Biden ha un piano: la Nato mediorientale
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Biden ha un piano: la Nato mediorientale

Il Medio Oriente non sta aspettando Biden”. E soprattutto, non appare disposto a dar corpo al disegno del presidente americano: quello di realizzare una sorta di Nato mediorientale. 

Biden ha un piano: la Nato mediorientale
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10 Luglio 2022 - 12.48


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Joe Biden è prossimo a visitare il Medio Oriente. Ma “il Medio Oriente non sta aspettando Biden”. E soprattutto, non appare disposto a dar corpo al disegno del presidente americano: quello di realizzare una sorta di Nato mediorientale. 

A tratteggiare, con la consueta profondità analitica e capacità prospettica, il senso e le prospettive dell’intensa missione diplomatica che, nella settimana entrante, porterà l’inquilino della Casa Bianca nelle più importanti capitali arabe e in Israele, è Zvi Bar’el.

Il titolo della sua analisi è, per l’appunto, “Il Medio Oriente non sta aspettando Biden. E su Haaretz ne illustra le ragioni:” Il Primo Ministro iracheno Mustafa al-Kadhimi è stato molto impegnato nelle ultime settimane. Dieci mesi dopo le elezioni parlamentari, la politica interna è ancora bloccata da controversie che hanno impedito la nomina di un presidente che chiederà a un candidato di consenso di formare un governo.

Il presidente dovrebbe provenire da uno dei due principali partiti curdi, l’Unione Patriottica del Kurdistan e il Partito Democratico del Kurdistan. Ma sono storicamente rivali e non sono vicini a un accordo. Il blocco guidato dal separatista sciita Muqtada al-Sadr si è dimesso dal Parlamento e gli altri partiti sciiti sono divisi tra sostenitori e oppositori dell’Iran. Il Paese sta operando senza un bilancio approvato, il suo debito continua a crescere e le proteste di piazza si intensificano mentre le temperature superano i 40 gradi Celsius (104 Fahrenheit) e non c’è un’unica soluzione. Ma al-Kadhimi, che non sa se rimarrà primo ministro, ha ora un nuovo hobby. Ogni pochi giorni annuncia un importante sviluppo diplomatico prodotto dalla sua efficace mediazione. L’ultimo annuncio, diramato questa settimana, è che l’Iran e l’Arabia Saudita intendono tenere un nuovo ciclo di colloqui, il sesto, nei prossimi giorni; questa volta saranno i ministri degli Esteri, o almeno i viceministri degli Esteri. Se ciò si rivelerà vero, i due Paesi potrebbero annunciare la riapertura delle ambasciate e il ripristino delle relazioni diplomatiche, interrotte nel 2016. L’Iran ha già confermato che questo è il piano e i sauditi non hanno smentito. Riyadh ha detto che restano da risolvere alcune questioni, ma a quanto pare queste potrebbero essere risolte anche dopo il ristabilimento delle relazioni diplomatiche. Si tratta ora di capire se questi colloqui avranno luogo prima che il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden atterri a Riyadh il 16 luglio. La tempistica dei colloqui – e ancor più l’eventuale ripristino delle relazioni diplomatiche – avrà un significato strategico. Dopo tutto, quando il Presidente degli Stati Uniti intende forgiare un’alleanza arabo-israeliana-americana per contrastare l’Iran, è difficile conciliare il rinnovo delle relazioni saudite-iraniane con questo piano. Al-Kadhimi, incoraggiato dal successo ottenuto nell’ospitare le delegazioni iraniane e saudite, sta ora mettendo alla prova la sua forza in altri settori. Il suo ministro degli Esteri, Fuad Hussein, ha dichiarato ad Al-Arabiya che l’Iraq sta ospitando incontri tra delegazioni iraniane, egiziane e giordane nel tentativo di riparare le relazioni.

Pochi giorni dopo, il quotidiano londinese Al-Araby Al-Jadeed ha riferito che alti funzionari egiziani e iraniani si sono incontrati in Oman a fine giugno, a margine della visita del presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi. Sisi è arrivato a capo di una folta delegazione che comprendeva il ministro degli Esteri Sameh Shoukry, il capo dell’intelligence Abbas Kamel e il ministro dello Sviluppo economico Hala Elsaid.

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L’Egitto ha rifiutato di commentare questa notizia, mentre il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian ha negato che si siano svolti colloqui diretti. Tuttavia, in una conferenza stampa tenutasi domenica a Damasco, ha sottolineato che “l’Egitto è un Paese importante per il mondo musulmano e per il mondo intero, e pensiamo che l’espansione dei legami tra Teheran e Il Cairo sia nell’interesse di entrambi i popoli”. Dalla Rivoluzione islamica iraniana del 1979, le relazioni diplomatiche tra i due Paesi sono state relegate al livello di sezioni di interesse. Per decenni, ad eccezione del breve periodo in cui Mohammed Morsi è stato presidente dopo la Primavera araba, l’Egitto ha respinto le proposte iraniane di normalizzazione dei rapporti.

