A Sirte si decide la "grande spartizione" della Libia: una partita a tre
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A Sirte si decide la "grande spartizione" della Libia: una partita a tre

Giocano Recep Tayyp Erdogan (Turchia), Vladimir Putin (Federazione Russa), Abdel Fattah al-Sisi (Egitto). Con il leader russo che tiene le mani libere per essere il dominus del futuro

Le truppe di Serraj cacciano dalla tripolitania l'esercito di Haftar
Le truppe di Serraj cacciano dalla tripolitania l'esercito di Haftar
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

7 Giugno 2020 - 16.05


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Il futuro della Libia è nelle mani di tre autocrati-presidenti: Recep Tayyp Erdogan (Turchia), Vladimir Putin (Federazione Russa), Abdel Fattah al-Sisi (Egitto). Il primo, ha salvato vita e poltrona al presidente del Governo di accordo nazionale (Gna), Fayez al-Sarraj, il suo omologo egiziano prova a tenere a galla il suo protetto, il generale Khalifa Haftar, mentre lo “Zar” del Cremlino, che pure dovrebbe ancora stare dalla parte del generale della Cirenaica, si tiene sempre più le mani libere per essere lui a essere il dominus di una “Yalta libica”. Ma la strada della “Grande spartizione” è tutt’altro che in discesa.

Il rifiuto di Tripoli

Il Governo di accordo nazionale libico ha infatti respinto l’iniziativa del Cairo lanciata dal presidente egiziano, che prevede anche un cessate-il-fuoco a partire da domani, accettato dal generale Khalifa Haftar. Il governo “non ha tempo per guardare le assurdità di Haftar in tv”, ha detto il portavoce delle forze militari di Tripoli, Mohammed Gununu, secondo quanto riferito dal Libya Observer. “Non abbiamo iniziato questa guerra, ma ne vedremo la data e il luogo della fine”, ha aggiunto.

Sul campo, infatti, non si arrestano ancora le ostilità: le forze fedeli al governo di Sarraj, forti delle vittorie militari degli ultimi giorni nell’ovest del Paese, hanno puntato su Sirte, la città petrolifera strategica controllata dalle forze di Haftar, e alla base aerea di al-Jufra, a sud. E gli uomini del generale della Cirenaica avrebbero subito lanciato una controffensiva.

Anche il presidente dell’Alto Consiglio di Stato di Tripoli, Khalid Al-Mishri, ha respinto l’iniziativa di al-Sisi, affermando che la Libia è uno Stato sovrano e l’intervento dell’Egitto è inaccettabile. Al-Mishri ha aggiunto che Haftar ora vuole tornare al dialogo politico dopo aver subito umilianti sconfitte, sottolineando che “il Consiglio di Stato rifiuta la presenza di Haftar nei prossimi negoziati politici, e che dovrebbe arrendersi ed essere processato da un tribunale militare”.

Ruoli invertiti

L’ipotesi di una svolta al Cairo è l’ultima di una serie, impressa al conflitto libico, che dura da 14 mesi, con la discesa in campo lo scorso autunno di Russia, Egitto ed Emirati Arabi a sostegno dell'”uomo forte di Bengasi” Haftar, e della Turchia con il Governo di unità nazionale (Gna) di Tripoli guidato da al-Sarraj. Un coinvolgimento crescente di potenze straniere che ha rovesciato le sorti militari a favore di Tripoli e delle sue milizie alleate, fermando di fatto l’offensiva di Haftar su Tripoli, lanciata nell’aprile 2019 e attestatasi poi alle porte della capitale in un’estenuante e statica guerra di posizione.

