In memoria di Ebru Timtik donna coraggiosa, morta per non piegarsi alla tirannia di Erdogan
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In memoria di Ebru Timtik donna coraggiosa, morta per non piegarsi alla tirannia di Erdogan

La Turchia non esiste più. Al suo posto è nato l’”Erdoganistan”, un Paese senza libertà né diritti, retto da un regime islamo-nazionalista. La sua storia

Ebru Timtik
Ebru Timtik
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

28 Agosto 2020 - 15.31


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 Statene certi: il “Pinochet del Bosforo” resterà impunito. Impunito per l’ennesimo crimine perpetrato, per l’ennesima vita spezzata. Statene certi: nessuna sanzione verrà applicata dalla imbelle e complice Europa contro chi ha fatto strame dei diritti umani, epurando, incarcerando, costringendo al suicidio i suoi oppositori. Per non dimenticare. Per onorare la memoria di una donna coraggiosa, di una avvocata che non ha mai piegato la schiena, che chi scrive ha avuto l’onore di conoscere in occasione di un reportage sulla lotta dei ragazzi di Gizi Park.  Era in sciopero della fame da 238 giorni perché voleva un processo equo dopo che era stata condannata a 13 anni di reclusione per “appartenenza a un’organizzazione criminale”. Ieri sera è deceduta in un ospedale di Istanbul.
Ebru Timtik, 42 anni. A dare notizia della sua morte è stato il suo studio legale. “Ebru Timtik, socia del nostro studio, è morta da martire”, si legge in un tweet. La donna aveva iniziato lo sciopero della fame lo scorso febbraio per chiedere un processo equo. Insieme al collega Aytac Unsal, pure lui in sciopero della fame, Timtik faceva parte dell’Associazione contemporanea degli avvocati, specializzata nella difesa di casi politicamente delicati. Le autorità turche accusano questa associazione di essere legata all’organizzazione marxista-leninista radicale Dhkp-C, un gruppo che ha commesso diversi attacchi ed è definito “terrorista” da Ankara e dai suoi alleati occidentali. Ebru Timtik aveva difeso in particolare la famiglia di Berkin Elvan, un adolescente morto nel 2014 per le ferite riportate durante le proteste antigovernative a Gizi Park nel 2013.

Vergogna infinita

La Turchia non esiste più. Al suo posto è nato l’”Erdoganistan”, un Paese senza libertà né diritti, retto da un regime islamo-nazionalista che sfruttando uno pseudo golpe ha realizzato il disegno che covava da tempo: risolvere manu militari il problema curdo, azzittire la stampa indipendente, riempire le patrie galere di giornalisti, avvocati, professori universitari, funzionari pubblici, attivisti dei diritti umani, parlamentari dell’opposizione.

Le statistiche delle purghe in corso in Turchia sono sconvolgenti. Il giorno dopo il fallito golpe del 16 luglio 2016, il governo Erdogan ha licenziato 2.745 giudici, un terzo del totale. Non molto tempo dopo circa centomila funzionari pubblici, insegnanti e giornalisti hanno perso il lavoro. Il numero è oggi incredibilmente elevato: 182.247 funzionari, insegnanti e accademici statali licenziati, 59.987 arrestati. All’interno delle carceri, gli incontri tra detenuti e avvocati sono strettamente limitati e le loro riunioni attentamente monitorate, compromettendo inevitabilmente una difesa efficace. Non sono autorizzati contatti con l’esterno, fatta eccezione dei parenti più stretti, con i quali possono comunicare una volta a settimana, attraverso una finestra di vetro o via telefono. Grazie allo stato d’emergenza, il presidente-gendarme, che dopo la vittoria nel contestato referendum costituzionale ha avocato a sé tutti i poteri esecutivi,  può in qualsiasi momento ordinare isolamenti, detenzioni, chiusure di organizzazioni e istituti, sequestri di proprietà private, coprifuochi. Il costo umano di queste purghe è elevatissimo.

