Ma perché facciamo le guerre?
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Ma perché facciamo le guerre?

Sul nuovo numero de La Civiltà Cattolica , da domani in libreria, un saggio di padre Giovanni Cucci sembra proporci un momento di pausa invece che di corsa. Una pausa per chiederci, “perché facciamo le guerre”?

Ma perché facciamo le guerre?
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

15 Aprile 2022 - 14.40


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Nel momento nel quale gli accadimenti appaiono feroci e sconvolgenti, pochi hanno la capacità di fermarsi. Tra questi certamente ci fu Nicola Cusano. Quando i musulmani conquistarono Costantinopoli il pensiero dei più sembrò correre, la chiarezza e enormità dei fatti sembrava imporlo, insieme alle armi. Il cardinale Nicola Cusano, unanimemente annoverato tra i padri dell’umanesimo europeo, invece si fermò, si chiude a casa e dopo quel ritiro tra le sue mura pubblicò un breve trattato, il De pace fidei: il dialogo tra le religioni come premessa della pace.

Con il suo “La pace della fede” Cusano offriva non solo una lettura, ma anche una proposta. Oggi pochi sembrano capaci di fare qualcosa di simile. Lo schierarsi o il prender parte appaiono oggettivamente le sole necessità del momento. Sul nuovo numero de La Civiltà Cattolica , da domani in libreria, un saggio di padre Giovanni Cucci sembra proporci un momento di pausa invece che di corsa. Una pausa per chiederci, “perché facciamo le guerre”?

Il saggio si intitola “Psicologia della guerra” e ci accompagna, ponendoci questa domanda, in una carrellata di risposte. Difficile infatti che la risposta possa essere una sola. Ma la domanda è quella: siamo gli unici essere viventi a contemplare da sempre questa possibilità. Se la storia comincia con un fratricidio (almeno nella nostra cultura) la constatazione di padre Cucci che nessun altro vivente contempli la guerra è accompagnata dalla singolarità delle sue conseguenze: “chi vi partecipa mette a rischio il suo bene più grande, la vita, provoca povertà, distrugge nazioni, porta malattie, ferite e traumi che durano per molti anni anche dopo la sua fine”.

Eppure la guerra è serenamente presente nella nostra vita pacifica: i nomi di vie o piazze, i romanzi come i videogiochi, le stazione ferroviarie o i film dedicati a eroi di guerra non si contano. E la citazione con cui si parte fa riflettere: McMillian infatti, ci viene ricordato, ha sostenuto che “Tra tutte le attività dell’uomo, la guerra è forse quella meglio pianificata, e ha, di rimando, stimolato una maggiore organizzazione della società […]. Accrescendo il potere dei governi, la guerra è stata fautrice anche di progressi e cambiamenti […]. Siamo diventati più bravi a uccidere e allo stesso tempo meno tolleranti nei confronti della violenza verso il prossimo”. Siamo dunque dentro un mistero che ci riguarda e che sembra smentire la razionalità della nostra natura.

Per rispondere alla domanda, “perché?” non si può che partire da Hobbes e dal famoso homo homini lupus, notoriamente di Hobbes ma non certo “suo”, essendo di molti secoli precedente e indicato per la prima volta da Plauto. Hobbes sostiene che il “tutti contro tutti” sia la naturale guerra per la sopravvivenza, che solo il famoso mostro primordiale, il Leviatano, associabile allo Stato, può fermare, mettendoci al riparo dalle derive distruttici. Pensando in termini di dibattito attuale si potrebbe dire che il Leviatano non è solo preferibile alla morte sotto le bombe dei nostri figli, ma addirittura la vera soluzione.

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L’autore ci porta allo sviluppo che Freud diede alle teorie di Hobbes davanti al trauma della Prima Guerra Mondiale: “ L’ipotesi di Freud è che la guerra manifesta pulsioni distruttive presenti in ogni uomo, che la cultura e la civiltà non possono cancellare, e che egli chiama «istinti di morte». Essi vengono introdotti per spiegare alcuni comportamenti irrazionali – come appunto la guerra, il masochismo o la coazione a ripetere –, in cui si continua ad attuare qualcosa, pur sapendo che è nocivo, trovando in questa ripetizione uno strano interesse, una morbosità distruttiva ma strettamente intrecciata alla vita: «Sembra che il principio del piacere sia al servizio degli istinti di morte […]. Il principio del piacere è uno dei più forti motivi che c’inducono a credere nell’esistenza delle pulsioni di morte”.

Proseguendo il cammino, Fromm viene ricordato per aver individuato l’aggressività, che può essere costruttiva davanti a ostacoli da sormontare o distruttiva , quando porta all’avidità. Eccoci a una causa che conosciamo bene e che -sebbene raramente lo facciamo pubblicamente- riconosciamo facilmente come una causa “naturale”. L’avidità può guidarci e questa può apparirci una spiegazione convincente. Ma non è l’unica.

Se l’avidità risponde alla parte carnale di noi, tutti conveniamo però che esiste un’altra parte, che possiamo chiamare spirituale, mentale, ideale. Qui Hobbes appare chiaramente superato: non siamo in un campo di guerra per la sopravvivenza, ma per la necessità di raddrizzare l’uomo. La famosa affermazione di Stalin per cui per fare una frittata occorre necessariamente rompere le uova non compare nello studio di padre Cucci, ma echeggia in queste pagine. Se io so come renderci tutti felici posso forse fermarmi davanti al numero di uova che occorre rompere per arrivare all’obiettivo?

