Libiagate, le scomode verità svelate da Nello Scavo: Tajani legga e impari
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Libiagate, le scomode verità svelate da Nello Scavo: Tajani legga e impari

Nello Scavo, inviato di Avvenire, è un grande giornalista. Curioso, coraggioso, corretto. Ora ha pubblicato "Libyagate. Inchieste, dossier, silenzi "

Libiagate, le scomode verità svelate da Nello Scavo: Tajani legga e impari
Lager in Libia
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5 Febbraio 2023 - 14.43


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Nello Scavo, inviato di Avvenire, è un grande giornalista. Curioso, coraggioso, corretto. Di quelli che onorano un mestiere che molti altri contribuiscono a dequalificare. Scavo è di quelli, ahimè pochi, che verificano sul campo. Che scavano, indagano, e poi portano alla luce verità scomode. Nello Scavo conosce la Libia e il “dossier migranti” come le sue tasche. Ne scrive da anni. Articoli e libri. Libri che lasciano il segno. Come certamente è destinato a farlo Libyagate. Inchieste, dossier, silenzi (Avvenire-Vita e Pensiero, pp104, 13 euro).  Il libro, in vendita da oggi, prende spunto da uno dei casi più bui degli ultimi anni che è stato oggetto di un’inchiesta giornalistica che ha coinvolto reporter di testate quali The Guardian, The New York Times, Irpimedia e Avvenire grazie al lavoro di Scavo.

Vicende legate al traffico di uomini, armi, droga e contrabbandano di petrolio hanno mostrato l’esistenza di una rete internazionale che dalla Libia conduce in Europa attraverso Malta e l’Italia, con la connivenza di faccendieri, politici, e boss della mafia.

Verità scomode

Ecco un capito del libro, anticipato dal quotidiano della Cei: “

Il “rischio reputazionale” per l’Italia è altissimo, dopo essere stata segnalata all’Onu per violazione dell’embargo sulle armi in Libia. Una “violazione tecnica”, perché l’andirivieni di navi militari italiane a Tripoli, allo scopo di svolgere manutenzione per la cosiddetta Guardia costiera, raramente viene notificata da Roma alla missione Onu. La denuncia è in un rapporto degli investigatori delle Nazioni Unite che a metà luglio del 2022 hanno consegnato al Consiglio di Sicurezza un dossier di 367 pagine che pesa come un macigno sulle scelte politiche di questi anni. Davanti alla lista di crimini commessi dalle autorità libiche, sostenute da Italia ed Europa, la violazione dell’embargo rimproverata al nostro Paese sembra quasi un peccato veniale. Tuttavia è proprio grazie alla “manutenzione” italiana che le motovedette libiche possono continuare a commettere i crimini ancora una volta segnalati dall’Onu.

Dalle sabbie libiche passano i destini della stabilità nell’Ue, compresa la guerra in Ucraina. Con la Russia che è stata scoperta a inviare armi a Tripoli nel pieno del conflitto contro Kiev. Munizioni con cui far pesare a Paesi come Italia e Francia la posizione assunta a sostegno dell’Ucraina, in una crescente sfera di influenza del Cremlino, che nei giorni scorsi ha visto la compagnia petrolifera statale libica annunciare in sordina il taglio dell’export di idrocarburi verso l’Italia. «Il settore petrolifero pubblico si è trovato al centro di una lotta di potere tra la leadership della National Oil Corporation e il Ministero del petrolio e del gas», spiega il rapporto degli investigatori Onu. Nell’ultimo anno sono stati registrati «scontri tra gruppi armati che hanno danneggiato le installazioni petrolifere» allo scopo di commettere estorsioni. Tensioni che negli ultimi tempi hanno riportato Tripoli sotto i colpi delle faide della criminalità politica, con l’aeroporto chiuso temporaneamente e almeno una ventina di morti. Nonostante la mancata cooperazione delle autorità, gli ispettori sono riusciti a documentare ancora una volta la filiera del contrabbando del petrolio. Un business che, per dare meno nell’occhio, si serve di una rete internazionale che dalla Libia giunge in Europa attraverso Malta e Italia grazie a «navi multiuso più piccole, utilizzate contemporaneamente o consecutivamente per il trasporto di altre merci lecite o illecite», così da confondere gli investigatori e massimizzare i profitti.

