Il caso Zen e la difficile diplomazia tra il Vaticano e la Cina di Xi Jinping
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Il caso Zen e la difficile diplomazia tra il Vaticano e la Cina di Xi Jinping

La Chiesa in Cina è stata divisa tra Chiesa patriottica fedele a Pechino e Chiesa sotterranea o clandestina, quella fedele a Roma

Il caso Zen e la difficile diplomazia tra il Vaticano e la Cina di Xi Jinping
I rapporti tra la Chiesa cattolica e la Cina
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26 Novembre 2022 - 21.35


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Dopo averlo arrestato e poi trasferito agli arresti domiciliari, il regime di Pechino ha condannato il novantenne cardinale Zen – residente ad Hong Kong- e i soci con i quali aveva dato vita ad un’associazione. Lui come gli altri imputati è stato condannare a pagare una multa. Per valutare appieno l’accaduto dobbiamo partire però dal complesso rapporto tra Repubblica Popolare Cinese e Chiesa cattolica. 

Nell’epoca recente la Chiesa in Cina è stata divisa tra Chiesa patriottica e Chiesa sotterranea o clandestina, quella fedele a Roma. Cosa vuol dire? Vuol dire che il regime pretendeva che la Chiesa fosse “patriottica” e quindi fedele al regime, che si arrogava il diritto di nominare i vescovi e perseguitare o arrestare gli altri. 

Tutte le Chiese nazionali, come la Chiesa italiana o quella messicana, sono “patriottiche”, cioè fedeli al Paese e al suo interesse nazionale, ma non per questo fedeli al governo in carica o al regime lì sussistente. Questo dato di fatto in Cina però ha una storia particolare e complessa per la storia coloniale dell’Occidente e del comportamento di molti missionari, legati alle potenze coloniali. Un’importante controtendenza ha sempre avuto come proprio simbolo il missionario gesuita Matteo Ricci, giunto a Pechino nel 1601. Lui si fece cinese, imparandone non solo la lingua ma entrando nella cultura cinese. E quattrocento anni dopo il suo arrivo a Pechino, nel 2001, in occasione di una solenne Celebrazione a Roma, papa Giovanni Paolo II disse: “ i neofiti cinesi, abbracciando il Cristianesimo, non avrebbero dovuto in alcun modo rinunciare alla lealtà nei confronti del loro paese: in secondo luogo, la rivelazione cristiana sul mistero di Dio non distruggeva assolutamente, ma al contrario valorizzava e completava, ciò che di buono e di bello, di giusto e di santo, aveva risentito e trasmesso l’antica tradizione cinese […] L’azione dei membri della Chiesa in Cina non è stata sempre esente da errori”.

La lealtà di cui parlò Giovanni Paolo II è molto simile a un patriottismo sano, non inteso come adesione acritica alle politiche governative. Ma una corretta interpretazione di questa distinzione tra Chiesa leale e Chiesa prona al potere ha richiesto molto tempo ad essere acquisita anche in Europa. Basti ricordare il concordato napoleonico, nel quale si rinunciava alla scristianizzazione della Francia ma si lasciava al papa solo la forma canonica della nomina dei vescovi, la cui selezione e scelta reale rimaneva in mano a Napoleone. 

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Questo è quello che dai tempi del convegno su Matteo Ricci la Chiesa cerca di superare anche in Cina: i vescovi sono fedeli al papa, non all’imperatore, che in Cina si è sempre fatto chiamare “il figlio del cielo”, che oggi si chiama segretario del Pcc, successore dell’imperatore. 

L’accordo provvisorio e segreto tra Santa Sede e Pechino mira a questo. Non a stabilire relazioni diplomatiche tra i due Stati, ma un criterio di nomina dei vescovi. Il senso di un accordo del genere è gigantesco per la Chiesa, che avrebbe vescovi non funzionari di partito in Cina e presenti in tutte le diocesi, e per la Cina, dove il partito per la prima volta nella sua storia riconoscerebbe e ammetterebbe una forma di pluralismo: il potere non sarebbe tutto, politico e spirituale, nelle mani dell’imperatore-segretario, il papa da Roma avrebbe potere in Cina, con la nomina dei suoi vescovi. Ma questi non dovrebbero essere sentiti come “agenti di potenze straniere”, e per questo, vista la storia non solo antica, alcune fasi di avvicinamento a una formula di piena autonomia ecclesiale possono capirsi. E’ questo che l’accordo provvisorio persegue. 

