Il dono dell’amicizia: in ricordo di Stefano Di Michele
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Il dono dell’amicizia: in ricordo di Stefano Di Michele

Stefano Di Michele, amico di sempre, se n'è andato. Avevamo vent'anni e nel cuore il sogno di scrivere, di fare i giornalisti. [Antonio Cipriani]

Antonio Cipriani
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16 Aprile 2016 - 21.22


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Il mio più lontano ricordo è intinto di rosso. Quante volte, seduti su vecchie panchine notturne, nel cuore di chissà quale borgo antico della provincia, ci siamo interrogati sulla bellezza delle parole. Quante volte abbiamo citato questo incipit prodigioso de La Lingua salvata di Elias Canetti, discusso come se le ore non avessero senso, e che solo il valore delle parole scelte lo avesse.

Avevamo vent’anni e poco più. Quel libro me l’aveva regalato proprio lui, Stefano Di Michele. Aveva un cuore grande e amicizia. Veniva con l’autobus alle riunioni della redazione di Tendenze, a Tivoli. E portava nella sua borsa gigante libri da leggere, idee, fogli stropicciati con i suoi articoli pieni di storie e di intelligenza. Odoravano di sigaro. Ma in quei tempi tutta la nostra sinistra culturale odorava di sigaro. Eravamo nei primi anni Ottanta, si scriveva con la Lettera 32, Tommaso Verga era il nostro maestro, le discussioni erano infinite, ma poi c’era anche l’azione. Cominciava la prodigiosa cura antica e straordinaria della nascita di un giornale, di Tendenze. Lì ci siamo conosciuti. Lì un gruppo di ventenni ha cominciato a svelare al cuore il proprio destino. Volevamo scrivere, studiare e narrare, fare giornalismo, cambiare il mondo. Anche quel ricordo è intinto di rosso.

Oggi Stefano se n’è andato. Mi rimbalzano nella testa le immagini della nostra amicizia antica. Le facce che avevamo in quegli anni, le risate, le riunioni fumose, la furia magica di un futuro che ruotava nella nostra testa a velocità della luce. Lo chiamavamo con un affetto infinito Il Topone per quel suo modo dolce e divertente di porsi, sorridente e pieno di ironia verso se stesso e verso il mondo che lo circondava. A casa lo chiamavano Franco e non si sa perché. A Tor Lupara, dove abitava, invece era Franco er Barista, perché la mattina lavorava al bar dello zio e tra un caffè e un cappuccino picchiettava sulla macchina da scrivere componendo i suoi pezzi. Il giornalismo non era ancora un mestiere ma un sogno. Poi il sogno è diventato la nostra professione.

Eravamo già allora come siamo diventati nella vita. Lui scriveva di politica: gentile con tutti, capace di trarre dalle chiacchiere di corridoio articoli di una bellezza unica, fulminanti. Noi altri di Tendenze votati all’inchiesta, alla caccia al segreto nascosto sotto le pieghe del potere, qualunque fosse. Nel corso degli anni sono cambiati gli scenari, sono mutate le nostre condizioni professionali, ma non abbiamo smesso di essere quello che siamo sempre stati. Amici e legati da una storia straordinaria, in disaccordo su quasi tutto per tutta la nostra carriera giornalistica. Quando eravamo all’Unità e quando ognuno è andato per la sua strada.

Anche il suo arrivo all’Unità va raccontato. Io ero stato il primo di quel gruppo a varcare il limes di Ponte Mammolo e a sbarcare in un quotidiano, all’Unità per l’appunto. A ruota mio fratello Gianni era andato nella fucina giornalistica di Paese Sera. Non ricordo chi fosse il capocronista dell’epoca, quindi non faccio nomi per evitare gaffe, ma serviva un corrispondente dalla provincia romana e io proposi Stefano Di Michele. Il problema era che a lui non andava molto di cambiare la sua vita fatta di letture, politica e ozio creativo. Per convincerlo ci volle una serata infinita di chiacchiere in un’osteria di Mentana: io, lui e Gianni. Alla fine accettò. E cominciò così il suo percorso giornalistico strepitoso. Tanti anni dopo, quando eravamo tutti all’Unità, Gianni gli ricordava scherzando l’origine di tutto: per convincerti ti abbiamo anche dovuto pagare la cena. E lui sghignazzava con quel faccione da uomo buono, il mezzo sigaro perenne in bocca.

A proposito di mezzo sigaro. Non so perché, ma tra i tanti ricordi che si affastellano mi viene in mente questo. Eravamo sulla Due Cavalli di Nando Marconi, splendido cronista che mai ha scelto il giornalismo, e battevamo la provincia alla ricerca di notizie e di sponsor per Tendenze. Nando guidava, io al suo fianco, Stefano fumava dietro. Per motivi che ancora oggi mi sfuggono ci fermarono dopo un breve inseguimento a sirene spiegate i carabinieri e ci fecero scendere dalla macchina con i mitra spianati. Ci trattarono come terroristi, ci perquisirono e dopo averci identificati ci lasciarono andare. Mi resi conto solo a quel punto che Stefano era rimasto immobile contro la macchina, terrorizzato. “Mi si è spento il sigaro”, non disse altro. Fino al ritorno a casa. Non so perché oggi mi ritorni in mente questo episodio quasi dimenticato. Ce ne sono tanti legati alla nostra storia. Eppure questo mi fa bene scriverlo, per alleggerire la pesantezza che ho nel cuore.

Ogni felicità è un’innocenza. Mi ha detto al telefono Il Filosofo, altro compagno di serate: eravamo spensierati. Eppure nel ricordo intinto di rosso avevamo cuore e coraggio, sapevamo sfidare l’impossibile e non arrenderci alla banalità delle cose conformiste già scritte per noi. Cose che non prevedevano questa nostra conquista della scrittura e del giornalismo per vivere. Ce ne siamo fregati, abbiamo guardato oltre, ci siamo inventati una storia senza mai perdere di vista la bellezza. Di questo io ringrazio Stefano: per averci donato la sua passione, la sua cultura raffinata e la sua ricchezza umana in quel tempo in bilico dove si poteva scivolare nell’ovvio. In una delle nostre derive, con una matita sottolineò per me una frase delle Memorie di Adriano, di Marguerite Yourcenar: ogni felicità è un’innocenza. Eravamo spensierati, certo. Ma nella battaglia di quegli anni avevamo l’amicizia, “la condivisione che precede ogni divisione, perché ciò che ha da spartire è il fatto stesso di esistere, la vita stessa. Ed è questa spartizione senza oggetto, questo con-sentire originale che costituisce la politica”, citando Giorgio Agamben.

In questo ricordo ho scelto l’innocenza di quegli anni, la furia magica del sogno, il dono dell’amicizia, così poetico e così politico. Così fertile.

 

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