La tutela della dignità umana delle persone private della libertà personale: il compito delle Università
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La tutela della dignità umana delle persone private della libertà personale: il compito delle Università

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, approvata e proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, si impone come «ideale da raggiungere per tutti i popoli»,

La tutela della dignità umana delle persone private della libertà personale: il compito delle Università
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10 Dicembre 2023 - 16.18


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Pubblichiamo qui di seguito il testo della relazione della Dott.ssa Claudia Atzeni alla Tavola rotonda dal titolo I diritti umani: una sfida ancora aperta? Tra violazioni, discriminazioni, tutele, promossa dal CRID – Centro di Ricerca Interdipartimentale su Discriminazioni e vulnerabilità di (www.crid.unimore.it) il 5 dicembre 2023 presso il Dip. di Giurisprudenza dell’Univ. di Modena e Reggio Emilia – Unimore.

di Claudia Atzeni*

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, approvata e proclamata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, si impone come «ideale da raggiungere per tutti i popoli», chiarendo che i diritti umani sono inalienabili, indivisibili e universali.

Questo ci fa comprendere quanto necessario sia interpretarne le disposizioni in senso evolutivo, immaginando come inclusi nel catalogo dei destinatari dei diritti in essa sanciti tutti e tutte coloro che sono soggette a condizioni o a situazioni di vulnerabilità, pur non essendo espressamente menzionati dalla Dichiarazione. 

Fra tali soggettività rientrano, senza dubbio, le persone detenute o private della libertà personale.

All’interno della Dichiarazione vi sono delle disposizioni che tutelano specificamente coloro che si trovino, potenzialmente o concretamente, in circostanze che possano autorizzarne una limitazione della libertà personale. Così, ad esempio, l’articolo 9 vieta la detenzione, l’arresto o l’esilio arbitrario ai danni di ciascun individuo; l’articolo 10 universalizza il principio dell’habeas corpus; l’articolo 11 cristallizza tanto il principio di colpevolezza quanto le garanzie processuali del giusto processo e i connessi diritti ad una giustizia equa.

D’altra parte, proprio in ragione dell’universalità cui aspira, ciascuna disposizione della Dichiarazione contempla forme di tutela che spettano alla persona in quanto tale; dunque, anche a coloro che si trovino in condizioni di libertà limitata, ovviamente nella misura in cui l’esercizio dei diritti ad esse connesso non contrasti con le esigenze legate alla limitazione della libertà personale o alla detenzione, che di tale limitazione costituisce la massima espressione.

La posizione della persona ristretta è, infatti, abbastanza peculiare, in ragione del fatto che in essa si interseca un duplice piano di protezione giuridica: da un lato, quella che le deriva immediatamente dal proprio status, inevitabilmente agganciato all’esecuzione della pena. Lo stato detentivo impone alle nostre democrazie costituzionali di assicurare un «nucleo di garanzie minime non sopprimibili, se si vuole evitare che le pene degradino a trattamenti contrari al senso di umanità» (R. Travia, Diritti umani e carcere, in “Ratio Iuris”, 4 aprile 2018, https://www.ratioiuris.it/diritti-umani-e-carcere/); al contempo, non dobbiamo mai cessare di guardare alla persona detenuta come individuo in quanto tale, e dunque come meritevole  di protezione giuridica rispetto alla totalità dei diritti garantiti alle persone libere, quali il diritto alla salute, il diritto all’integrità psicofisica, il diritto all’istruzione – su cui si tornerà a breve – di tutti quei diritti, insomma, il cui riconoscimento continua ad essere imprescindibile per il rispetto della dignità delle persone soggette a detenzione (S. Anastasia, Le tre vulnerabilità delle persone detenute, in M.G. Bernardini, V. Lorubbio [a cura di], Diritti umani e condizioni di vulnerabilità, Erickson, 2023, pp. 171-186).

Spesso invece le cronache, i linguaggi giornalistici e talvolta anche la letteratura ci inducono a credere che l’aver commesso un crimine basti a degradare la persona a mero reo: è questo un ambito in cui rilevano tanto la diffusione progressiva del cosiddetto fenomeno del “populismo penale” – di cui molto si stanno occupando autorevoli studiosi e studiose, tra cui Luigi Ferrajoli – quanto il ricorso ad un certo tipo di linguaggio. Soprattutto in merito a tale ultimo aspetto, è necessario che la costruzione del linguaggio sia declinata in un senso che ci riporti alla mente il fatto che la detenzione rappresenta una condizione che non sostituisce mai l’essenza dell’individuo, indipendentemente dal reato commesso. Ecco perché è importante parlare di “persone detenute”, utilizzando il termine “detenuto/a” in funzione di aggettivo e non di sostantivo.

Per tornare al diritto all’istruzione, esso rappresenta un elemento irrinunciabile nella vita degli individui: i percorsi d’istruzione rivestono un ruolo cruciale nel perseguimento degli interessi di studio e formazione che anche le persone ristrette devono poter coltivare.