Questa spiegazione era decisiva per capire il “caso Zen”. Lui non deve certo essere nominato vescovo, essendo già cardinale, ma il suo caso giudiziario è esplicito, evidente. Zen è un avversario del regime cinese, dichiarato ed anche un critico dell’accordo provvisorio. Quando la Cina ha di fatto cancellato l’autonomia legislativa di Hong Kong ha imposto la sua visione assolutista del potere. Addio formula “un paese, due sistemi”: il sistema è unico in Cina e ad Hong Kong. La legge fondamentale di Hong Kong è stata così modificata profondamente, sottoponendola all’autorità e al sistema di Pechino. Tra le varie nuove regole introdotte si è introdotta anche quella che ogni associazione andava registrata, salvo quelle religiose. Il cardinale Zen, con altri, ha dato vita ad un’associazione per sostenere il movimento di protesta di Hong Kong. E per questo è stato arrestato e poi, dagli arresti domiciliari, processato. Ora viene multato. Si potrebbe dire che Pechino c’è andata con il guanto di velluto: essere arrestati per un reato che comporta una multa (tipo passare col rosso) non sembra molto logico. E infatti non è così. Tra i capi di imputazione contro il cardinale Zen c’era infatti anche quello di aver agito in accordo con potenze straniere, ostili. E per questo rischiava l’ergastolo. Ma il fatto che sia arrivata solo una multa non deve far pensare a uno scampato pericolo. Il regime ha infatti chiuso il processo sul dato materiale, la costituzione dell’associazione, non le indagini sul concorso con potenze straniere. Dunque la minaccia di ergastolo pende ancora. 

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Nella Cina di Xi, sempre più simile a quella di Mao, proprio questa appare la novità. Se la Santa Sede avesse dato l’impressione a Pechino di voler agire in pieno accordo con l’Occidente, contro Pechino, forse l’esito processuale sarebbe stato diverso. L’idea invece che a San Pietro non sieda il cappellano della Nato o dell’Occidente potrebbe essersi manifestata come possibile anche agli occhi dei funzionari del nuovo Mao, Mister Xi. Se così fosse si potrebbe dire che la scelta di rinnovare l’accordo provvisorio, cioè di seguitare a cercare un’intesa sui poteri di Roma e Pechino sui vescovi cinesi, produrrebbe risultati positivi, un briciolo di pluralismo sembrerebbe ammissibile anche a Pechino, entro ristrettissimi limiti. In un momento come questo, nel quale il predecessore di Xi viene arrestato sul palco del congresso del PCC, proprio per dimostrare l’assolutezza del potere del “figlio del cielo”, non credo si possa dire che la scelta del Vaticano, impostata da Giovanni Paolo II, perseguita da Benedetto xvi e finalmente giunta a qualche esito con Francesco, non sia un unguento per la Cina e i suoi cattolici. Unguento che Pechino accetta controvoglia, e con mille animosità e resistenze che le difficoltà o le tensioni aumentano. Oggi infatti si apprende di un attrito evidentemente emerso proprio in dopo la crisi di Hong Kong. La Santa Sede ha infatti divulgato oggi un comunicato  col quale «ha preso atto con sorpresa e rammarico della notizia della `cerimonia di installazione´, avvenuta il 24 c.m. a Nanchang, di S.E. Mons. Giovanni Peng Weizhao, Vescovo di Yujiang (Provincia di Jiangxi), come `Vescovo Ausiliare di Jiangxi´, diocesi non riconosciuta dalla Santa Sede». Lo si legge in un comunicato della Sala Stampa Vaticana. «Tale evento, infatti, non è avvenuto in conformità allo spirito di dialogo esistente tra la Parte Vaticana e la Parte Cinese e a quanto stipulato nell’Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi, il 22 settembre 2018», sottolinea il testo, «Per di più, il riconoscimento civile di Mons. Peng è stato preceduto, secondo le notizie giunte, da lunghe e pesanti pressioni delle Autorità locali». La Santa Sede «auspica che non si ripetano simili episodi, resta in attesa di opportune comunicazioni in merito da parte delle Autorità e riafferma la sua piena disponibilità a continuare il dialogo rispettoso, concernente tutte le questioni di comune interesse». Segno che insistere è necessario, cedere sconveniente, soprattutto per il futuro dei cattolici cinesi. 

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