Dossier Egitto: i mille tentacoli dei servizi segreti di al-Sisi
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Dossier Egitto: i mille tentacoli dei servizi segreti di al-Sisi

L'apparato dedito al controllo, il fermo e l'arresto è un sistema intrecciato, complesso e a più livelli. Gli 007 lavorano alla raccolta e schedatura continua dei soggetti potenzialmente pericolosi

Prigione egiziana
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2 Gennaio 2021 - 16.57


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I mille tentacoli dei servizi egiziani. A darne conto è un rapporto di Human Rights Watch (Hrw).

La rete dei servizi di sicurezza egiziani

L’apparato dedito al controllo, il fermo e l’arresto è un sistema intrecciato, complesso e a più livelli. L’intelligence si divide in due rami: quella militare e quella civile. Entrambi lavorano alla raccolta e schedatura continua dei soggetti potenzialmente pericolosi: sindacati, politici di opposizione, giornalisti chiunque rappresenti, secondo i loro criteri, un pericolo per la stabilità del regime. Giulio Regeni è finito proprio nella rete dei servizi militari e civili per le sue ricerche sui sindacati egiziani e non ne è uscito vivo, sospettato di essere una spia è stato brutalmente assassinato. Accanto ai servizi segreti, c’è il Servizio di Sicurezza dello Stato (o Amn Al Watani), formato da diverse migliaia di uomini, a cui è affidato il compito di fermare, arrestare, incarcerare sulla base delle informazioni che i servizi segreti gli inviano. Nelle fasi di fermo del sospetto spesso ci sono anche poliziotti e i temutissimi baltageya: criminali assodati da boss della malavita locale che lavorano per conto del regime, utilizzati come sicari per minacciare oppositori e manifestanti. Ed è da qui, dallo stato di fermo di un sospettato, che ha inizio il viaggio all’interno del buco nero delle carceri egiziane, definite tombe da Hrw e la fine dell’umanità da Amnesty International.

La rete delle carceri

Liman Torah, Abu Zabal, Wadi Natron e Aqrab. Questi 4 complessi carcerari sono le principali destinazioni degli arrestati per motivi politici: oppositori, giornalisti, attivisti. Amnesty International in un breve documentario riporta testimonianze di prigionieri usciti o di familiari di detenuti che accusano le autorità carcerarie di maltrattamenti, percosse e abusi sessuali. Non solo, durante i processi diversi detenuti hanno accusato i secondini di torture subite con elettricità, acqua fredda e altre forme di coercizione fisica e psicologica.

Kareem Taha, uno dei detenuti intervistati nel report di Amnesty riporta questa testimonianza: “Dopo diversi giorni passati in cella in assoluto isolamento e dove mancava tutto: l’illuminazione, aria, servizi igienici, un letto e cibo, una notte sono entrati nella mia cella degli uomini col volto coperto, mi hanno strappato i vestiti con la forza e una guardia ha sfilato la cintura di cuoio e ha iniziato a picchiarmi in tutte le parti del corpo. Dopo un pò mi hanno ammanettato e mi hanno costretto ad inginocchiarmi e mettere la mia testa dentro un secchio usato nelle celle per defecare e raccogliere gli escrementi”.

Oltre alle carceri civili, in Egitto esiste una vasta rete di carceri militari suddivise tra il Nord dell’Egitto e il Sinai, che secondo al Jazeera sarebbero stati utilizzati come zone di detenzione all’interno del programma Extraordinary Rendition della Cia che ha coinvolto anche il nostro paese col caso Abu Omar. In totale 180 le carceri civili, 10 militari e circa 300 i punti di fermo e detenzione provvisoria presenti in tutto il paese, numero che è in continua crescita: un decreto del governo del 1956 infatti permette la costruzione di complessi detentivi senza limiti di numero e grandezza.

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La magistratura egiziana dal 2013 ad oggi ha emesso più di mille condanne a morte in attesa di esecuzione contro dissidenti politici. Il presidente-carceriere in un’intervista rilasciata all‘Indipendent, smentisce categoricamente che in Egitto ci siano detenuti per motivi politici.

Scrive Chiara Cruciani su Il Manifesto: “La Sssp ha trasformato l’Egitto in un enorme gruppo terrorista”. Così un avvocato che difende imputati davanti alla Procura suprema egiziana per la sicurezza dello Stato (Sssp) definisce uno degli strumenti più efficaci della complessa macchina della repressione imbastita dal luglio 2013 dal generale-presidente Abdel Fattah al-Sisi.

