Carmela, femminicidio numero 110
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Carmela, femminicidio numero 110

Uno sterminio. L’Italia avrebbe dovuto ratificare subito la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne. [Luisa Betti]<br><br><br>

Carmela, femminicidio numero 110
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20 Ottobre 2012 - 09.31


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di Luisa Betti

Un’altra donna, una ragazza, è morta oggi uccisa da un ragazzo che attendeva, armato, la sorella sotto casa. C.P., la giovane di 17 anni che frequentava il liceo classico a Palermo e che ha perso la vita dopo essere stata colpita da 7 coltellate, è un’altra vittima collaterale di quello che finalmente viene chiamato anche dai giornali femminicidio. Vittima collaterale perché ha tentato di difendere la sorella L.P., una ragazza di 18 anni che adesso è in ospedale con gravi ferite sul corpo, che conosceva l’autore del reato – e che quindi ne ha indicato le generalità alla polizia – e col quale aveva una relazione nascosta ai genitori. La dinamica dei fatti resa nota dalle agenzie, racconta che le due sorelle erano uscite da scuola ed erano state lasciate sotto il portone di casa dalla nonna che era andata a prenderle in macchina; poi le ragazze avrebbero citofonato in meniera concitata chiedendo al fratello di aprire subito il portone, in quanto probabilmente si erano accorte della presenza del ragazzo che conoscevano entrambe, e la tesi più accreditata è quindi che la sorella minore si sia intromessa per difendere la maggiore, da cui l’uccisione nell’androne di casa.

Il presunto responsabile, il 22enne S.C., è stato fermato e arrestato poche ore dopo dalla polizia che ha potuto accertare, riporta l’Ansa, come “secondo le prime ricostruzioni, il giovane e la sorella della vittima avevano avuto una relazione di un anno alla quale L.P. aveva posto fine. Ma l’ex fidanzato non si sarebbe mai rassegnato alla decisione della giovane che avrebbe continuato a molestare e a contattare per farle cambiare idea. Oggi l’ultima lite durante la quale sarebbe intervenuta C., la sorella minore, che avrebbe cercato di proteggere L. facendole scudo con il suo corpo e prendendosi così le coltellate mortali”.

Il numero di donne, ragazze, adolescenti, ma anche bambini, bambine, nuovi compagni di ex mogli, che rimangono impigliati nella cultura femminicida come vittime dirette o collaterali di un no che può costare la vita, conta quest’anno fino ad oggi 110 vittime. Una guerra, nel cui bilancio vanno aggiunte almeno una parte delle numerose donne sparite e mai più ritrovate – femminicidi perfetti di mariti, fidanzati o ex che fanno sparire le tracce della vittima.

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Un bilancio che le istituzioni dovrebbero/potrebbero ridurre con politiche immediate sulla violenza di genere: ma cosa dovrebbero fare, e non fanno? Esattamente una settimana fa un uomo, F.B., a Collegno (Torino) ha ucciso la moglie, V.S., davanti al figlio di 16 anni dopo un litigio in casa sferrando 11 coltellate alla donna; il figlio ha cercato di difendere la madre venendo ferito a una mano. Pochi giorni prima un altro uomo a Padova, P.R., ha ucciso la compagna con cui non viveva più, E.F., davanti alla figlia di 3 anni, con 10 coltellate al petto. Femminicidi efferati, come avviene nella maggioranza, e in contesti di relazioni intime, come avviene in Italia e in Europa nel 70% dei casi (rapporto Onu).

Pochi mesi fa il governo italiano è stato redarguito dalle Nazioni Unite “per il suo scarso e inefficace impegno nel contrastare la violenza maschile nei confronti delle donne”, “per l’allarmante numero di donne uccise dai propri partner o ex-partner (femminicidi)”, “per il persistere di tendenze socio-culturali che minimizzano o giustificano la violenza domestica”, “per l’assenza di rilevamento dei dati sul fenomeno”, “per le attitudini a rappresentare donne e uomini in maniera stereotipata e sessista nei media e nell’industria pubblicitaria”, “per la mancanza di un coinvolgimento attivo e sistematico delle realtà della società civile, competenti sul fenomeno, nel contrastare la violenza”. Raccomandazioni che vanno a colpire l’humus in cui questi femminicidi proliferano e a cui l’Italia non dà ascolto, come dimostra il numero delle morti.

Di fonte a questo sterminio, l’Italia avrebbe dovuto, e di corsa, non solo firmare ma ratificare immediatamente la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica (2011), che la ministra Fornero ha firmato a Strasburgo poche settimane fa su delega del ministro degli Esteri, e la cui ratifica però sembra molto lontana (soprattutto se si leggono gli interventi fatti durante la seduta al Senato in cui diverse forze politiche hanno sottolineato come la Convenzione di Istanbul sia, per certi punti, contrastante con il concetto di famiglia che il nostro Paese ha nella Costituzione).