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Con l’appoggio di droni e altre armi turche, le forze del Gna hanno riconquistato tutto l’ovest della Libia, fino al confine della Cirenaica, patria di Haftar. Solo da mercoledì, inoltre, le forze di Tripoli hanno annunciato di aver ripreso il controllo dell’aeroporto internazionale di Tripoli, che pure era chiuso dal 2014, e di Tarhouna, ultimo avamposto di Haftar nell’ovest, obbligando Haftar anche a un parziale riconoscimento dei rovesci militari con il “riposizionamento a 60 km da Tripoli” dichiarato dal suo portavoce, Ahmad al-Mismari.

Le forze dello Gna hanno deciso di sfruttare questo slancio, annunciando la “Operazione percorsi di vittoria” e intimando a “anziani e notabili” di Sirte di “risparmiare alla città gli orrori della guerra”. “L’aeronautica – ha dichiarato il portavoce del Gna, Mohamad Gnounou – ha lanciato cinque raid aerei alla periferia di Sirte, bersagliando i veicoli armati e i mercenari. E, secondo le prime notizie dei media libici, l’operazione aveva avuto successo. Almeno fino a quando il portavoce di Haftar, nella serata di sabato, ha annunciato una controffensiva e combattimenti in corso. “Alle nostre forze è stato ordinato di avanzare, attaccando sistematicamente tutte le posizioni dei ribelli”, ha spiegato Gnounou su Facebook, aggiungendo, se mai ce ne fosse stato bisogno: ““Non abbiamo iniziato noi la guerra, ma la finiremo”. La Turchia, con il portavoce del ministero degli Esteri, Hami Aksoy, dice che continuerà a sostenere al-Sarraj  “nel rispetto delle risoluzioni Onu”, che però sono esattamente le stesse a cui fa riferimento la proposta di al- Sisi.  

Sirte, battaglia finale

In città si combatte ancora, le milizie di Haftar hanno annunciato un contrattacco e faranno arrivare rinforzi dalla Cirenaica. Sirte è una città importante, è il capoluogo della Sirtica, della regione che abbraccia anche la “mezzaluna petrolifera”, l’area dei pozzi dell’Est. Prima di attaccare, da Tripoli i portavoce dell’esercito avevano lanciato nuovi ultimatum: “Non avremo nessuna pietà e distruggeremo qualsiasi obiettivo che possa rappresentare una minaccia per la Libia”.

Dopo Sirte, città natale di Muammar Gheddafi a 450 km a est di Tripoli, conquistata dalle milizie di Haftar lo scorso gennaio quasi senza colpo ferire alla milizia di Misurata che l’occupava dopo avervi cacciato a caro prezzo i jihadisti dell’Isis nel 2016, si spalancherebbe per le forze di al-Sarraj l’accesso ai campi e ai terminali petroliferi. E alla Cirenaica, il cuore del potere del generale alleato di Mosca e del Cairo.

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Quasi in contemporanea con i bellicosi proclami di Tripoli, il presidente egiziano al-Sisi, con accanto Haftar, annunciava ieri al mondo in conferenza stampa la proposta di un cessate-il-fuoco in tutta la Libia, prontamente accettata dallo stesso Haftar. La Dichiarazione del Cairo riconosce “tutti gli sforzi internazionali per risolvere la crisi libica nel quadro politico” e stabilisce un cessate-il-fuoco a partire dalle ore 6 di lunedì 8 giugno, lo smantellamento delle milizie e la consegna delle loro armi all’Esercito nazionale libico e l’espulsione dei mercenari stranieri, sulla base di quanto stabilito dal vertice di Berlino di gennaio e dalla commissione militare congiunta del 5 + 5 sotto l’egida dell’Onu. Iniziativa potenzialmente risolutiva, ma fuori tempo massimo.

Il Governo di Tripoli continua a considerare rilevanti solo le proposte di cessate il fuoco sostenute direttamente dall’Onu. La proposta egiziana prevede la creazione di un piccolo consiglio presidenziale a Tripoli che riformi l’esecutivo guidato da Sarraj con componenti provenienti da tutte le aree del Paese. L’obiettivo ufficiale sarebbe quello di tener unita la Libia: diversi diplomatici europei e nordafricani temono che l’esito del confronto militare sia la creazione di due diversi Paesi, uno a Ovest sostenuto dalla Turchia, l’altro a Est appoggiato dalla Russia.