Tuttavia è stata registrata una diminuzione dell’export illegale complessivo via mare, compensata dalle esportazioni illecite via terra in direzione di altri Paesi africani. Ma c’è una domanda a cui il report ha dato una risposta che spazza via l’ipocrisia dei governi europei: quante sono le milizie del mare in Libia? Gli investigatori delle Nazioni Unite confermano l’esistenza non di una, ma di almeno quattro “Guardie costiere”, ciascuna legata a un diverso Ministero e a differenti padrini, in lotta armata tra loro. «Quattro distinte strutture di comando e controllo hanno svolto operazioni nelle acque territoriali e internazionali libiche: la Marina libica; la Guardia costiera libica, anche sotto il comando e il controllo del Ministero della Difesa; l’Amministrazione generale per la sicurezza costiera (Gacs) sotto l’autorità del Ministero dell’Interno; oltre a unità marittime controllate dall’apparato di supporto alla stabilità», scrivono gli ispettori. Una frammentazione operativa voluta anche per ostacolare la capacità di «individuare le agenzie marittime libiche che hanno messo i migranti e i richiedenti asilo a rischio reale di gravi violazioni dei diritti umani».

Il dossier non trascura la situazione a est, nella Cirenaica controllata dal generale ribelle Haftar sostenuto dall’Egitto e soprattutto dalla Russia. Proprio qui, 18 pescatori di Mazara del Vallo vennero reclusi e torturati per oltre tre mesi (108 giorni) dal settembre 2020. Nel 2021 i pescatori sono riusciti a riconoscere il capo dei loro aguzzini, ripreso durante un reportage di una tv francese. Adesso anche gli investigatori Onu non hanno dubbi e potrebbe scattare un mandato di cattura internazionale della magistratura italiana e di quella internazionale. « Due ex prigionieri nella struttura di Kuwayfiyah», spiega il report, «hanno riconosciuto il capo delle guardie, il capitano Bashir Al Jahni, come autore diretto di atti di tortura eseguiti su di loro sotto forma di brutali percosse con bastoni di legno mentre erano costretti a rimanere nudi. Il gruppo di esperti ha stabilito che questi atti avevano causato lesioni fisiche permanenti e gravi traumi psicologici». A subire le più brutali sevizie sono soprattutto i profughi «lungo le rotte controllate da reti di trafficanti di esseri umani, nei centri di detenzione per migranti, e in associazione con operazioni marittime».

Ai nomi noti in passato, tra cui il sempre presente Abdul Rahman al-Milad, alias comandante Bija, si aggiungono figure in grado di ricattare l’Italia e l’Europa a colpi di barconi. Chiedono legittimazione, fondi e mano libera nei campi di prigionia governativi. Tra questi Osama Najim e Adel Mohamed Ali. Sono i responsabili del centro di detenzione statale di Mitiga, a Tripoli. «Najim e Ali (noto anche come Sheikh Adel) hanno anche illegalmente trasferito detenuti da luoghi di detenzione sia non ufficiali sia ufficiali di Tripoli alla struttura di Mitiga, allo scopo primario di utilizzarli per il lavoro forzato come forma di schiavitù». Compreso l’arruolamento nelle milizie e la manutenzione delle armi. Nel corposo fascicolo abbondano le copie dei documenti e delle immagini che incastrano i responsabili, comprese le mappe disegnate da alcuni ex prigionieri e poi confermate da sopralluoghi sul posto e immagini satellitari. Nonostante i depistaggi, gli investigatori sono riusciti a ricostruire 26 eventi criminali che coinvolgono le istituzioni libiche. Si tratta di «gravi violazioni dei diritti umani commessi contro migranti e richiedenti asilo in tre contesti correlati di tratta di esseri umani e traffico di migranti». Una volta catturati in mare, i migranti sono stati «illegalmente detenuti in condizioni sanitarie deplorevoli, con le vittime ridotte in schiavitù e torturate, duramente picchiate giorno e notte, deliberatamente fatte morire di fame». Tra i superstiti che è stato possibile soccorrere, ci sono due ragazze che all’epoca avevano 14 e 15 anni e che hanno raccontato di essere state «violentate ripetutamente, sottoposte a schiavitù sessuale e ad altre forme di violenza sessuale da parte degli ufficiali in un’area di detenzione segreta a Bani Walid.

