Ho portato con me una zolletta di terra della mia Siria
Top

Ho portato con me una zolletta di terra della mia Siria

Come vivono i civili nelle città bombardate? Qual è la situazione nei campi profughi? Ve lo raccontiamo con questo reportage realizzato da Asmae Dachan

Ho portato con me una zolletta di terra della mia Siria
Preroll

redazione Modifica articolo

20 Settembre 2013 - 12.30


ATF
Da ormai trenta mesi si sta consumando in Siria un dramma che ha causato oltre 130mila vittime, tra cui più di 10 mila bambini. L’Unicef e l’Onu hanno denunciato più volte una situazione gravissima dal punto di vista umanitario, che non ha precedenti nella storia. Come vivono i civili nelle città bombardate? Qual è la situazione nei campi profughi? Ve lo raccontiamo con questo reportage da noi realizzato a fine agosto.
di Asmae Dachan

Decidere di partire per un Paese colpito dalla guerra non è mai semplice; si è certamente spinti dalla passione professionale, che nei reporter soffoca i timori ed esalta il desiderio di conoscere certe realtà da vicino, ma in questo viaggio la motivazione è stata anche un’altra, ovvero il mio desiderio di raccontare con gli occhi di un’italo siriana il dramma dei civili colpiti dalle violenze. Con l’aiuto di alcune Ong che operano in sostegno alla popolazione civile, sono riuscita a partire e visitare campi profughi, alloggi per famiglie sfollate, centri di riabilitazione, scuole e ospedali da campo in Turchia e in Siria. Ho intervistato soprattutto donne e bambini, ma anche giovani, anziani, riuscendo a comunicare con loro direttamente grazie al fatto di essere bilingue. Ho conosciuto il loro dolore da vicino, il loro dramma, le loro paure; ho condiviso con loro la vita in un campo profughi, la mancanza di acqua corrente, le notti al buio in tende precarie, ma soprattutto l’assenza di ogni speranza, di una via d’uscita. Ho condiviso la loro incerta quotidianità, col sottofondo di spari e bombardamenti ad ogni ora del giorno e della notte. Ho incontrato persone che non hanno catene ai polsi, ma che di fatto sono prigioniere di una situazione di stallo, dove si vive alla giornata e non sembrano aprirsi spiragli di un miglioramento.

La prima tappa del viaggio si è svolta in Turchia, paese che confina con il nord della Siria e che ospita numerosi campi profughi, aperti ormai più di due anni fa, ma anche centri di riabilitazione per malati e mutilati che vengono assistiti da Ong internazionali. Sono stata nei campi nelle vicinanze della città di Reihanly, nel profondo sud, che dista dalla Siria poche decine di chilometri e che, purtroppo, è già stata colpita più volte da autobombe, che hanno seminato il panico tra i suoi abitanti e che in qualche caso hanno creato una certa forma di insofferenza verso i profughi siriani. La maggior parte delle persone, invece, considera i siriani come fratelli, visti i secoli di vicinanza geografica, culturale, storica che accomunano i due popoli, in particolare in queste zone. La situazione nei campi allestiti in Turchia è, pur nella sua complessità, piuttosto tranquilla: le persone hanno una tessera di riconoscimento, ricevono aiuti e, recentemente, sono state create alcune realtà di autogestione, per passare da una forma di assistenzialismo completa, ad una forma di sostegno che dia modo di lavorare e guadagnare qualche soldo. Si tratta di piccoli laboratori sartoriali, lavanderie, falegnamerie che nascono nei campi e danno occupazione a uomini e donne. Le tende sono suddivise per nuclei familiari e a volte si riscontra la presenza degli abitanti di un intero villaggio, che hanno subito un esodo di massa e sono stati accolti tutti insieme. Da tempo la Turchia ha chiuso le sue frontiere ai profughi, perché la situazione è al collasso, ma continua ad accogliere i civili che invece riescono a prendere case in affitto e ad essere indipendenti. I prezzi degli affitti e degli immobili, naturalmente, è triplicato nel tempo.

Dopo il primo ingresso in Siria, in cui non avevo copertura telefonica, né la possibilità di comunicare, sono tornata a Reihanly per due giorni. Era il 20 agosto. L’indomani, dalle prime luci dell’alba, dalla provincia di Damasco arrivavano immagini e notizie terribili: attacco chimico. Quel giorno avevo in programma una visita al campo profughi di Bohsin. Quando sono arrivata, dopo l’immancabile controllo al metal detector, mi fanno accomodare in una saletta d’attesa. Ho capito subito che qualcosa non andava: avevo un regolare permesso e solitamente non mi avevano mai fatto fare anticamera. L’attesa è stata breve; si è presentato il responsabile del campo, che in modo estremamente gentile si è scusato con me, dicendomi che nonostante il permesso avrebbe preferito che io non entrassi. “La maggior parte degli ospiti di questo campo arriva proprio da Al Ghouta (la località colpita dal gas sarin) e sono tutti esasperati. Cercano di mettersi in contatto con i loro familiari laggiù, ma come al solito non ci sono linee. Cerchi di capire”. Gli dico che non deve scusarsi, che capisco perfettamente la situazione. Mi accompagna all’uscita dicendomi che sarei potuta tornare nei giorni successivi, se la situazione si fosse calmata, ma l’indomani avevo in programma di tornare in Siria.