Parole affidate al dettagliato rapporto stilato da Amnesty International ‘Stato d’eccezione permanente’, 60 pagine che raccolgono 138 testimonianze e ridanno indietro un quadro preciso: il ruolo della Procura suprema nelle sparizioni forzate prima e le detenzioni politiche poi, fatte di abusi, torture, violazione dei principi di un equo processo.

Creata nel 1953, l’anno successivo al colpo di stato degli Ufficiali liberi contro re Faruq, la Sssp è parte integrante della Procura generale egiziana. Per intenderci quella che da anni promette collaborazione alla Procura di Roma che indaga, tra depistaggi e silenzi, sull’omicidio di Giulio Regeni.

La Sssp – che ha giurisdizione su Greater Cairo, l’area metropolitana della capitale, quasi 1.800 km quadrati e oltre 20 milioni di persone – ha il potere di investigare e perseguire tutte le attività considerate una minaccia alla sicurezza nazionale: terrorismo sì, ma anche manifestazioni di protesta, scioperi, assemblee. Lavora a stretto contatto con la National Security Agency (Nsa), i servizi segreti egiziani, l’ex Ssis: questi indagano in maniera indipendente o su ordine della Procura suprema, a cui poi passano i fascicoli; la Sssp emette il mandato d’arresto e i servizi lo eseguono. Scatta la detenzione preventiva, per un massimo di 150 giorni ma che può essere rinnovata senza limiti di 45 giorni in 45.

Come spiega bene Amnesty, ‘diversi procuratori della Sssp sono ex funzionari dell’Nsa, altri sono parenti del presidente al-Sisi e di alti funzionari del suo governo’. Una macchina della repressione efficiente e ben oliata che ruota intorno al presidente e ne esegue l’agenda, quella di annichilimento totale del popolo egiziano”.

L’inferno di Torah

“Complessivamente il penitenziario più grande e temuto dell’Egitto – racconta Pierfrancesco Curzi per il fattoquotidiano.it – è composto da 320 celle, equamente divise per i quattro blocchi ad H. La maggioranza di esse misura 2,5 metri per 3 e sono alte dai 3,5 metri a salire, ma ce ne sono anche di più grandi capaci di ospitare oltre 10 persone alla volta. Ogni cella ordinaria ha una finestra 90 per 80 centimetri e si affaccia o su altri edifici carcerari o sulle mura principali. Oltre alle brande, spesso senza materasso, e al gabinetto la cella dispone di una lampadina la cui accensione è regolata da una sala di controllo. Originariamente quelle più grandi erano state realizzate per ospitare due detenuti, ma l’aumento della popolazione carceraria ha costretto la dirigenza ad inserire più brande a castello. Ogni sezione dispone del suo refettorio e dello spazio esterno e i detenuti di un’area non si mescolano mai con quelli di un’altra. Nell’enorme città penitenziaria ci sono anche un campo da calcio e uno più piccolo multiuso nato originariamente come campo da tennis. Sulla parte retrostante dell’area di Tora è stata posta l’appendice per le celle di isolamento. Il cosiddetto ‘blocco disciplinare’ ne comprende sette, tutte senza finestre, dunque senza luce naturale e ventilazione. Non manca certo una sezione medica, una sorta di punto di primo soccorso, in grado di risolvere diagnosi elementari. I detenuti vengono trasferiti in uno degli ospedali cittadini solo quando non è possibile fare altrimenti. Spesso le richieste d’aiuto rimangono inascoltate. È successo nel maggio scorso al giovane regista Shady Habash, morto dopo aver ingerito del detersivo, non curato adeguatamente e lasciato in agonia dentro la sua cella”.

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Ed è in questo inferno in terra, nel “girone” più duro di Torah, che è stato segregato Patrick Zaki.

Stupri e violenze

“Le autorità egiziane sembrano voler battere il record regionale delle peggiori violazioni dei diritti delle persone Lgbt, mentre la comunità internazionale mantiene un silenzio spaventoso” dice Rasha Younes, ricercatrice sui diritti delle minoranze sessuali per Human Rights Watch. 