Il pugnale resta saldamente nelle mani dei clan libici. E l’afflusso di armi soprattutto da Russia, Egitto e Turchia, non lascia presagire tempo di bonaccia. Con Mosca che spinge perché l’instabilità metta sotto pressione i suoi “nemici”. E bastano due righe del report per avvertire del pericolo: «Il gruppo di esperti valuta che le scorte di armi siano rimaste elevate e sufficienti per sostenere qualsiasi conflitto futuro». Una guerra perenne, che all’uscita di questo libro non avrà ancora visto la parola “pace”. Ai nomi noti in passato, tra cui il sempre presente Abdul Rahman al-Milad, alias comandante Bija, si aggiungono figure in grado di ricattare l’Italia e l’Europa a colpi di barconi. Chiedono legittimazione, fondi e mano libera nei campi di prigionia governativi. Tra questi Osama Najim e Adel Mohamed Ali. Sono i responsabili del centro di detenzione statale di Mitiga, a Tripoli. «Najim e Ali (noto anche come Sheikh Adel) hanno anche illegalmente trasferito detenuti da luoghi di detenzione sia non ufficiali sia ufficiali di Tripoli alla struttura di Mitiga, allo scopo primario di utilizzarli per il lavoro forzato come forma di schiavitù». Compreso l’arruolamento nelle milizie e la manutenzione delle armi. Nel corposo fascicolo abbondano le copie dei documenti e delle immagini che incastrano i responsabili, comprese le mappe disegnate da alcuni ex prigionieri e poi confermate da sopralluoghi sul posto e immagini satellitari. Nonostante i depistaggi, gli investigatori sono riusciti a ricostruire 26 eventi criminali che coinvolgono le istituzioni libiche. Si tratta di «gravi violazioni dei diritti umani commessi contro migranti e richiedenti asilo in tre contesti correlati di tratta di esseri umani e traffico di migranti». Una volta catturati in mare, i migranti sono stati «illegalmente detenuti in condizioni sanitarie deplorevoli, con le vittime ridotte in schiavitù e torturate, duramente picchiate giorno e notte, deliberatamente fatte morire di fame». Tra i superstiti che è stato possibile soccorrere, ci sono due ragazze che all’epoca avevano 14 e 15 anni e che hanno raccontato di essere state «violentate ripetutamente, sottoposte a schiavitù sessuale e ad altre forme di violenza sessuale da parte degli ufficiali in un’area di detenzione segreta a Bani Walid.

Il pugnale resta saldamente nelle mani dei clan libici. E l’afflusso di armi soprattutto da Russia, Egitto e Turchia, non lascia presagire tempo di bonaccia. Con Mosca che spinge perché l’instabilità metta sotto pressione i suoi “nemici”. E bastano due righe del report per avvertire del pericolo: «Il gruppo di esperti valuta che le scorte di armi siano rimaste elevate e sufficienti per sostenere qualsiasi conflitto futuro». Una guerra perenne, che all’uscita di questo libro non avrà ancora visto la parola “pace”.

Una ricerca tragicamente illuminante

Ne scrive Africa ExPress: “Tra il 2017 e il 2021 oltre 200 mila i migranti sono stati portati in Libia e ridotti in totale stato di schiavitù.

Lo sostiene una ricerca condotta da Mirjam van Reisen, professoressa di Relazioni Internazionali all’Università di Tilburg (Olanda), in collaborazione con Munyaradzi Mawere dell’Università di Unisa, Sudafrica, nochè titolare della cattedra di Studi africani alla Great Zimbabwe University.

Allo studio hanno partecipato anche Klara Smits, dottoranda all’Università di Tilburg, specializzata sulle rotte della tratta di esseri umani dall’Eritrea alla Libia e Morgane Wirtzè dottoranda all’Università di Tilburg, dove svolge ricerche sulla tratta di esseri umani e la violenza sessuale in Libia.

In questi giorni è stato pubblicato  il libro ENSLAVED. Trappedand Trafficked in Digital Black Holes”: Human Trafficking Trajectoriories to Libya”, che comprende il risultato della ricerca degli studiosi.

Molti dei rifugiati che sono approdati in Libia sono eritrei, loro in particolare sono soggetti al traffico e ridotti in schiavitù, subiscono torture, abusi di ogni genere e anche violenze sessuali per costringere i familiari a pagare un riscatto per il loro rilascio.

Se riescono a fuggire dai lager e a raggiungere il Mediterraneo, rischiano di essere intercettati e rispediti in Libia o di morire in mare. Sono queste le conclusioni della ricerca, pubblicate nel libro.

Utilizzando ingegnosi metodi digitali, come una targhetta con un codice elettronico, i trafficanti di esseri umani trasportano i rifugiati attraverso una serie di “buchi neri”, vuoti digitali, in quanto i migranti spesso non hanno accesso a internet e ai più viene persino tolto il cellulare. Grazie alle tecnologie digitali, i trafficanti controllano l’accesso a internet dei rifugiati che fuggono dai loro Paesi, specie dalla dittatura eritrea.

Molti muoiono lungo il percorso.