Certo che no. Padre Cucci a proposito di queste guerre ci ricorda che sono ideologiche, religiose, razziali, identitarie, E torna a McMillian: “Le guerre ideologiche, che siano religiose o politiche, sono spesso le più crudeli perché il regno dei cieli e il paradiso in terra giustificano tutto ciò che viene fatto in loro nome […]. Chi segue un’ideologia o una fede sbagliata merita di morire, quasi fosse una malattia da estirpare, o semplicemente un sacrificio necessario all’avverarsi di un sogno da cui trarrà beneficio l’intera razza umano”.

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Così ci si può educare in modo “ardimentoso”; Marinetti e Rosenberg, ad esempio, l’hanno celebrata come necessaria per il progresso. L’autore ci ricorda che Marinetti scrisse “Guerra sola igiene del mondo”: perché ce ne dimentichiamo così facilmente? Il nazionalismo è intriso ovviamente di militarismo e i nazionalisti non lo hanno mai nascosto. E’ sempre McMillian che ci aiuta a ricordare bene nel racconto di padre Cucci: “Bande militari che suonavano nei parchi di tutta Europa, parate navali nei giorni d’estate, il tintinnio delle guardie a cavallo che in uniforme per le strade, oltre a rappresentare uno svago per il popolo, erano un’efficace propaganda di guerra […].

I giovani delle classi alte e medie, soprattutto in Gran Bretagna, sognavano gloriosi combattimenti come quelli che avevano letto in Omero, Livio e Giulio Cesare […]. Gli argomenti più popolari in Germania erano i grandi trionfi nazionali […]. I giovani d’Europa andarono in guerra nel 1914 con la speranza di poter eguagliare i loro eroi”.

No, non sono esagerazioni, l’esagerazione è sorvolare su tutto questo nelle ore in cui la guerra torniamo a trovarla presente nella nostra realtà, dopo averla trascurata in quelle attigue. E ci sono “curiosità” che magari non si sanno, ma che è bene sapere. Come questa: “La teoria della relatività generale di Einstein, pubblicata nel 1916, fu osteggiata a Oxford, perché il suo autore, nonostante la dichiarazione di pacifismo, era considerato un nemico dell’Inghilterra”.

Le guerre di religione, o ideologiche, o affini, producono in nome del nazionalismo o della conversione o della rivoluzione che ci salverà delle deformazioni incredibili, che non ci stanchiamo di trascurare o rimuovere. Ha dell’incredibile quanto l’autore riferisce arrivando a questo punto del suo racconto: “Michael Ignatieff, direttore del Carr Center for Human Rights Policy presso l’Università di Harvard, descrive la sua stupita esperienza di come un villaggio della ex Jugoslavia, abitato senza apparenti problemi da serbi e croati, sia improvvisamente diventato teatro di un odio mortale: «Tutti si conoscono: sono andati a scuola insieme; prima della guerra alcuni di loro lavoravano nello stesso garage; davano gli appuntamenti alle stesse ragazze. Ora ogni notte si chiamano alla radio e si scambiano insulti, per nome. Cercano di uccidersi l’un l’altro».

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E alla domanda sul perché abbiano deciso di ammazzarsi un soldato serbo risponde inizialmente portando una motivazione estremamente banale: «Sono diversi, lo dice il fatto che fumano sigarette diverse». Ignatieff rimane perplesso da tale risposta, e anche il soldato, che se ne va borbottando. Poi torna e cerca di formularne un’altra: «Questi croati pensano di essere meglio di noi. Pensano di essere dei raffinati europei e cose del genere. Sai cosa ti dico? Siamo tutti quanti spazzatura balcanica”.

La carrellata sui tipi di guerre che si combattono e che sembrano rendere il celebrato Hobbes un po’ ingenuotto contempla anche quella paura che non può essere certo celata. Assalire per paura di essere assaliti, guerra preventiva: di tutto questo siamo ben consapevoli. Ma che si sia sfiorata la terza guerra mondiale per la paura determinata in alcuni militari dall’improvviso chiarore dell’alba sorprende. Eppure come sorprendersi che quell’improvviso rossore possa essere stato scambiato per un’azione nemica. La paura può tanto, troppo: “Gary Younge, nel suo libro Un altro giorno di morte in America. 24 ore, 10 proiettili, 10 ragazzi – questa è la media di bambini e adolescenti assassinati ogni giorno negli Stati Uniti – chiedendosi perché la violenza e la morte in questo Paese non abbia uguali nel mondo, nota come la consuetudine con le armi ne abbia plasmato profondamente l’identità”. Eppure quella familiarità deriva dal riconosciuto diritto ad avere paura e quindi ad armarsi per la propria eventuale legittima difesa.

Il lavoro di padre Cucci procede con altre letture intrecciate a queste. Ad esempio la facilità della guerra. Il generale americano Zinni a proposito dell’invasione dell’Iraq ricorda i piani dettagliati per conquistare l’Iraq, ma non ricorda neanche uno studio su come ricostruirlo. Che questo poi abbia fatto bene agli occupanti oggi può essere escluso, vista l’influenza dell’Iran sull’Iraq post-invasione americana.

Il testo prosegue, assolutamente da leggere soprattutto in queste ore, fino a Ghandi, di cui ci dice cose profondamente sagge e convincenti, ma poi ci ricorda che “ la saggezza non sembra riscuotere molto apprezzamento in sede educativa e filosofica; al contrario, con troppa facilità si incita all’odio e alla distruzione nelle scuole, in politica, nei libri e nei luoghi di preghiera. Questa povertà culturale è alla base della debolezza operativa di governi e organismi internazionali, più attenti agli interessi di parte che a una pace che finirebbe per avvantaggiare tutti nei tempi lunghi”.  

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