Il suicidio in esilio di Sarah Hijazi,  la ragazza lesbica che era stata violentata e torturata durante la sua prigionia in Egitto, ha sollevato un’ondata di indignazione che però, come succede quasi sempre, è durata pochissimi giorni. E così, nell’indifferenza generale, “l’Egitto ha continuato senza battere ciglio a perseguitare e aggredire le persone Lgbt solo e unicamente per quello che sono“, come dimostrano le 15 storie  di sconvolgente brutalità raccolte proprio da Hrw.

L’incubo in molti casi inizia all’improvviso: arrivano dei poliziotti e ti fermano per strada, in un ristorante, mentre fai la coda in banca. Ti arrestano perché il tuo aspetto non rispetta le aspettative di genere, sei troppo mascolina, troppo effeminato, il tuo modo di vestire o di muoverti ti fa sembrare trans o omosessuale. “Ripuliamo le strade da tutti i froci” hanno spiegato gli agenti quando hanno arrestato per la prima Salim, un ragazzo di 25 anni. “Una decina di poliziotti ha iniziato a picchiarmi da ogni lato – racconta il giovane – Poi mi hanno portato in una stanza minuscola, dove mi hanno fatto stare al buio in piedi, con mani e piedi legati con le corde, per tre giorni. Non potevo andare in bagno: me la sono fatta addosso, ho anche defecato nei miei vestiti“.

Aya, un’attivista per i diritti Lgbtqia (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali) di 28 anni, è stata arrestata dopo una manifestazione contro l’inflazione e accusata di “appartenenza a un gruppo terrorista con la finalità di interferire con la costituzione“. Anche lei ha subito un violentissimo pestaggio di gruppo da parte dei poliziotti, che poi l’hanno interrogata per dodici ore di fila e rinchiusa in un cella con altre 45 donne. Ma quello che ricorda con particolare terrore sono i cosiddetti “test di verginità”, forme di tortura che le forze dell’ordine egiziane utilizzano regolarmente per distruggere psicologicamente le donne che osano protestare contro il regime.

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“Un poliziotto mi ha costretta a spogliarmi davanti ai suoi colleghi – racconta Aya – Io singhiozzavo, ma mi ha fatto allargare le gambe e ha guardato dentro la mia vagina, poi nel mio ano. Mi ha costretta a farmi una doccia davanti a lui“. Un’altra volta “una poliziotta mi ha fatta spogliare, mi ha afferrato e strizzato i seni, poi mi ha afferrata per la vagina, ha aperto il mio ano e ci ha infilato la mano così in profondità che ho sentito come se strappasse qualcosa. Ho sanguinato per tre giorni e ho avuto difficoltà a camminare per settimane. Non potevo andare in bagno e ho iniziato ad avere problemi di salute, di cui soffro ancora oggi”.

La tortura destinata agli uomini sospettati di omosessualità è invece il test anale. Alaa e un suo amico, arrestati mentre facevano la coda in banca, lo hanno subito nel 2018: “Il medico legale ha inserito con la forza nel mio ano prima le dita, poi un oggetto. Non ho parole per descrivere quanto mi sono sentito umiliato. 

Alaa era già stato arrestato nel 2007 e aveva subito talmente tanti pestaggi e stupri durante la detenzione che ora riesce a muoversi solo con l’aiuto di una stampella. Nel 2018 ha mostrato la sua tessera di disabile ai poliziotti che lo stavano pestando, ma l’ufficiale di più alto grado gli ha risposto che poteva ‘ficcarsela nel culoe poi ha ordinato a un agente di infilarla davvero nell’ano di Alaa. Il poliziotto ha eseguito l’ordine senza fiatare.

Anche Hamed, 25 anni, è stato portato davanti a un medico legale per subire un test anale: “Mi hanno fatto spogliare e il medico mi ha infilato un oggetto nell’ano. Faceva così male che non riuscivo a smettere di urlare“. Per far cessare il dolore Hamed ha detto di avere l’Aids, al che il dottore ha preferito allontanarsi da lui. Il ragazzo era stato arrestato per strada da un poliziotto, che, quando ha scoperto che in passato era stato condannato per dissolutezza e prostituzione, gli ha requisito il cellulare per poi scaricarci sopra app di incontro per soli uomini e fotografie pornografiche gay. “Ti darò in pasto ai soldati, ti violenteranno uno dopo l’altro” era stata la promessa dell’agente, che ha anche fatto outing contro Hamed su internet.

Questo è l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi. Una spietata macchina della repressione. Un sistema tentacolare che penetra in tutti i segmenti della società egiziana. E ne soffoca ogni libertà. 

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