2022: per non dimenticare quei conflitti "dimenticati"
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2022: per non dimenticare quei conflitti "dimenticati"

La pace ha bisogno di aggettivi. Perché da sola può voler dire tutto o niente. E deve fondarsi su pilastri solidi, senza i quali, la pace è come un castello di sabbia che il vento può spazzare via.

2022: per non dimenticare quei conflitti "dimenticati"
Profughi della guerra in Eritrea
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

1 Gennaio 2022 - 19.57


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La pace ha bisogno di aggettivi. Perché da sola può voler dire tutto o niente. E deve fondarsi su pilastri solidi, senza i quali, la pace è come un castello di sabbia che il vento può spazzare via.

I pilastri della pace

 “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace: le parole del profeta Isaia esprimono la consolazione, il sospiro di sollievo di un popolo esiliato, sfinito dalle violenze e dai soprusi, esposto all’indegnità e alla morte”. 

Lo scrive Papa Francesco, nel messaggio per la 55 esima Giornata Mondiale per la Pace. “Su di esso il profeta Baruc si interrogava: ‘Perchè ti trovi in terra nemica e sei diventato vecchio in terra straniera? Perchè ti sei contaminato con i morti e sei nel numero di quelli che scendono negli inferi?’. Per questa gente, l’avvento del messaggero di pace significava la speranza di una rinascita dalle macerie della storia, l’inizio di un futuro luminoso”, sottolinea il Santo Padre.

“Ancora oggi, il cammino della pace, che San Paolo VI ha chiamato col nuovo nome di sviluppo integrale, rimane purtroppo lontano dalla vita reale di tanti uomini e donne e, dunque, della famiglia umana, che è ormai del tutto interconnessa”, aggiunge Francesco.

Per il Pontefice “in ogni epoca, la pace è insieme dono dall’alto e frutto di un impegno condiviso. C’è, infatti, una ‘architettura’ della pace, dove intervengono le diverse istituzioni della società, e c’è un ‘artigianato’ della pace che coinvolge ognuno di noi in prima persona. Tutti possono collaborare a edificare un mondo più pacifico: a partire dal proprio cuore e dalle relazioni in famiglia, nella società e con l’ambiente, fino ai rapporti fra i popoli e fra gli Stati”.   

“Vorrei qui proporre tre vie per la costruzione di una pace duratura. Anzitutto, il dialogo tra le generazioni, quale base per la realizzazione di progetti condivisi. In secondo luogo, l’educazione, come fattore di libertà, responsabilità e sviluppo. Infine, il lavoro per una piena realizzazione della dignità umana. Si tratta di tre elementi imprescindibili per ‘dare vita ad un patto sociale’, senza il quale ogni progetto di pace si rivela inconsistente”, conclude Bergoglio.

Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato “pace”.

 In Siria, in Iraq, e cambiando latitudine, in Cecenia e per venire a giorni più ravvicinati, in Libia, in Afghanistan, nella dimenticata Palestina.  E se è vero, come credo che sia, che la sconfitta della sinistra, in tutte le sue declinazioni, che segna il presente, non solo in Italia, sia anzitutto una sconfitta culturale, l’affermarsi di una idea di pace senza aggettivi ne è una delle espressioni più devastanti. Di fronte alla quale, non c’è ritocco che regga. E’ un salto di mentalità, la sfida da affrontare.  

Una rivoluzione culturale

Una “rivoluzione” culturale prim’ancora che politica. Dalla “guerra giusta” alla pace giusta. .La pace non è assenza di guerra né può ridursi, come spesso e su vari quadranti mondiali è stato, alla ratifica dei rapporti di forza imposti sul campo di battaglia. La pace non è, o non dovrebbe essere, sinonimo di resa. Pace non significa soltanto assenza di conflitto evidente: soltanto una pace giusta, che si basi su diritti e dignità di ogni individuo, è una pace veramente duratura. Io credo che la pace sia instabile laddove agli esseri umani è proibito esprimersi, è tolto il diritto di parlare liberamente o venerare il Dio prescelto, viene impedito di scegliersi i propri governanti o di riunirsi senza timori per le conseguenze. Promuovere i diritti umani non significa soltanto esortare e caldeggiare. Ogni tanto a ciò si deve aggiungere un’azione diplomatica diligente e precisa. So che impegnarsi a trattare con regimi repressivi significa privarsi della purezza appagante dell’indignazione. Ma so anche che le sanzioni che non hanno seguito, le condanne senza discussione, possono implicare un paralizzante status quo. Nessun regime repressivo può imboccare una strada nuova, a meno di avere la scelta di una via di uscita, una porta aperta…”. .