Buoni ultimi

Dopo il gradimento per l’iniziativa egiziana espresso da Stati Uniti, Francia e Grecia, l’Italia ha fatto sapere di aver “accolto con attenzione l’accordo annunciato ieri”. “L’Italia – si legge in una nota della Farnesina – ha sempre sostenuto ogni iniziativa che, se accettata dalle parti e collocata nel quadro del processo di Berlino, possa favorire una soluzione politica della crisi libica. A questo fine, auspica che tutte le parti si impegnino in buona fede e con spirito costruttivo nella ripresa dei negoziati 5+5 per la definizione, sotto la guida delle Nazioni Unite, di un cessate-il-fuoco duraturo”.

Il Sultano dà le carte

Il colloquio recente tra Erdogan e Sarraj dimostra la linearità e la coerenza politico-strategica di Ankara che ha non solo lo scopo di avere un ruolo di primo piano nella ricostruzione libica, ma soprattutto intende porre in essere le operazioni di esplorazione e perforazione nel Mediterraneo orientale oggetto di una disputa durissima con Cipro e la Grecia sotto il profilo giuridico e diplomatico.

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Non a caso il Gna ha dato il via libera alla Turkish Petroleum Company (Tpao) di effettuare prospezioni petrolifere nella propria zona economica esclusiva. Proprio a tale scopo non solo la Turchia ha rafforzato la propria proiezione di potenza sotto il profilo della Marina militare ma ha rafforzato altresì il suo dispositivo militare in stretta collaborazione con il Qatar.

Sul fronte opposto, Il Cairo continua a ribadire che non permetterà in alcun modo che il confine libico diventi una minaccia e condanna le interferenze turche in Libia, pretendendo il rispetto dell’embargo contro le forniture di armi. L’Egitto non vuole un accordo che riconosca il protettorato turco sulla Tripolitania.

Il Cairo in queste ore preme su Europa e Nazioni Unite affinché convincano Erdogan a ritirare le sue truppe e favorire un percorso di pace. Il Cairo ha più volte sottolineato, a gran voce, che considera la presenza di forze straniere in Libia “una minaccia per la propria sicurezza nazionale” e da mesi ha dispiegato parte del suo vasto apparato militare lungo i propri confini occidentali

Quanto all’Italia, siamo alla canna del gas diplomatica.

Esteri Luigi Di Maio continua a ripetere come un mantra che “non esistono soluzioni militari”, quando in Libia a dettar legge sono solo le armi, affonda nel ridicolo la missione navale europea Irini, della quale il titolare della Farnesina si fa vanto.  

Che quella missione fosse sin dall’inizio un buco nell’acqua, Globalist lo ha documentato con più articoli e con il supporto dei più autorevoli analisti militari.
Ora, anche se alla missione denominata Irini hanno aderito circa 20 paesi dell’Unione europea supportati anche dal Centro satellitare dell’Ue, concretamente il monitoraggio si rivela puramente illusorio come dimostra il fatto che nel porto di Misurata è arrivata una nave proveniente da Istanbul con un carico di carri armati M-60 in dotazione dell’esercito turco. Carri armati che naturalmente diventeranno indispensabili per condurre una offensiva di terra da parte del Gna in stretto coordinamento sia con i consiglieri militari turchi che con i mercenari siriani.

Tregue annunciate e puntualmente violate. Cessate-il-fuoco che durano il tempo di una conferenza stampa. L’unica certezza è che la “Grande spartizione” della Libia è ormai una partita a tre. E a decidere chi avrà la fetta più grossa (territori, pozzi petroliferi, ricostruzione) saranno le armi.

 

 

 

 

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