La Somalia nel cerchio dei pirati
Top

La Somalia nel cerchio dei pirati

Diminuiscono i sequestri di navi, ma non gli attacchi: meno soldi per le bande organizzate, ma rimane alta la spesa per sicurezza privata e missioni internazionali. [S. Lucaroni]

La Somalia nel cerchio dei pirati
Preroll

Desk2 Modifica articolo

14 Maggio 2014 - 16.03


ATF
di Sara Lucaroni

Isee Yulux, Qeybdiid, Saeed Aargosto, Garfanje, Suxufi, Dhooli. Tra loro c’era anche Mohammed Abdi Hassan, noto come Afweyneh, “bocca larga”, arrestato in Belgio nell’ottobre scorso. I signori della pirateria somala, le loro bande e i clan che li appoggiano sono vivi e forti, nonostante nel 2013, secondo l’ultimo rapporto del Bureau Maritime International, solo 15 dei 237 attacchi totali di pirati siano avvenuti sulle coste somale. Erano 75 quelli registrati nel 2012 e 237 nel 2011. Un calo che ha diminuito i loro introiti e mostrato sia l’efficacia delle missioni internazionali di Nato ed Ue per la sicurezza marittima, “Ocean Shield” ed “EU-NAVFOR Somalia-Operazione Atalanta”, che l’impiego della sicurezza privata a bordo delle navi, oltre all’autorizzazione da parte di alcuni governi dell’impiego di personale militare a bordo di navi civili, come nel caso dell’Italia, unica in Europa, con i Fucilieri di Marina della Brigata San Marco.

Ma proprio le misure per la difesa di cargo, petroliere e pescherecci tengono altissimo l’impatto economico del fenomeno pirateria. Benché dimezzato rispetto all’anno precedente, nel 2013 è stato di 3,2 miliardi di dollari, e le finanze dei leader pirati si mantengono vive attraverso nuovi business.

“Non sono diminuiti gli attacchi, ma i sequestri di navi e rapimento degli equipaggi. In più, le statistiche non tengono contro dei casi in cui gli equipaggi di mercantili e petroliere non denunciano gli assalti quando questi vengono respinti o falliscono”, dice Donald Brownrigg, fondatore dell’agenzia “Blue Border Holdings”, ex militare in forza sulla flotta navale maltese, capo delle operazioni per una delle principali compagnie di sicurezza privata internazionali e profondo conoscitore della realtà somala. “Il capitano della nave e il team di sicurezza a bordo sono riluttanti nel fare un rapporto all’armatore, alle forze di sicurezza internazionali e alle autorità perché questo tarderebbe la consegna del carico. So che accade, e il fenomeno pirateria resta difficile da risolvere ”-dice, precisando quali siano le differenze tra una squadra di professionisti che possiede patenti e certificazioni internazionali e una lunga preparazione militare per questa svolgere attività, e chi invece arma persone non idonee o poco formate, come avviene da alcuni anni anche in Italia.

Instabilità politica

La pirateria è sempre più strutturata ed è entrata nel tessuto economico del paese, alimentando filoni collaterali più o meno leciti anche su scala globale, proprio grazie all’enorme quantità di denaro ricavata dai riscatti. Uomini d’affari somali, da Paesi come Emirati Arabi e anche Europa, amministrano i ricavi delle attività, mentre i paesi dell’ex blocco sovietico forniscono armi ed equipaggiamenti. La manodopera è reclutata nei villaggi, grazie alle tribù e ai clan locali. Al momento i leader pirati operano su vari fronti: Yulux e Saeed Aargosto gestiscono tutte le attività legate alla pesca e il traffico di armi e uomini da e per lo Yemen. Qeybdiid è in politica, ed è un sostenitore e alleato del governatore del Galmudugh. Garfanje e Suxufi fanno affari con i sequestri e i rapimenti, anche “di terra”, posti di blocco illegali e rapine: il primo trattiene ancora parte dell’equipaggio del mercantile Albedo, sequestrato nel 2010, il secondo il giornalista Michael Scott More, catturato e venduto ai pirati nel 2012. Altri, come Dhooli e Diriye, lavorando direttamente con i terroristi di Al Shabaab, recentemente indeboliti dall’offensiva di Amisom, la Missione dell’Unione Africana in Somalia, e dunque bisognosi di armi, uomini e denaro.

Leggi anche:  Ciad al voto: il favorito generale-presidente Déby guarda a Putin

Il territorio è frammentato: grandi regioni dichiaratesi gradualmente indipendenti a partire dal ‘91, anno della caduta del regime di Siad Barré, si contrappongono ad un governo centrale pressoché inesistente, il Governo Federale di Transizione, unica entità politica riconosciuta dalla comunità internazionale, che controlla l’area di Mogadiscio. Intorno c’è Somaliland, Khatumo, Galmudugh, e il Puntland, covo storico della pirateria: “La regione ha i suoi servizi segreti, ed è indirettamente sostenuta da Europa e Stati Uniti. Il governo sostiene la pirateria, che gestisce le attività legate della pesca. Hanno creato col tempo un nuovo racket: imposizione di squadre armate anti-pirata, diciamo squadre contro loro stessi, alle compagnie e ai pescherecci di Yemen e Oman. Questi, per pescare o transitare, devono ottenere i permessi delle stesse autorità somale e quindi sono costretti a pagare gli stessi pirati per operare in aree “pericolose” come quelle del Bangladesh. Come dire, tanto ti assaltano, meglio pagare direttamente”.

