo da Boko Haram o Al Shebaab o semplicemente cercando acqua per le proprie mandrie. Sono affamati, disidratati e senza prospettive, i bambini muoiono di diarrea sono 2 milioni quelli colpiti dalla fame, che rischiano di morire se non si interviene immediatamente. Ed è impressionante notare come vi sia una stretta correlazione tra diversi dei Paesi “saccheggiati” e quelli da cui provengono la maggioranza dei migranti sbarcati in questi giorni in Italia: Congo, Nigeria, Ghana, Mali, Gambia, Niger, Guinea, Sudan, Senegal, Bangladesh, Camerun Dal Corno d’Africa fuggono eritrei, etiopi, somali e sudanesi. Il caso degli eritrei è forse quello più eclatante. Secondo l’Unhcr ogni mese tremila eritrei lasciano il proprio paese. Fuggono da una dittatura spietata, la stessa Onu in un recente (durissimo) rapporto, definisce l’Eritrea come “la Corea del Nord dell’Africa”. “Per una volta, almeno per una volta – mi disse in quell’intervista Desmond Tutu –  mi auguro e prego perché i cittadini europei, e i loro governanti, non si chiedano dove vogliano andare gli esseri umani che bussano alle porte, troppo spesso sbarrate, dei ricchi Paesi occidentali. Io spero e prego che almeno una volta ci si chieda da cosa fuggono, e perché, e per responsabilità di chi, i loro Paesi si siano trasformati in un inferno in terra”.  Rispondere all’invito del Nobel per la pace sudafricano significa inoltrarsi su un sentiero impervio, fatto di verità amarissime, di responsabilità acclarate; significa mettere in evidenza l’inconsistenza europea, il neocolonialismo cinese, la penetrazione russa e lo scontro con il sovranismo Usa, anche nella più edulcorata versione “bideniana”, per il quale “America first” , o se preferite “America is back”, in Africa vuol dire sostenere i propri interessi economici anche se ciò comporta creare le condizioni per la fuga di milioni di disperati. Significa battersi per una pace nella giustizia. Senza, non è pace. Semplicemente.

Leggi anche:  Bruno Breguet, terroristi infiltrati e le vechie operazioni di destabilizzazione sovietica

Una pace che faccia i conti con fenomeni sempre più drammatici ed esplosivi. Oggi, ricorda in una nota ufficiale l’Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati) oltre 48 milioni di persone sono state costrette a fuggire all’interno dei loro paesi a causa di conflitti e violenze, la maggior parte delle quali sono donne e bambini.
Tra conflitti e persecuzioni in corso e un deficit globale di pace, i livelli di migrazioni forzate interne seguono una traiettoria preoccupante.
Spinto dalle crisi in Afghanistan, Etiopia, Sudan, Sahel, Mozambico, Yemen e molti altri paesi, il numero di sfollati interni è aumentato di oltre 2,3 milioni solo lo scorso anno, secondo l’ultimo rapporto statistico annuale dell’Unhcr, Global Trends. Nonostante la pandemia, nel 2020 il numero di persone in fuga da guerre, violenze, persecuzioni e violazioni dei diritti umani è salito a quasi 82,4 milioni, secondo l’ultimo rapporto annuale dell’Unhcr. . Si tratta di un aumento del quattro per cento rispetto alla cifra record di 79,5 milioni di persone in fuga toccata alla fine del 2019.

Leggi anche:  Bruno Breguet, terroristi infiltrati e le vechie operazioni di destabilizzazione sovietica

Il rapporto mostra che alla fine del 2020 c’erano 20,7 milioni di rifugiati sotto mandato Unhcr, 5,7 milioni di rifugiati palestinesi e 3,9 milioni di venezuelani fuggiti all’estero. 48 milioni di persone erano sfollati all’interno dei loro paesi. Altri 4,1 milioni erano richiedenti asilo. Questi numeri ci dicono che nonostante la pandemia e l’appello per un cessate il fuoco globale, i conflitti hanno continuato a costringere le persone ad abbandonare le proprie case.

“Dietro ogni numero c’è una persona costretta a lasciare la propria casa e una storia di fuga, di espropriazione e sofferenza. Meritano la nostra attenzione e il nostro sostegno non solo con gli aiuti umanitari, ma con soluzioni alla loro situazione”, ha detto l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi.

“La Convenzione sui Rifugiati del 1951 e il Global Compact sui Rifugiati forniscono il quadro giuridico e gli strumenti per rispondere ai movimenti forzati di popolazioni, ma abbiamo bisogno di una volontà politica assai più decisa per affrontare, in primo luogo, i conflitti e le persecuzioni che costringono le persone a fuggire”, ha continuato.

Le ragazze ed i ragazzi sotto i 18 anni rappresentano il 42% di tutte le persone costrette alla fuga. Sono particolarmente vulnerabili, specialmente quando le crisi continuano per anni. Nuove stime dell’Unhcr mostrano che quasi un milione di bambini sono nati rifugiati tra il 2018 e il 2020. Molti di loro potrebbero rimanere rifugiati ancora per molti anni.

“La tragedia di così tanti bambini che nascono in esilio dovrebbe essere una ragione sufficiente per adoperarsi molto di più per prevenire e porre fine ai conflitti e alla violenza”, ha rimarcato  Grandi.  “Per trovare soluzioni adeguate occorre che i leader globali e le persone influenti mettano da parte le loro differenze, pongano fine a un approccio egoistico alla politica e si concentrino piuttosto sulla prevenzione e sulla risoluzione dei conflitti e sul rispetto dei diritti umani”, conclude Grandi.

Muoversi in questa direzione significa battersi per una pace giusta. Una pace vera. Una pace che non c’è.

Native

Articoli correlati