Non è detto che l’Egitto intenda cambiare questa politica ora. Ma se l’Arabia Saudita decidesse di ripristinare le relazioni diplomatiche con l’Iran, anche questo potrebbe influenzare le decisioni del Cairo.

L’Egitto, che parteciperà al vertice arabo di Gedda convocato da Biden la prossima settimana, dovrà decidere se aderire al meccanismo di cooperazione militare regionale previsto dal presidente americano. I media arabi, citando fonti militari egiziane, affermano che la leadership militare egiziana si oppone con veemenza a qualsiasi coinvolgimento dell’Egitto in un’alleanza militare contro l’Iran e che Sisi condivide tale opinione.

Di conseguenza, si prevede che al vertice l’Egitto si accontenterà di una dichiarazione generale del tipo “l’Egitto sarà al fianco degli Stati del Golfo contro qualsiasi minaccia alla sicurezza”, evitando di impegnarsi a inviare truppe o a partecipare a una campagna contro l’Iran. Secondo le fonti militari egiziane, Sissi ha chiesto al sovrano dell’Oman di inviare questo messaggio di rassicurazione a Teheran.

I timori dell’Egitto

Allo stesso tempo, l’Egitto partecipa a una forza di 34 Paesi che gli Stati Uniti hanno formato in aprile per proteggere il Mar Rosso dagli attacchi dei pirati. Ma il Cairo teme che questa forza, che conduce anche manovre congiunte, possa espandere le sue operazioni per colpire le navi iraniane che, secondo le agenzie di intelligence occidentali, traghettano armi e altre attrezzature militari attraverso il Mar Rosso agli Houthi nello Yemen.

Quando questa settimana il ministro della Difesa Benny Gantz ha mostrato le fotografie aeree di quattro navi iraniane nel Mar Rosso, aggiungendo che rappresentano una nuova e “massiccia” presenza militare iraniana, non ha menzionato che le navi da guerra iraniane navigano in quel mare da un decennio e che le navi sono vecchie, costruite nei primi anni Settanta. Nel frattempo, a febbraio l’Iran ha annunciato che la sua marina era lì per scortare le proprie navi da carico e che il mese precedente una nave da guerra iraniana aveva salvato una nave da carico attaccata dai pirati.

A maggio, la marina israeliana ha condotto un’importante esercitazione nel Mar Rosso “per garantire la supremazia navale e la sicurezza marittima di Israele” – come ha detto il capo della marina – e inviare un messaggio all’Iran. Allora perché Gantz ha improvvisamente messo in evidenza le attività navali dell’Iran?

L’Egitto è sospettoso delle dichiarazioni di Gantz, temendo che possano indicare l’intenzione di aprire un nuovo fronte contro l’Iran nel Mar Rosso. Questo potrebbe trascinare le forze egiziane o mettere il Paese a rischio di attacchi Houthi.

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L’apertura di un fronte nel Mar Rosso potrebbe anche mettere i sauditi in una posizione scomoda. A marzo, gli Houthi hanno lanciato missili e droni contro l’Arabia Saudita e hanno colpito un impianto petrolifero di Aramco. Meno di un mese dopo, il 2 aprile, gli Houthi e Riyadh hanno annunciato un cessate il fuoco sotto gli auspici delle Nazioni Unite, con il sostegno dell’Iran.

La tregua è ancora in vigore, ma qualsiasi provocazione nel Mar Rosso potrebbe farla saltare e riportare l’Arabia Saudita sulla lista dei bersagli degli Houthi. Biden, che cerca di porre fine agli otto anni di guerra nello Yemen, dovrà decidere come conciliare gli interessi sauditi ed egiziani nei confronti dell’Iran con il suo piano di formare un’alleanza militare regionale contro l’Iran.

A quanto pare, anche il Qatar rifiuterebbe di unirsi a tale alleanza. È uno dei principali partner commerciali dell’Iran; i due condividono il più grande giacimento di gas naturale del Golfo Persico. Ma è anche uno dei principali alleati americani non appartenenti alla Nato.

Mercoledì, pochi giorni dopo aver parlato con il Segretario di Stato americano Antony Blinken, il Ministro degli Esteri del Qatar Mohammed bin Abdulrahman Al Thani si è recato brevemente a Teheran per cercare di rilanciare i colloqui su un nuovo accordo nucleare. Il mese scorso, il Qatar ha ospitato a Doha le delegazioni americane e iraniane ai colloqui sul nucleare, ma l’incontro si è concluso senza risultati né una data fissata per un altro incontro. Al Thani non ha detto nulla sui risultati del suo ultimo viaggio a Teheran, ma sembra probabile che il Qatar, su richiesta di Washington, continuerà a mediare con l’Iran finché quest’ultimo non fisserà una scadenza per la conclusione dello sforzo diplomatico.

