Il foreign fighter italiano: basta teste mozzate, voglio tornare a casa
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Il foreign fighter italiano: basta teste mozzate, voglio tornare a casa

Il racconto della zia di Monsef El Mkhayar, marocchino fuggito da Vimodrone per unirsi all'Isis

Decapitazione- immagine di repertorio
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9 Marzo 2017 - 18.01


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Molti hanno detto così. Ma anche qualcuno lo ha detto più per convenienza che per paura: non ce la faccio più a vedere gente sgozzata, teste mozzate e tutto questo sangue. Voglio tornare in Italia, voglio uscire da qui e scappare dalla guerra perchè non ho trovato quello che cercavo”. Sarebbe questo il contenuto della telefonata fatta circa 5 mesi fa da Monsef El Mkhayar, marocchino 21enne accusato di essere un foreign fighter dell’Isis e ora sotto processo a Milano con l’accusa di terrorismo internazionale. Destinataria del messaggio è la zia del giovane, ascoltata oggi come testimone nel processo milanese. La donna ha riferito come il nipote abbia ribadito la stessa volontà di tornare in italia un paio di giorni fa. “In questi giorni – ha detto – sarebbe voluto tornare, ma non ha potuto perchè in Siria è tutto bloccato. Speriamo che rientri tra una settimana”.

Monsef lasciò nel gennaio 2015 la comunità Kairos di Vimodrone, paese alle porte di Milano, e fuggì in Siria per per unirsi alle milizie dell’Isis insieme all’amico e coetaneo Tarik Aboulala, poi morto in combattimento. Secondo sua zia, due anni di guerra nel territorio del Califfato lo hanno convinto a tornare in Italia e a costituirsi: “L’altro ieri mi ha detto: ‘appena torno vado dalla polizia a raccontare tutto quello che ho visto: se mi condannano mi danno un anno o due. Io nel frattempo vi lascio mia moglie e mia figlia’”.

nquirenti e investigatori stanno cercando di capire se le intenzioni di Monsef di ritornare siano vere o meno o non nascondano invece la necessità di farsi inviare dalla zia altri soldi in aggiunta a quelli che, come ha lei stesso riferito in aula, gli sono già stati inviati: prima 4.000 euro “per la moglie” e poi 7.000 per il viaggio. Ma la donna, in aula, più volte ha assicurato che il nipote, a cui è molto legata, sta per rientrare: “Sarebbe voluto partire già in questi giorni ma in Siria è tutto bloccato. Noi lo aspettiamo per settimana prossima”. La volontà di “fuggire dalla guerra” e di ritornare lascia dei dubbi in quando stride con quel che il giovane aveva spiegato alla zia l’anno scorso, dopo che era stato “addestrato come i militari. In una delle conversazioni via WhatsApp, alle insistenze di lei affinché tornasse a casa, aveva risposto: “‘No, non torno – sono le parole di Monsef riferite dalla signora Malika – e se dovessi tornare mi faccio esplodere” E ancora: “‘Io non sono un terrorista, sto combattendo per Allah'”. Oggi al processo sono stati anche sentiti l’imam di Lecco, che come è noto aveva avuto dei contatti con il giovane su Facebook e aveva denunciato il tenore delle conversazioni, e la madre Fatima. Negli sms che si sono scambiati tra il 13 e il 25 aprile 2016, il giovane, andato in Siria con un amico, poi morto, nel gennaio dell’anno scorso e ora sposato e padre di una bimba, aveva affermato di “non volere più tornare. Quello che faccio non è un gioco. Vieni tu da me, qui si sta bene in tutti i sensi”. Si ritorna in aula il prossimo 13 aprile per sentire gli ultimi testi e la requisitoria del pm Piero Basilone, titolare delle indagini.

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