Europa complice

E tutto questo avviene con la complicità dell’Europa. Complicità, non silenzio. Perché di parole ne sono state utilizzate tante ad accompagnare le retate, le epurazioni, gli arresti di massa, lo scempio di qualsiasi diritto umano e civile, che scandiscano dal post-15 luglio la quotidianità della Turchia retta dal “Sultano di Ankara”.  Quelle parole sono un insulto a quanti, come Ebru Timtik nell’”Erdoganistan” si sono battuti e continuano a battersi fino a sacrificare la propria vita, per i diritti delle minoranze, perché non siano azzerate quelle istanze di libertà, in ogni sfera della vita politica, sociale, dei costumi sessuali, di un Paese che oggi è sotto il tallone di una dittatura spietata. Una dittatura finanziata dall’Europa. Perché questa è la realtà. Vergognosa. Indecente. Perché i leader Europei non hanno solo chiuso gli occhi di fronte alle decine di migliaia di funzionari pubblici, di accademici, di quadri, di insegnanti  dell’esercito, epurati da Erdogan, non solo non hanno raccolto gli appelli dei giornalisti incarcerati o zittiti o costretti all’esilio dal regime, ma quel regime hanno innalzato a interlocutore privilegiato nell’unica cosa che conta oggi nell’Europa dei muri, delle frontiere blindate, dei respingimenti forzati, degli hotspot-lager: fare della Turchia di Erdogan il “Gendarme” delle frontiere esterne. Perché l’unico timore che questa Europa indegna di definirsi democratica ha, è quello che il “Sultano di Ankara” apra i “rubinetti” dei migranti e ritorni a popolare le rotte della morte, a cominciare da quella balcanica. Al “Gendarme” turco l’Europa della vergogna ha promesso 6 miliardi di euro, sottoscrivendo un accordo nel quale non c’è una riga, non c’è alcun riferimento, non c’è alcun vincolo che riguardi il rispetto degli standard minimi di democrazia. Niente. E niente è stato fatto dopo che il “Sultano” osannato dalla folla ha promesso il ripristino della pena di morte e ottenuto il via libera per l’arresto di parlamentari nel pieno delle loro funzioni. 

Tra le libertà conculcate c’è quella all’informazione. Racconta a Radio Popolare l’intellettuale e giornalista turco Ahmet Insel. Laureato alla Sorbona, ex docente universitario, Insel è editorialista del quotidiano turco  Cumhuriyet, falcidiato dagli arresti del regime, e dirige la casa editrice Iletisim. E’ autore del volume La nouvelle Turquie d’Erdogan, Du rêve démocratique à la dérive autoritaire (Francia, 2016)”: “Le cose in Turchia sono peggiorate, grosso modo, da quattro anni. Le proteste di Gezi Park nel 2013 hanno creato panico nel governo: da quel momento ha voluto controllare la stampa sempre di più. E dato che i media della confraternita Gülen hanno attaccato sempre di più il governo, Erdogan ha cominciato a vedere nella stampa il pericolo principale. Questo processo – rileva Insel – era già cominciato prima del tentativo di colpo di stato del luglio 2016. Dopo il colpo di stato, l’attacco alla stampa è diventato generale e ha coinvolto anche la stampa di sinistra e la stampa curda. Non si tratta solo di pressioni o di chiusura dei giornali o delle televisioni, ma si è passati direttamente all’arresto dei giornalisti. A partire dal 2011 la situazione è ulteriormente peggiorata e dopo il colpo di stato del 2016 – con l’imposizione dello stato di emergenza – non abbiamo più libertà d’espressione in Turchia. Esiste oggi in Turchia una democrazia aleatoria, arbitraria”.

Ecco cosa è oggi la Turchia di Erdogan: un Paese sotto il tallone di ferro di un regime islamo-nazionalista che tratta ogni oppositore come una minaccia alla sicurezza dello Stato. E se lo combatti con la forza delle idee e con i tuoi scritti sei ancora più pericoloso. Lo sa bene Asli Erdogan, cinquant’anni appena compiuti, autrice pluripremiata e tradotta in 17 lingue (in Italia con Il mandarino meraviglioso, ed. Keller), diventata il simbolo delle centinaia di intellettuali colpiti dalla repressione nella Turchia post-golpe. Lei in carcere ha trascorso 136 giorni con l’accusa di “terrorismo”. “Devo quel po’ di libertà che ho adesso al sostegno internazionale – sottolinea la scrittrice in una recente intervista  -.  Senza questo, probabilmente sarei rimasta in prigione e, se non fossi morta, anche per le mie condizioni di salute, sarei stata rilasciata con tante scuse solo dopo anni. Ormai lo stato di diritto non esiste più. Può accadere qualsiasi cosa. Tantissimi giudici sono in galera. Può toccartene uno di 25 anni, che magari cerca di fare buona impressione sul suo capo, o semplicemente di non finire a sua volta sotto accusa: è molto difficile credere ancora nella giustizia. Il mio è stato uno dei casi più ridicoli e kafkiani. E credo sia un messaggio per tutti gli intellettuali: state lontani dai curdi (Asil non lo è ma si batte per i diritti delle minoranze, ndr), o vi tratteremo come loro”. Chiunque non si adegua al regime diventa un nemico da neutralizzare.

E chi non si piega, lo fa al prezzo della vita.

“Difendere quei ragazzi è un mio dovere e un loro diritto. Credo nella legge e nello stato di diritto, e non mi sento per questo una eroina. Sono semplicemente un’avvocata”, ebbe a dirmi in quell’occasione.  Che la terra ti sia lieve, Ebru.

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