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E’ una parte del discorso che l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, pronunciò a Oslo, il 10 dicembre 2009, in occasione del ritiro del Premio Nobel per la Pace. Non è questa l l’occasione per valutare quanto, nei suoi due mandati presidenziali, Obama sia stato fedele a questa importante riflessione. Fatto è che quelli che sono stati percepiti come i due grandi leader globali dei tempi attuali, Obama e papa Francesco, si siano cimentati con il tema epocale della pace giusta. Che per essere tale deve intervenire e incidere sulle cause che sono alla base del proliferare di crisi, conflitti regionali, disastri ambientali, crescita delle diseguaglianze tra i pochi che posseggono ricchezza e i Sud del mondo che ne sono espropriati. Riflettendo su una intervista di Papa Francesco sul tema della pace giusta, Pierangelo Sequeri annota su l’Avvenire: “Non si tratta solo di portar fuori il tema della legittima difesa dal contenitore semantico obsoleto della guerra giusta. Si tratta anche di non lasciare spazio ad un pacifismo generico e retorico dello ‘stare in pace’. L’orrore della normalità con la quale si praticano la crudeltà (‘Oggi i bambini non contano!’) e la tortura (col pretesto della sicurezza e della deterrenza), indica chiaramente che la soglia è superata. E nessuno può, con nessun pretesto, voltarsi dall’altra parte. L’umanesimo della pace giusta non si sottrae all’impegno di un difficile discernimento, alla fatica di una vigilanza incessante, al sacrificio generoso della presenza e della testimonianza che rischiano di persona, per attestare la persuasività e l’efficacia del perseguimento di mezzi alternativi alla guerra…”. 

Una pace giusta non contempla una verità assoluta, che nella Storia coincide il più delle volte con quella dei vincitori. E’ “giusta” una pace che riconosce i diritti dell’altro da sé. E che valorizza la parola “compromesso”. Scrive in proposito il grande scrittore israeliano Amos Oz: “Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. Una pace giusta parte da qui. Dalla lungimiranza del più forte, del generale che ha combattuto mille battaglie e proprio per questo è consapevole che la battaglia più difficile da vincere è quella per una pace giusta. Questa è stata la tragica grandezza di Yitzhak Rabin, il ministro della Difesa durante la prima Intifada che scandalizzò il mondo per aver giustificato i soldati israeliani che reprimevano brutalmente i giovani palestinesi lanciatori di pietre; ma era sempre il generale Rabin, diventato primo ministro d’Israele, a sbalordire il mondo accettando di stringere la mano al nemico di sempre, Yasser Arafat, perché la pace si fa con il nemico e con lui si apre un cammino di speranza. Rischiando tutto, compresa la propria vita. Perché la pace giusta non nasce da poeti o sognatori, ma da chi ha conosciuto le asprezze e gli orrori della guerra ed ha saputo non restarne succube. La pace giusta ha bisogno di una visione che vada oltre la contingenza di un angusto presente, di leader che sappiano andare controcorrente, non piegandosi all’umore del momento, finendo per cavalcare insicurezze o alimentando sogni di grandezza, ma avendo chiara la meta da perseguire e i valori da preservare.

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La pace giusta non può essere imposta dall’esterno, non la si esporta con le armi; essa ha bisogno di consapevolezza, di conoscenza, di un dialogo dal basso, del saper ascoltare e non limitarsi a sentire. Se ci guardiamo attorno, limitandoci ad annotare le balbettanti esternazioni dei Grandi della terra, dovremmo concludere che non c’è seme di una pace giusta su questa terra. Ma se si scava più in profondità, se si guarda ai movimenti carsici che agiscono dentro le società, che resistono a regimi brutali in nome di principi universali, allora il quadro si fa meno scuro, e la speranza torna a fiorire. La pace giusta non è una utopia, ma un sano principio di realtà. E’ un work in progress che unisce idealità e concretezza, intervento internazionale e crescita di esperienze, e professionalità, interne ai vari Paesi d’intervento. La pace giusta è anche questo. E si ripropone, drammaticamente, nell’approccio al tema delle migrazioni. Dire immigrazione significa, infatti, accendere un faro sulla disuguale distribuzione della ricchezza. In effetti, ben il 95% delle strutture produttive è posseduto da un sesto della popolazione mondiale. Con un reddito pro capite di circa venti volte inferiore a quello dell’Ue, l’Africa subsahariana dispone solo del 2,1% della ricchezza mondiale Resta ignorata, peraltro, la crisi alimentare gravissima che sta colpendo diversi paesi Africani, in particolare il Sud Sudan, il bacino del Lago Ciad e il Corno d’Africa, tra le maggiori zone di provenienza di profughi e rifugiati nel nostro paese. Qui, a causa degli effetti combinati di una grave siccità e dei conflitti che insanguinano alcuni paesi (Sud Sudan e Somalia in particolare), quasi 30 milioni di persone sono sull’orlo della fame.Hanno perso le loro fonti di sostentamento principali, bestiame ed agricoltura, perché non c’erano più acqua e cibo sufficienti, hanno attraversato a piedi intere regioni aride sfuggendo da Boko Haram o Al Shebaab o semplicemente cercando acqua per le proprie mandrie. Sono affamati, disidratati e senza prospettive, i bambini muoiono di diarrea sono 2 milioni quelli colpiti dalla fame, che rischiano di morire se non si interviene immediatamente. Ed è impressionante notare come vi sia una stretta correlazione tra diversi dei Paesi “saccheggiati” e quelli da cui provengono la maggioranza dei migranti sbarcati in questi giorni in Italia: Congo, Nigeria, Ghana, Mali, Gambia, Niger, Guinea, Sudan, Senegal, Bangladesh, Camerun Dal Corno d’Africa fuggono eritrei, etiopi, somali e sudanesi. Il caso degli eritrei è forse quello più eclatante. Secondo l’Unhcr ogni mese tremila eritrei lasciano il proprio paese. Fuggono da una dittatura spietata, la stessa Onu in un recente (durissimo) rapporto, definisce l’Eritrea come “la Corea del Nord dell’Africa”. 