Attraverso la gestione di questo mercato, vengono traghettate armi e persone verso porti come quello di Xabo, a nord, ma anche quelli ad est e a sud: Garad, Hobyo e Harardhere. Ma c’è di più. “A gennaio di quest’anno una nave spagnola è stata assaltata, a bordo c’era una squadra di questi addetti alla sicurezza attrezzati dagli stessi capi pirati”, spiega Brownrigg. “Si sono verificati casi in cui più navi sono passate in aree nel golfo in cui, disposte a quadrilatero, si trovavano imbarcazioni pirata. La prima è passata senza essere toccata, lo stesso la seconda, ma non la terza che, nonostante avesse a bordo la squadra di sicurezza, è stata attaccata. Chi da loro informazioni? L’intelligence ci dice che molti somali che vivono in paesi occidentali avrebbero il compito di trasmettere informazioni al loro paese”.

Leggi anche:  Ciad al voto: il favorito generale-presidente Déby guarda a Putin
Pirate economy

L’instabilità politica della Somalia è lontana da una soluzione. La rete criminale che alimenta la pirateria nasce dall’assenza di un potere centrale, dallo sfruttamento economico delle risorse locali da parte di soggetti esterni, dalla diffusione del radicalismo islamico, dal potere dei clan, come Darod e Hawiye, impegnati nel controllo del territorio e la gestione della vita sociale, politica e religiosa di città e villaggi devastati dalla guerra civile, presso i quali viene ridistribuita una piccola parte dei ricavi delle attività di pirateria. Secondo una delle ultime indagini sui numeri della pirate economy, 376 milioni di dollari è la cifra ricavata dalla riscossione dei riscatti tra l’inizio del 2005 e la fine del 2012.

In genere, il 30- 75 % dei guadagni viene reinvestito per finanziare nuove operazioni, riciclato attraverso speculazioni immobiliari e la realizzazione di servizi e infrastrutture, e in altre attività attraverso appoggi al di fuori del paese. Il 10 % va in logistica e forniture, il 5% ai negoziatori e solo il 2% ai singoli pirati. Questi guadagnano di più a seconda dei compiti e della preparazione, se utilizzano armi proprie ad esempio o salgono per primi a bordo della nave assaltata. Sono 954 i milioni di dollari spesi per la sola sicurezza privata nel 2012, contro i 531 nel 2011, dunque più di quanto abbiano ricavato i pirati in 7 anni dalla riscossione delle taglie per navi ed equipaggi sequestrati. “Si preferisce attrezzare le navi con una squadra di sicurezza, i costi economici ed umani in caso di rapimento sono molto più gravosi- dice Brownrigg. Avere un equipaggio bloccato per 8, 9 mesi in Somalia o Nigeria…è un’esperienza che molti hanno vissuto e che si rivela difficile per tutti e complicatissima…meglio pagare la sicurezza”.

Leggi anche:  Ciad al voto: il favorito generale-presidente Déby guarda a Putin

Nigeria, il nuovo fronte

L’ultimo attacco pirata è avvenuto il 23 aprile, nel golfo tra Malesia e Indonesia. In 6, a bordo di un motoscafo, hanno assaltato la petroliera giapponese Naninwa Maru, trasferito circa la metà del carico di gasolio su alcune navi cisterna e preso in ostaggio tre marinai indonesiani. Gli attacchi in India e Bangladesh sono considerati di basso profilo, poco organizzati e perpetrati da singoli gruppi di rapinatori.

Lo stretto di Malacca è una delle più importanti rotte commerciali tra Europa ed Africa all’Asia, strategico quanto il golfo di Guinea per l’Africa occidentale, via d’acqua per il trasporto petrolifero di paesi come la Nigeria. In quest’area dal 2006 al 2013 gli attacchi sono passati da 12 a 51, di cui 31 messi a segno proprio da uomini armati e pirati di nazionalità nigeriana, avventuratisi anche al largo di Gabon, Costa d’Avorio e Togo. Spesso agiscono sotto uso di stupefacenti, sono pronti a morire sul ponte o a fare esecuzioni pur di catturare la nave: entrano in azione di notte con strumentazioni ad infrarosso, utilizzano il coprifuoco (alcuni sparano verso la nave per coprire i compagni) e tecniche di combattimento corpo a corpo di altissimo livello.

“Le compagnie di sicurezza ottengono l’autorizzazione per operare nell’area con grandi difficoltà e solo affiancando ad un proprio team leader una squadra di uomini che in genere proviene dalla Marina nigeriana- spiega Brownrigg. In più, fonti ci dicono che spesso i pirati provengono dalle forze speciali nigeriane. Sono ex militari o sono ancora in servizio, lo fanno come secondo lavoro”. Il costo di Atalanta è di 15 milioni di euro, la missione è stata prorogata fino al dicembre di quest’anno.

Ma la Somalia, il golfo di Aden e l’Oceano Indiano restano aree ad altissimo rischio. Sulla costa ovest dell’Africa, la presenza di gruppi come il Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger ha da tempo innescato focolai di tensione e le azioni di pirateria potrebbero diventare fonti di sostegno economico anche per gruppi integralisti come Boko Haram, come è già avvenuto in Somalia.

Native

Articoli correlati