Il cambiamento di cultura e mentalità che sarebbe necessario per abbattere una volta per sempre la violenza di genere e il femminicidio, parte proprio da questo: dalla valutazione e dall’importanza che questi argomenti e questi fatti hanno, dal fatto che se si vuole seriamente mettere mano al fenomeno bisogna mettere mano alla famiglia così com’è oggi (l’85% della violenza in Italia è domestica), e ai ruoli attribuiti alla donna tra le mura domestiche come nella società e nella politica. Ruoli legati a stereotipi ormai esasperati e radicalizzati da 20 anni di berlusconismo che riducono la donna – di qualunque età – a femmina-preda, corpo su cui il maschio può esercitare il suo potere. Un controllo e un possesso che si esplica a tutti i livelli: fisico e psicologico, fino allo stupro e all’annientamento con l’uccisione. Come a Palermo, a Enna, a Catania, a Padova, a Roma, ovunque, con una caratterizzazione che non riguarda una generazione specifica, ma la maggior parte degli uomini a tutte le età.

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Ma che messaggio trasmettono le istituzioni? E come risponde l’opinione pubblica? Le prime danno un’attenzione tiepida al problema, e parte dell’opinione pubblica aderisce in maniera acritica e stereotipata a questa cultura, facilitando così le cose ai responsabili, che nei tribunali vengono alleggeriti con inesistenti attenuanti culturali: legare la responsabilità dell’offender al comportamento ipotizzato o attribuito alla vittima (che così viene accusata di un reato che non è il suo), permette di porre sullo stesso piano i due elementi e di negare la gravità dei fatti insinuando il dubbio anche di fronte all’evidenza.

Al tribunale di Bazzano ieri è stato rinviato di un mese il processo a carico di F.T., accusato di aver stuprato e ridotto in fin di vita la ragazza ritrovata in un lago di sangue a febbraio nel retro di una discoteca di Pizzoli, una violenza che è costata alla ragazza – salva per miracolo per l’emorragia che la violenza le aveva provocato – 48 punti di sutura interni, come testimoniato anche dal ginecologo che l’ha operata. Un processo in cui davanti alla ragazza, comparsa in aula con i familiari, mentre l’imputato è rimasto a casa (è ai domiciliari), gli avvocati di F.T. hanno continuato a sostenere che il rapporto sarebbe stato consensuale (anche di fronte a una violenza tale da mettere in pericolo di morte la ragazza) e che quindi non ci sarebbe stato alcuno stupro. E mentre fuori dall’aula, a porte chiuse, si è svolto il presidio di donne e uomini di varie associazioni provenineti da diverse parti d’Italia, è stata la società civile, tramite il Centro antiviolenza dell’Aquila che si è costituito parte civile nel processo, a chiedere di reinserire il reato di tentato omicidio tra i capi d’accusa, per ora rimasto fermo alla violenza sessuale aggravata.

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A Montalto di Castro, in una vicenda giudiziaria che dura dal 2007 per uno stupro di gruppo ai danni di una minorenne, si continua a dire che i rapporti sono stati consensuali: qui anni fa fece scandalo il pubblico sostegno degli abitanti, e addirittura del sindaco, agli imputati; un processo che dura da anni e in cui l’Udi (Unione donne italiane) sta protestando da tempo contro i continui rinvii – con relativo supplizio della ragazza vittima dello stupro – la cui prossima udienza si terrà il 22 ottobre. Di questa assenza delle istituzioni – che alimenta l’impunità dei responsabili e una cultura che non tutela le donne né fa prevenzione sulla violenza di genere – è testimonianza eclatante la vicenda di uno dei più noti femminicidi della storia recente: quello di Roberta Lanzini, la studentessa stuprata e uccisa a Torremezzo di Falconara Albanese il 26 luglio 1988, il cui processo è stato ancora rinviato (al 21 novembre 2012) a ben 24 anni dal delitto.

Nel 2013 il Comitato Cedaw chiederà conto all’Italia di cosa ha fatto contro la violenza di genere-femminicidio nei due anni passati tra le raccomandazioni Onu e il nuovo rapporto che il Comitato dovrà stilare nel rispetto della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna in vigore dal 1981 (ratificata anche dall’Italia) e delle ultime raccomandazioni della special rapporteur sulla violenza, Rashida Manjoo. Quello di applicare politiche immediate, come suggerisce la Convenzione contro il femminicidio No More!, e attuare con urgenza una revisione del Piano nazionale contro la violenza varato dalla ex ministra Mara Carfagna nel 2011 – che si è dimostrato a oggi insufficiente e mancante – è un buon consiglio all’attuale governo.



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