Trump spinge il Sudan tra le braccia d'Israele. Ma non chiamiamola pace
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Trump spinge il Sudan tra le braccia d'Israele. Ma non chiamiamola pace

L'avvio di relazioni tra alcuni paesi arabi e africani, tradizionalmente nemici di Israele, e lo "stato ebraico" ha un valore strategico per gli Stati Uniti, che da anni hanno perso rilevanza nel Vicino Oriente

Il presidente del Sudan Abdalla Hamdok
Il presidente del Sudan Abdalla Hamdok
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24 Ottobre 2020 - 16.35


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di Marco Santopadre

Per un Donald Trump in affanno e indietro nei sondaggi poter annunciare, come effetto della propria opera di mediazione, la normalizzazione dei rapporti tra i paesi islamici e Israele rappresenta in questo momento una boccata d’ossigeno dal chiaro sapore elettorale.
Ma l’avvio di normali relazioni tra alcuni paesi arabi e africani, tradizionalmente nemici di Israele, e il cosiddetto “stato ebraico”, ha un valore di carattere strategico per una superpotenza, gli Stati Uniti, che da anni ormai hanno perso rilevanza nel Vicino Oriente e nel continente africano e che cercano di recuperare spazi ed egemonia. Così come per il primo ministro israeliano Netanyahu, che tenta di bilanciare la forte crisi di consenso all’interno del suo paese con i successi ottenuti sul piano diplomatico.
E’ stato un Trump raggiante quello che ieri ha annunciato di aver convinto il Sudan a riconoscere ufficialmente Tel Aviv, dopo che Emirati Arabi Uniti e Bahrein avevano fatto lo stesso rispettivamente il 13 agosto e l’11 settembre, affiancandosi ad Egitto e Giordania.
Mercoledì una delegazione di Washington era arrivata in Sudan, e dopo due giorni l’accordo è stato formalizzato nel corso di una conversazione tra lo stesso Trump, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, quello sudanese Abdalla Hamdok e il generale di Khartum Abdel Fattah al Burhan, Presidente del Consiglio Militare di Transizione (dopo la fine della dittatura di Omar al Bashir sono di fatto i militari a detenere, il potere). Poi, in un comunicato congiunto, è stato spiegato che inizialmente la collaborazione tra i due paesi riguarderà il commercio e l’agricoltura. Ma, è scontato, la cooperazione avrà sicuramente anche risvolti sul piano militare e di intelligence.
La svolta, che Netanyahu ha definito “sensazionale” e “gigantesca”, è giunta al termine di una lunga trattativa, sbloccata dalla decisione di Trump di rimuovere il paese nordafricano dalla lista degli sponsor internazionali del terrorismo, nel quale era stato inserito nel 1993, se verserà un risarcimento alle vittime statunitensi di attacchi condotti con la complicità del Sudan. Nella fattispecie, Khartum dovrà pagare i 335 milioni di dollari che si è già impegnato a versare alle vittime degli attentati organizzati nel 1998 da Al Qaeda (i cui leader sono stati, per un certo tempo, ospiti del regime sudanese) alle ambasciate statunitensi in Tanzania e in Kenya.
In cambio dell’adesione al cosiddetto “Accordo di Abramo” (profeta sia per l’ebraismo che per l’Islam) firmato alla Casa Bianca il 15 settembre scorso, il paese africano, ridotto allo stremo dal malgoverno e dall’instabilità politica, da vari conflitti interni, dalle immancabili calamità naturali e dalle sanzioni internazionali, dovrebbe ottenere l’accesso ad alcuni miliardi di dollari in aiuti e prestiti internazionali.
Sono molti quindi gli osservatori che giudicano quindi la mossa di Khartum il risultato di un velato ricatto da parte di Washington: senza la fine della belligeranza nei confronti di Israele e il pagamento dei risarcimenti alle vittime degli attentati africani di Al Qaeda il Sudan avrebbe continuato a patire le ritorsioni statunitensi e la sua popolazione a soffrire la fame.
Secondo il Sudan Tribune, Khartum avrebbe ora ottenuto dagli USA un pacchetto di aiuti umanitari per far fronte all’emergenza Covid e altri 750 milioni di dollari da parte dei Paesi del Golfo.
A metà settimana manifestazioni di massa hanno di nuovo protestato in diverse città sudanesi contro la repressione del dissenso da parte del regime militare e contro la mancanza di misure in grado di alleviare le sofferenze causate dalla crisi economica.
Dal punto di vista economico e geopolitico, il Sudan è il meno importante dei paesi che normalizzano i rapporti con Israele, ma il passo ha per Tel Aviv e Washington un grande valore simbolico e storico. Fu infatti proprio nella capitale sudanese che, nel 1967, la Lega Araba pronunciò i “tre No”: no alla pace con Israele, no al riconoscimento dello “stato ebraico” e no ai negoziati. Per anni il Sudan ha accolto migliaia di combattenti e dirigenti delle organizzazioni palestinesi, per passare poi a sostenere Hamas e a collaborare con l’Iran e gli Hezbollah libanesi, nemici storici di Israele. Che, infatti, non è stata a guardare, inviando più volte i suoi bombardieri a colpire obiettivi sul suolo di Khartum.
La giunta militare che governa il Sudan è spaccata, e bisognerà vedere se l’accordo reggerà, anche di fronte alla massiccia contrarietà nei confronti della normalizzazione della popolazione del paese, come d’altronde avviene anche negli altri paesi coinvolti dall’Accordo di Abramo.
«Il Sudan che normalizza i rapporti con l’occupazione israeliana rappresenta una nuova pugnalata alla schiena ma non piegherà i palestinesi che proseguiranno la lotta per i loro diritti» ha commentato un amareggiato Wasel Abu Yusef a nome del Comitato esecutivo dell’Olp.

Leggi anche:  Israele-Brasile: il 'caso' Iran complica ancora di più i rapporti già tesi tra i due governi

Ma è un fatto che la strategia di Washington e Tel Aviv stia isolando e indebolendo sempre più i palestinesi anche all’interno del mondo arabo-islamico, che fino a qualche anno fa, almeno a parole, difendeva compattamente il principio “pace in cambio di terra” sostenendo la nascita di uno stato arabo indipendente sui territori occupati da Israele nel 1967. Gli aiuti arabi all’Autorità Nazionale Palestinese, in gran parte provenienti dalle petromonarchie, sono crollati da 267 milioni di dollari del 2019 ad appena 38 quest’anno, mentre sulle élites palestinesi – per convinzione o per necessità – aumenta l’influenza dell’asse Turchia-Qatar, da tempo in competizione con il Consiglio di Cooperazione del Golfo.

Inizialmente sembrava che anche l’Arabia Saudita dovesse aderire alla normalizzazione con Israele (con il quale i wahabiti intrattengono da tempo proficui rapporti economici e militari), chiudendo il cerchio. Ma poi l’entusiasmo di Trump si è affievolito, e l’atteggiamento del paese capofila del fronte sunnita si è fatto assai più cauto. 

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