Durante il periodo di questo studio (2017-2021), si stima che almeno duecentomila rifugiati – uomini, donne e bambini – siano stati vittime della tratta di esseri umani a scopo di estorsione in Libia. Si stima che il giro d’affari del losco traffico si aggiri attorno a un miliardo di dollari. Nella pubblicazione i ricercatori sostengono  che le disuguaglianze nell’accesso e nel controllo delle tecnologie digitali e di connessione,  hanno contribuito a rendere possibile la tratta, riducendo in totale schiavitù centinaia di migliaia di esseri umani. Anche le politiche dell’Unione Europea, della Libia e di altri Paesi del Corno d’Africa hanno fatto sì che questo stato di cose perdurasse nel tempo, anzi secondo i ricercatori pare che lo abbiano persino alimentato.

Senza un aiuto legale in conformità con il diritto internazionale, soprattutto  gli eritrei restano intrappolati in un ciclo di traffico di esseri umani dal quale è difficile, se non impossibile, uscire.

La ricerca è nata dal contatto sul posto con rifugiati, che sono riusciti a inviare registrazioni segrete o a comunicare attraverso i social media. La maggior parte delle interviste con i rifugiati che sono riusciti a fuggire, ha avuto luogo nei Paesi confinanti con la Libia, come Niger, Sudan e Tunisia. Sono stati sentiti direttamente anche rifugiati che sono riusciti a raggiungere l’Europa.

Questo dettagliato studio etnografico identifica le rotte, il modus operandi, l’organizzazione e gli attori chiave, coinvolti nel traffico di esseri umani a scopo di riscatto di rifugiati e migranti.[…]. All’inizio di quest’anno è stato arrestato in Sudan, eritreo Kidane Zekarias Habtemariam, uno tra i più feroci trafficanti di esseri umani. Il suo arresto è stato possibile grazie al contributo degli Emirati Arabi Uniti e all’Interpol.

Il trafficante era inserito nella lista delle persone più ricercate dall’Olanda.

Grazie alla sua rete capillare, che si estendeva dalla Somalia alla Libia, ha organizzato traffico di migliaia di giovani etiopi, eritrei e somali verso l’Europa, attraverso la Libia. Kidane ha fatto passare l’inferno agli aspiranti richiedenti asilo con torture, violenze, per estorcere denaro ai familiari.

Kidane è stato riconosciuto per le strade di Addis Abeba da un migrante, torturato, da lui stesso. Il criminale è stato poi arrestato per la prima volta in Etiopia nel 2020. Processato per traffico di esseri umani, un anno dopo è riuscito a fuggire dal tribunale federale della capitale etiopica. Grazie alla complicità di agenti di polizia, si è cambiato nei bagni del tribunale prima di lasciare l’edificio in incognito. Mesi dopo, l’Etiopia lo ha condannato in contumacia all’ergastolo.

Negli ultimi due anni, prima del nuovo arresto in Sudan, ha continuato indisturbatamente i suoi loschi traffici. L’Olanda ha chiesto a Khartoum la sua estradizione per traffico di esseri umani tra l’Africa e l’Europa”.

E l’Italia persevera.

L’annuncio: Lunedì 6 febbraio alle 18 al Cantiere Navale Vittoria di Andria (provincia di Rovigo) 

si svolge la cerimonia di consegna alle autorità libiche di una motovedetta classe 300 di nuova fabbricazione, nell’ambito del progetto europeo Sibmill. Lo rende noto la Farnesina. 

Al termine della cerimonia è previsto un punto stampa congiunto del vicepresidente del consiglio e ministro degli Esteri e della Cooperazione Internazionale, Antonio Tajani,  della ministra degli Esteri libica, Najila El Mangoush, e del commissario europeo per l’allargamento e la politica di vicinato, Olivér Várhelyi.

«Stiamo lavorando perché ci sia una strategia a lungo termine che veda coinvolti tutti i Paesi del Nord Africa, i Paesi da dove partono i flussi migratori. Con un’azione che possa usufruire della cooperazione italiana per favorire la crescita del continente africano» ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani durante un evento a Milano. «Lunedì pomeriggio sono ad Adria in Veneto per consegnare al governo libico le nuove motovedettedella Guardia di Finanzafinanziate dall’Ue. Le affidiamo ai libici perché possano pattugliare e contrastare i mercati di esseri umani».

Se ne fa vanto, il titolare della Farnesina. Pur sapendo che quella motovedetta servirà alla cosiddetta Guardia costiera libica per intercettare e ricacciare nei lager libici migliaia di persone. Ma questo il ministro Tajani lo sa bene. E se ne fa vanto. 

Un consiglio: Signor ministro, legga il libro di Scavo. E poi rifletta. 

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