Garantire l’accesso all’istruzione in carcere non rappresenta soltanto il riconoscimento di un diritto fondamentale che risponde al fine precipuo del principio di legalità costituzionale in materia penale, ossia la rieducazione della persona condannata e il reinserimento in società della stessa una volta scontata la pena. Assicurare alle persone recluse il concreto esercizio del diritto allo studio può rappresentare, infatti, uno strumento molto importante anche per le persone sottoposte alla misura dell’ergastolo ostativo (rispetto alla cui disciplina – può giovare ricordarlo – la Corte Europea dei Diritti Umani ha sostenuto – nella Sentenza Viola c. Italia – essere lesiva dell’art. 3 della Convenzione EDU, equiparandola ad un vero e proprio «trattamento inumano e degradante»).

I percorsi di studio contribuiscono al miglioramento dell’autopercezione delle capacità di tutti e tutte noi, dunque anche delle persone detenute: offrendo opportunità di apprendimento, si fornisce alle persone recluse la possibilità di sviluppare competenze, conoscenze e abilità che possono fornire loro uno spazio di libertà e strumenti di comprensione dell’esistente.

Questo vale anche per l’istruzione universitaria. Mi permetto di testimoniarlo, nel mio piccolo, in quanto membro della Commissione di Terza missione del Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia dell’Università Magna Graecia di Catanzaro (UMG) e Tutor scientifico per il Polo Universitario Penitenziario (PUP) di Catanzaro.

L’Università Magna Graecia di Catanzaro, in collaborazione con la Casa circondariale Ugo Caridi di Catanzaro, costituisce dal 2017 un Polo Universitario Penitenziario e fa parte dal 2018 della CNUPP – Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari (proprio pochi giorni fa ho potuto partecipare, in quanto collaboratrice del Prof. Charlie Barnao, Delegato del Rettore dell’Università di Catanzaro, all’Assemblea nazionale della CNUPP, tenutasi presso l’Università di Firenze).

Nel periodo compreso tra il 2017 e il 2023, il PUP di Catanzaro si è occupato complessivamente della formazione di 65 studenti detenuti. Oggi risultano iscritti ai corsi di laurea del Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia (DiGES) 25 studenti detenuti preso la Casa Circondariale di Catanzaro, di cui quindici afferenti al circuito di Alta Sicurezza e dieci di Media Sicurezza. 

L’UMG è il primo ateneo in Italia ad avere istituito formalmente la figura di studente detenuto che diventa tutor: il cosiddetto tutor pari interno. Si tratta di un traguardo particolarmente significativo, anche per le potenzialità che tale ruolo riveste nel percorso di apprendimento universitario, nonché in quello rieducativo.

Le attività del nostro PUP rientrano in tutte e tre le missioni dell’Università. Sono molteplici, infatti, le iniziative – lezioni universitarie, seminari, presentazioni di libri, presentazioni di ricerche – organizzate all’interno della Casa Circondariale di Catanzaro e che hanno avuto l’obiettivo di coinvolgere attivamente non solo direttamente gli studenti universitari detenuti, ma anche le altre categorie sociali legate all’istituzione penitenziaria (educatori ed educatrici, agenti penitenziari), diventando così, al contempo, attività culturali e di divulgazione scientifica di pubblica utilità. Ciò ha contribuito a far sì che le attività didattiche all’interno del carcere coinvolgessero anche le persone detenute non studenti e che si avviasse un confronto tra Università, Casa circondariale e territorio.

A partire dall’anno accademico 2021/2022 è stato attivato un Laboratorio di ricerca autoetnografica, nato originariamente nell’ambito della missione didattica e trasformatosi nel tempo in un vero e proprio gruppo di ricerca scientifica sulla realtà carceraria. Il laboratorio, che vede oggi la partecipazione di circa quindici studenti detenuti e tre docenti del DiGES, si svolge settimanalmente, in presenza, presso i locali della Casa circondariale. Nell’ambito delle attività laboratoriali sono stati prodotti due importanti risultati: due studenti detenuti nel circuito di Alta sicurezza, entrambi laureati in Sociologia presso la nostra Università, hanno compiuto delle autoetnografie dei loro percorsi criminali e detentivi nell’ambito delle loro tesi di laurea. Il primo lavoro è stato pubblicato dalla casa editrice calabrese Rubbettino nella collana scientifica Autoethnographia: si tratta del libro di Salvatore Curatolo, Ergastolo ostativo. Percorsi e strategie di sopravvivenza, pubblicato nel 2022. Il secondo elaborato è in corso di pubblicazione.

Per concludere, si tratta di attività replicabili, pur scontrandosi con le difficoltà che affliggono il sistema carcerario e che si abbattono sulle possibilità concrete di esercizio del diritto allo studio delle persone ristrette. Ecco perché è assolutamente auspicabile che le Università assumano il compito di condurre anche nelle strutture carcerarie le proprie missioni, affiancando didatticamente le persone che intendano intraprendere un percorso di studi universitario, contribuendo alla discussione attorno alle criticità strutturali del carcere e alle vulnerabilità delle persone detenute, ma anche facendosi capofila nella adozione di “buone pratiche” che rinsaldino teoria e prassi.

  • Assegnista di ricerca in Filosofia del diritto e Sociologia generale. Università Magna Graecia di Catanzaro
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