Come si entra in Siria da giornalisti? Non si passa per aeroporti, né per stazioni; si cerca di dare meno possibile nell’occhio e ci si muove accompagnati da persone che conoscono, palmo a palmo, ogni zona. Gli operatoti dell’informazione non sono ben accetti dalle autorità… L’ impatto con territorio siriano è stato forte: una delle prime realtà che incontro ha le parvenze di una città, per estensione e grandezza, ma non lo è. È il campo profughi di Atma, un’infinita distesa di tende che occupa più colline; è arrivato ad ospitare, mi raccontano, fino a 28 mila persone. È il campo più grande in territorio siriano e, a differenza dei campi in Turchia, dove gli ingressi sono regolati, è un continuo fluire di persone in fuga. Il programma non prevedeva soste in quella fase, perché avremmo dovuto proseguire velocemente e raggiungere Rif Idlib prima che facesse buio; dopo il tramonto, infatti, per ragioni di sicurezza le auto in certe zone devono procedere con i fari spenti. Chiedo comunque se ci possiamo fermare; scatto qualche foto da lontano, poi più da vicino, fino all’ingresso del campo. Arriviamo a Idlib e raggiungo un campo profughi dove ho l’autorizzazione di riprendere, fare interviste e persino pernottare. Quella di dormire in una tenda e passare giornate intere nei campi è stata una mia richiesta specifica, per provare sulla mia pelle e poi raccontare cosa significhi veramente vivere in quelle condizioni.

Le persone che ho incontrato mi hanno accolta con grande gentilezza e dopo l’iniziale esitazione dovuta ai loro timori sull’arrivo di una giornalista italiana, visto che nessuno di loro parla questa lingua, hanno provato sollievo quando mi hanno sentita parlare come loro, l’arabo della Siria. In ogni tenda ho trovato un dramma, una ferita, un lutto portato con dignità e silenzio; mi hanno raccontato di aver già incontrato giornalisti stranieri, ma mai una giornalista donna di origine siriana proveniente dall’estero. Ho avuto l’ennesima conferma dell’importanza di fare da ponte tra culture, per chi, come me, nasce in Italia da genitori stranieri. Tra un’intervista e l’altra anche io venivo “interrogata” e rispondevo alle loro domande. Mi hanno chiesto della città dove vivo e ho raccontato loro di Ancona, descrivendola come una delle rare città continentali dove il sole sorge e tramonta in mare. Mi hanno detto che vorrebbero visitarla un giorno. Già, un giorno, un domani… mi sono chiesta in ogni istante come facciano quelle persone a convivere con il loro dolore, con quella situazione di precarietà così grave, soprattutto per i loro figli, col timore di non poter pronunciare per loro la parola domani.

Ho incontrato migliaia di bambini e con alcuni mi sono pure seduta a parlare. Io cercavo loro e loro cercavano me: volevo ascoltare i racconti di questi innocenti che stanno pagando il prezzo più alto di una situazione assurda che si protrae da oltre due anni e loro erano incuriositi dalla mia fotocamera, dal mio quaderno con gli appunti e dalle frasi che dicevo in italiano mentre facevo riprese video. I bombardamenti, le violenze, le rappresaglie, l’assedio hanno rubato la spensieratezza, l’ingenuità, la loro stessa infanzia: sono piccoli uomini e piccole donne cresciuti prima del tempo, che hanno già conosciuto la paura, il dolore, il lutto, la sofferenza, le umiliazioni. Ogni volta che un bambino o una bambina mi ha raccontato la sua storia, ho provato una profonda mortificazione come adulta: cosa stiamo facendo per il presente e il futuro di questi bimbi? Siamo davvero incapaci di garantire loro una vita dignitosa, in pace e sicurezza? Anche il più piccolo può raccontare la scena di un bombardamento, il rumore degli aerei sopra le città, gli spari dei cecchini, può descrivere l’orrore di vedere corpi smembrati, sangue, macerie.

Di macerie, nella seconda fase del viaggio, quella che mi ha portato nella millenaria città di Aleppo, che è anche la città delle mie origini, che ho visitato in questa occasione per la prima volta, ne ho viste a non finire: case, palazzi, moschee, chiese, negozi, scuole, ospedali. In una delle vie centrali, quella che porta all’antico suq, il celeberrimo mercato dai mille colori e profumi, si alternavano rovine romane, che parlano del prestigio e della storia di questi siti, con le macerie di oggi, quelle provocate dai bombardamenti indiscriminati. Una delle prime scene che ho visto di giorno ad Aleppo è stata l’estrazione del corpo di una donna dalle macerie del palazzo in cui viveva, che era stato bombardato una settimana prima. Si scava a mano e all’appello mancano ancora sei persone, tra cui un bimbo di tre anni.

Ho portato con me in Italia una zolletta di terra, per aver qualcosa del mio paese d’origine, ma ho portato soprattutto le storie di tante persone, che nonostante tutto non si arrendono alla logica della violenza, che sognano di tornare nelle loro case, di ricostruire una Siria senza più violenze e soprusi. Ho portato con me la passione e l’impegno dei tanti volontari che si adoperano per aiutare i più deboli, dai medici degli ospedali da campo, che non ricevono uno stipendio e fanno turni lunghissimi, alle maestre nei campi profughi, che cercano di trasmettere un po’ di cultura a bambini che, per il terzo anno consecutivo, non andranno a scuola. Ho portato il desiderio di riprendere una vita “normale”, in cui studiare, sposarsi, lavorare, abbandonando le armi che molti non avrebbero mai voluto imbracciare. Ho portato con me la voce della Siria, quella sussurrata e struggente dei genitori che hanno dovuto tumulare i propri figli, degli orfani che sono rimasti soli, delle vedove che hanno seppellito il loro cuore.

[GotoHome_Torna alla Home]

Native

Articoli correlati