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Qualche numero

A fornirlo, nell’editoriale di presentazione della decima edizione dell’Atlante delle guerre in corso, pubblicato da Terra Nuova Edizioni ed è curato dall’associazione culturale 46esimo Parallelo, .è il direttore responsabile  Raffaele Crocco: “I numeri scorrono implacabili davanti agli occhi. Sono i quasi 4,5 milioni di morti ufficiali a giugno 2021. Sono il miliardo di esseri umani che muoiono di fame. Sono i 270 milioni di persone costrette a emigrare per cercare un senso alla loro vita. Sono i 2 mila miliardi di dollari spesi per comprare armi. Sono numeri di un Mondo che non vuole guarire e che nella grande pandemia da Covid-19 ha trovato nuove ingiustizie, nuove ragioni di conflitto e guerra”.

Aumentano nel mondo le guerre ad alta intensità, cresce in tutto il pianeta il numero di persone che necessita di protezione e aumenta anno dopo anno anche la durata delle crisi umanitarie. È questo il complesso quadro descritto dal nuovo rapporto pubblicato da Edizioni San Paolo sui conflitti dimenticati e le diseguaglianze “Falsi equilibri. Le sfide della fraternità globale in un mondo segnato dalla pandemia” presentato a Roma da Caritas Italiana, in collaborazione con Avvenire, Famiglia Cristiana e ministero dell’Istruzione, alla vigilia della Giornata internazionale dei diritti umani. 

“Le guerre ad alta intensità sono 21, sei in più dal 2019 al 2020 – ha spiegato Paolo Beccegato in occasione della presentazione del  rapporto a Roma -. Questo dato, sommato a tutti i conflitti violenti, vede un aumento del 12% rispetto all’anno precedente e ci dice quanto le guerre violente siano in aumento nello scenario geopolitico contemporaneo”. Secondo Beccegato, è ancora una volta l’Africa subsahariana a presentare la maggior concentrazione dei conflitti ad alta intensità (11 su 21, ovvero più della metà), ma “tutti i continenti sono coinvolti – ha aggiunto -. Non c’è un angolo della terra in pace, però quelli più violenti sono combattuti in Africa”.

In particolare emerge che nel 2020 erano 21 le guerre ad alta intensità nel mondo, sei in più rispetto all’anno precedente, quando erano 15. Tra le più gravi lo Yemen, la Siria, il Sud Sudan. Con il conflitto nella regione etiopica del Tigray salgono a 22 nel 2021. Comprendendo tutte le crisi e escalation violente si calcolano 359 conflitti nel 2020, solo uno in più rispetto al 2019. Allarma poi l’aumento delle persone che hanno bisogno di aiuti umanitari, il 40% in più tra 2020 e 2021, pari a 235 milioni di persone coinvolte. Inoltre sono più che raddoppiati in 10 anni i rifugiati e gli sfollati, raggiungendo la cifra record di 82,4 milioni. Invece, come dato aggregato, la violenza politica su scala globale ha fatto registrare un minor numero di eventi violenti ma se si guarda ai singoli Paesi si osserva un aumento dei livelli di violenza nella metà degli Stati messi sotto la lente delle ricerche internazionali. Significativo è anche come, nonostante il crescente protagonismo di attori non-statali (milizie, paramilitari, bande armate, compagnie militari private ecc.), la maggior parte della violenza globale (52%) resta ascrivibile a forze statali. 2022: per non dimenticare i tanti conflitti “dimenticati”.

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