La vita dei braccianti schiavi nel Ghetto che non dorme mai
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La vita dei braccianti schiavi nel Ghetto che non dorme mai

Reportage dalla baraccopoli di Rignano Garganico (Foggia), che arriva a ospitare fino a duemila immigrati durante la raccolta dei pomodori.

La vita dei braccianti schiavi nel Ghetto che non dorme mai
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27 Agosto 2015 - 17.34


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Quando non raccoglie pomodori, oppure asparagi, S. va in cerca di cartoni, teloni di plastica, tubi per l’irrigazione. Nascono così, autocostruite, e aumentano di anno in anno affastellandosi tra vicoli e strade fangose, le decine di baracche del Gran Ghetto, la più grande tra le baraccopoli di raccoglitori di pomodori in Puglia. Nei mesi estivi arriva a ospitare oltre duemila braccianti, originari soprattutto dell’Africa Occidentale.

Gli abitanti del Gran Ghetto, che sorge su una sorta di “terra di nessuno” tra i tre comuni di Foggia, San Severo e Rignano Garganico, rappresentano poco meno del dieci per cento dei lavoratori stagionali della Capitanata, una delle più importanti zone di produzione di pomodori del sud Italia, destinati soprattutto all’industria conserviera.

Il ghetto che non dorme mai. Intorno alle tre della mattina si svegliano e si preparano i primi raccoglitori, pronti a partire per campi di pomodori o cipolle, per i vigneti e le serre distanti anche un paio d’ore di automobile. I caporali li trasportano, per cinque euro a persona, su furgoni riarrangiati, spesso rubati, molti con targhe bulgare o rumene, che caricano anche venti lavoratori per volta su tre file di panche di legno sistemate al posto dei sedili. Lavoreranno sotto il sole per un orario variabile, dalle quattro- cinque ore fino alle dieci e più, a seconda di quanti camion arriveranno per ritirare i cassoni riempiti dell’oro rosso della Capitanata. Niente camion, niente lavoro. E quando c’è, il lavoro è a cottimo, tre euro e cinquanta a cassone. Si racconta di chi ne ha raccolti anche più di trenta, di cassoni. Si prende in giro chi non riesce a superare i sette. In media i ragazzi e gli uomini che ora stanno in fila con gli occhi pesti di sonno viaggiano tra i dieci e i quindici a giornata. Tolte le spese del trasporto, significa guadagnare una trentina di euro al giorno per spaccarsi la schiena a strappare le piante e scuotere i frutti dentro il cassone.

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“In Africa nessuno mi crederebbe”. Fa ancora fresco quando partono ognuno con il proprio zainetto, con il panino per il pranzo, e in mano le taniche di acqua rivestite di patchwork di stoffa e panno, da bagnare anche esternamente per cercare di tenere fresco il contenuto anche sotto il solleone dei campi. All’ora delle prime partenze, le decine di locali del Gran Ghetto hanno appena spento la musica. Anche i bar e i night club sono baracche, sempre di plastica e cartone, a volte anche legno e lamiera. Sono arredate e decorate con teli di stoffa, frigoriferi per le bibite e luci colorate alimentati da rumorosi generatori a benzina. Il resto della baraccopoli si sveglia progressivamente. I furgoni continuano a partire fino alle cinque o anche alle sei per i campi meno distanti. Alle sei e trenta parte anche il primo pullman per Foggia, che dista solo quattordici chilometri di strada, solo nell’ultimo tratto sterrata e piena di buche. Quattordici chilometri nei quali si attraversa il confine invisibile tra il Gran Ghetto e l’Unione Europea. “Se lo raccontassi in Africa, nessuno crederebbe che questa è Europa”, ripetono i braccianti, da quelli appena arrivati a quelli che al Ghetto ci vivono ogni estate da alcuni anni.

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Privacy degli sguardi. Oltre allo sfruttamento che subiscono al lavoro, che porta a molti di loro infortuni, mal di schiena e ferite, i braccianti si trovano a vivere senza elettricità, con tre punti per la raccolta di acqua per lavarsi e alcune cisterne riempite quotidianamente, con venti bagni chimici in tutto, che dovrebbero servire oltre duemila di acqua potabile. I campi e gli uliveti intorno al Ghetto sono trasformati in wc all’aria aperta, dove la minima privacy necessaria è garantita da scambi di sguardi. Quando si va al bagno si tace, per le strade e i vicoli del ghetto invece si parla e si fanno affari in continuazione. “Come stai, tuttoapposto?” “Pomodoro, fatica”, sono le frasi che risuonano in italiano, francese, inglese e decine di lingue africane.

Il ghetto è condizioni igieniche disperate, ma anche solidarietà, incontro, persino divertimento e festa. Chi vive nella stessa baracca (le più grandi possono contenere anche cinquanta materassi) si organizza in piccoli gruppi per cucinare a turno e poi mangiare insieme il riso, la carne, il sugo di arachidi. Sulle bombole a gas o su piccoli falò di fronte alle baracche.
Il lavoro è ognuno per sé, il resto è condivisione. Dai turni per il cibo alla donna ivoriana che ogni mattina e sera va a fare le iniezioni di antibiotico prescritte dai medici di Emergency a un ragazzo di ventisette anni infortunato per un cassone che gli è caduto sul piede. Il suo caporale per risarcirlo gli ha dato dieci euro. La donna, quando lo saluta dopo l’iniezione, gli dice: “Per qualche giorno, se vuoi, ti aspetto per mangiare da me a credito, mi pagherai quando puoi”. (Giulia Bondi)

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[url”VIDEO – Pomodoro nero, nel “Gran ghetto” dei braccianti schiavi”]http://www.redattoresociale.it/Multimedia/Video/Dettaglio/489385/Pomodoro-nero-nel-Gran-ghetto-degli-schiavi-del-pomodoro[/url]

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