Gli americani sostengono che l’Iran abbia avanzato richieste non correlate all’accordo nucleare. L’Iran respinge questa accusa, affermando di essere alla ricerca di un accordo che “servirà ai popoli della regione”.

Ma la diplomazia navetta del Qatar avrebbe difficoltà a continuare se il Paese si unisse a un’alleanza militare contro l’Iran – a maggior ragione se ne facesse parte Israele.

Una Nato contro l’Iran?

Biden arriverà in un Medio Oriente che non sta aspettando una road map dettata dall’agenda americana. O, più precisamente, i leader arabi con cui Biden si incontrerà la prossima settimana cercheranno di capire come Washington intende allinearsi a questa rete di interessi locali.

La questione non è se gli Stati arabi si opporranno allo stazionamento di sistemi di difesa aerea americani o israeliani sul loro territorio o alla creazione di un meccanismo di cooperazione di intelligence. Tale cooperazione esiste già, compresi i sistemi di difesa aerea israeliani.

Il vero banco di prova sarà se questi Paesi sono disposti a impegnarsi nel principio di difesa reciproca, simile a quello della Nato, e se sono disposti a definire l’Iran come un nemico comune. Senza queste basi, è difficile capire come l'”alleanza” possa servire come meccanismo di difesa o addirittura come deterrente contro l’Iran.

Israele, che spera di stabilire relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita o almeno di compiere ulteriori passi verso la normalizzazione, può già vantare un importante risultato. Negli ultimi due anni è diventato parte integrante del Medio Oriente.

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Ma questa partnership ha anche un prezzo. Alcune delle ragioni dell’ammissione di Israele in questo club sono derivate dalla stretta relazione tra Benjamin Netanyahu e Donald Trump, che i leader arabi hanno sfruttato con notevole successo. Altre ragioni derivavano dal comune interesse per la difesa dall’Iran.

Ma ora Trump non c’è più, l’influenza di Israele alla Casa Bianca e al Congresso è diminuita e, per quanto riguarda l’Iran, i suoi rivali arabi hanno chiarito inequivocabilmente di preferire la diplomazia alla guerra. Ciò richiede che Israele non diventi un peso strategico, innescando un violento conflitto regionale con l’Iran e mettendo in pericolo i suoi nuovi alleati”.

Così Bar’el.

Un’analisi preziosa, dettagliata, fondata. Le cui conclusioni vanno ben al di là dello stesso scenario mediorientale. E abbracciano il mondo. E mettono in evidenza due elementi che segnano il presente e si proiettano in un futuro pieno di incognite e denso di oscuri presagi. Il primo elemento Globalist lo ha già rimarcato analizzando gli sviluppi, politico-militari, della guerra in Ucraina: gli Stati Uniti hanno avanzato un’opa egemonica sull’Europa attraverso l’allargamento della Nato. Un disegno strategico che non si riduce all’aspetto difensivo, di mutua assistenza nel caso di un’aggressione russa ad uno dei Paesi membri. Certo, questa paura ha motivato fortemente Finlandia e Svezia a chiedere in gran fretta l’ingresso nell’Alleanza atlantica. E di questo, come abbiamo scritto, il “merito” va attribuito esclusivamente a Putin, in una eterogenesi dei fini che ha pochi precedenti in geopolitica. Ma la Super Nato è per l’amministrazione Usa un modello di governance, un fine e non uno strumento, mondiale, che va esportato in altre aree cruciali del pianeta, a partire dal Pacifico per arrivare al Medio Oriente. E per poter realizzare questo disegno, Biden ha bisogno di agitare lo spauracchio del Grande nemico contro cui rinsaldare le fila. In Europa, quel nemico è la Russia. Nel Pacifico, la Cina. In Medio Oriente, l’Iran. 

E qui torniamo al titolo dell’articolo di Bar’el. Il Medio Oriente non sta aspettando Biden. Così come una parte dei potenziali alleati dell’Estremo Oriente. E questo per una ragione ben precisa. Perché tutti, chi più o chi meno, intendono che il “secolo americano” sta giungendo al termine. E che per allungarlo non basta restare l’iper potenza miliare mondiale. Le armi possono molto, è vero, ma non tutto. A svelare questa verità è la Cina. Il “Gigante” cinese è penetrato in Africa, “conquistando” Paesi senza sparare un colpo. Li ha conquistati economicamente. E il “modello cinese” sta invadendo anche il Medio Oriente. Come ben rimarcato dall’analista israeliano, mentre Biden era impegnato sul fronte interno e successivamente sul teatro europeo, in Medio Oriente il tempo non si è fermato, la diplomazia è andata avanti, nuove alleanze si sono determinate. E tutto questo senza passare per Washington o, quanto meno, senza doverne chiedere la luce verde, l’ok si può fare. L’America non può e non vuole, forse, tornare ad essere il “Poliziotto del mondo”. Ecco allora l’impellenza di costruire sistemi di alleanza regionali, sotto egida Usa, che si facciano carico dei costi della sicurezza planetaria. Le super Nato. Al plurale. 

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