Martina Carbonaro a soli 14 anni è stata uccisa con una pietra dall’ex fidanzato, il diciannovenne Alessio Tucci. Il delitto si è consumato ad Afragola, piccolo comune del napoletano. La tragedia, a meno di due anni dall’omicidio di Giulia Cecchettin, ha subito risvegliato i consueti dibattiti sul naufragio del sistema educativo, sul fallimento della scuola e sulla crisi della famiglia.
Nei primi mesi del 2025, sono già avvenuti più di 15 femminicidi per mano di ex compagni ed ex mariti. Con buona pace della retorica nazionalista che attribuisce questo genere di crimini per lo più ai migranti, la maggior parte degli assassini di donne sono italiani doc.
Cosa spinge un uomo, che sia un ragazzo o un marito più che maturo, a uccidere la donna che crede di amare? La gelosia e la rabbia di un compagno deluso non sono spiegazioni sufficienti, ovviamente. I frequenti richiami alla fragilità culturale del contesto familiare, al disagio sociale della provincia e in generale dell’ambiente sociale di riferimento, all’incidenza della criminalità organizzata in determinate zone del paese… Sono condizionamenti che in qualche caso – forse – contribuiscono a indebolire il fattore di deterrenza rispetto alla scelta di compiere un delitto, ma non ne possono costituire le ragioni fondanti. Anche perché gli ambienti familiari e le aree geografiche in cui si verificano i femminicidi sono difficilmente riconducibili a fattori comuni.
È nella psiche maschile che vanno indagate le cause profonde di questo genere di crimine, è lì che va cercato un minimo comune denominatore, al di là delle singole contingenze.
C’è chi sostiene che uno dei moventi principali sia l’irrimediabile fine della società patriarcale: i maschi del ventunesimo secolo non accettano di rinunciare al ruolo di pater familias, di trovarsi davanti donne libere e non dipendenti da loro (né economicamente né emotivamente), di poter essere lasciati.
È verosimile che questo aspetto culturale abbia la sua importanza, anche inconscia, generando un senso di insicurezza esistenziale che mina l’identità maschile, tanto di un adolescente, quanto di un uomo adulto. Se è vero – fortunatamente – che almeno in Occidente la parità di genere e l’emancipazione femminile sono progressi culturali in atto oramai da decenni, con sorti alterne ma senza mai arrestarsi, lo è altrettanto che a questo cambiamento non è seguita un’evoluzione egualmente significativa dell’immaginario maschile. Nessuna classe dirigente, neppure prima dell’avvento di questa destra così regressiva, si è mai assunta davvero la responsabilità di favorire un ripensamento radicale del ruolo dell’uomo nella società, in nome di valori quali la collaborazione, il rispetto, la cura, l’impegno familiare, la condivisione, di contro all’immagine del maschio alfa, proprietario dei suoi affetti, virilmente identitario e per lo più oggetto delle attenzioni femminili. L’inconscio maschile è rimasto intrappolato in un mondo che non c’è più, e non riesce ad adeguarsi alle reali dinamiche sentimentali di una società in cui nulla è più sicuro, compreso l’amore.
A questo naturalmente si aggiunge una specifica fragilità emotiva di uomini che, abbandonati dalla propria compagna, sentono andare in frantumi il proprio sé e non hanno le necessarie risorse interiori per affrontare l’improvviso crollo dell’autostima. La disequazione fra la reale percezione di un sé parcellizzato e privato della propria identità rispetto all’immagine di un sé forte, saldo e amato, se non vi sono sufficienti difese emotive e riferimenti morali, può essere molto pericolosa.
Senza bisogno di invocare raptus, o patologie psicoemotive – che pure in qualche caso ci sono – è sufficiente indagare il subconscio e l’inconscio di questi assassini, per comprendere che le radici dei comportamenti criminali affondano in un passato lontano, quello in cui la loro identità si è strutturata intorno a un paradigma virile sbagliato, intrinsecamente violento, e storicamente superato.
In questo complesso coacervo di dinamiche psico-sociali, anche il declino della funzione educativa della scuola, il disfacimento della famiglia intesa come comunità-rifugio foriera di accoglienza e conforto, la precarizzazione di ogni aspetto dell’esistenza, sono elementi che hanno senz’altro un peso rilevante nel non distogliere dall’intento criminale.
Insomma, mettendo fra parentesi ciò che potrebbe fare la politica per contrastare il continuo incremento di femminicidi – dato che l’attuale governo pare combattere una velleitaria battaglia volta a restaurare un modello di famiglia autoritario e patriarcale – l’unica speranza è riposta nei singoli, e in special modo nella capacità dei genitori di crescere figli maschi sani, strutturati e in grado di non disfare il proprio sé di fronte a un rifiuto.
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