Molto social, troppo dark: il web e l'odio digitale
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Molto social, troppo dark: il web e l'odio digitale

l libro 'Molto social, troppo dark' di Roberto Bortone esplora l'odio online, impatti sociali e culturali nel web

Molto social, troppo dark: il web e l'odio digitale
Odio digitale
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25 Novembre 2023 - 02.11


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di Antonio Salvati

I boomer, come me, hanno sperimentato quanto la rete ha messo in crisi il tradizionale modo di apprendere e guardare alle conoscenze, di trasmetterle e di diffonderle. Si sono aperte nuove – potremmo dire infinite – opportunità, ma anche nuovi pericoli. Abbiamo assistito alla realizzazione di una nuova realtà, capace di dar vita a una mutazione antropologica – avrebbe detto Pasolini – impensabile solo pochi decenni prima, finendo per plasmare un nuovo uomo: l’uomo digitale. Di questo, e soprattutto anche d’altro, parla l’interessantissimo ed utile volume di Roberto Bortone, Molto social troppo dark. Tra hate speech, propaganda, metaverso e intelligenza artificiale: i rischi del web oggi (Fefè Editore, Roma 2023 pagine 546, euro 25,00)C’era una volta il Web, rete libera e felice in cui tutti potevano formarsi e informarsi esprimendo la propria opinione. E poi, un giorno, proprio al culmine della sua massima espansione social, preludio di una tecno-società del convivere, in Internet qualcosa è cambiato, e non in meglio. Ed eccoci qui, oggi, a parlare di post-verità, fake news e discorso d’odio. Con un sacco di domande aperte. Quale è il reale impatto del cosiddetto hate speech sulla percezione pubblica di fenomeni complessi come quello migratorio?  Quale è il ruolo dei social media nella odierna formazione dell’opinione pubblica? Per rispondere a queste domande è necessario chiedersi “chi” abbia influenza su “chi”: ovvero se siano i mass media tradizionali (carta stampata, televisione e giornali on-line) ad influenzare i network di socializzazione online (Facebook, Instagram, Twitter, Youtube, ecc..) oppure il contrario. La scelta di questo testo si snoda attorno all’idea che, nel decennio della disintermediazione e in piena rivoluzione digitale, il modello di business delle piattaforme online abbia sconvolto e modificato profondamente la formazione della sfera pubblica segnando un punto di non ritorno. Il saggio di Bortone – ricco e articolato – si muove tra la psicologia e la tecnologia, tra l’uomo e i numeri binari, indaga tanto la storia della rete quanto le problematiche connesse al cyberspazio, ai filtri e agli algoritmi, fino ai “big data” e alla progressiva trasformazione dell’universo digitale in senso più anarchico. Partendo dai risultati di una ricerca effettuata su circa 300 contenuti di odio on-line l’autore ha voluto mettersi nei panni degli haters, i nuovi coloni del Web. Cosa cercano? Quanti sono? Perché scrivono contenuti abominevoli? E’ possibile un nuovo ritorno agli albori del Web? Un volume che si concentra – ha osservato Marco Impagliazzo nella prefazione – sulla pericolosa saldatura che si attua on line tra la tecnologia e gli umori grezzi della “gente”, tra la libertà d’espressione e quel mix complesso che abita “il guazzabuglio che è il cuore umano” (Manzoni). In rete si confrontano da un lato «una straordinaria possibilità d’apertura, dall’altro una scioccante capacità di minacciare quella stessa apertura; tanto la libertà, quanto il suo contrario. Le varie forme di intolleranza, razzismo, odio etnico o ideologico che abbiamo conosciuto nei secoli possono ora raggiungere in un lampo, senza filtri, milioni di individui, interferendo con la costruzione del discorso pubblico senza quelle limitazioni (e autolimitazioni) che i media tradizionali erano stati spinti ad assumere». La “pancia” dell’umanità può piegare le dinamiche e gli algoritmi del web con una facilità impressionante, gettando benzina sulle contrapposizioni e sui risentimenti, incendiando le parole e i pensieri.

«Una volta era internet a cambiare il mondo. Oggi è il mondo a cambiare internet», ha sostenuto Geert Lovink, sociologo olandese studioso dei social media e dei processi connessi alla digitalizzazione della società. Ma è proprio così? Il Web subisce le spinte trasformative dalla società che lo utilizza oppure è vero il contrario? Una domanda assai impegnativa che accompagna il volume con l’obiettivo di analizzare le dinamiche che hanno determinato l’incontro (e lo scontro) di due grandi questioni sociali: da un lato lo scatenarsi ed il perpetuarsi delle varie forme di intolleranza e razzismi che abbiamo imparato ad accomunare sotto la categoria di “odio on-line” (hate speech), dall’altro quello della libertà di espressione, dei suoi confini, delle sue tutele e, soprattutto, delle sue opportunità all’interno della nuova sfera pubblica digitalizzata. nel mezzo Internet, appunto un “mezzo”, uno strumento. E la sfera pubblica digitalizzaza è come l’estuario di un fiume in cui si scontrano quotidianamente forze differenti, nuove, talvolta convergenti altre volte no. Bortone avverte che quando una cosa vecchia come «l’odio, ancestrale, primitiva ma mai sconfitta, si scontra con qualcosa di ultimativo come il web, con le sue dinamiche, i suoi filtri, i suoi algoritmi e le sue logiche cyber, possono succedere tante cose». Siamo di fronte a questioni la cui analisi esaustiva attraverserebbe i secoli e le discipline. Occorre individuare nuove categorie giuridiche e socio-antropologiche interpretative per meglio valutare l’intera galassia del web. Non sono sufficienti le medesime categorie del millennio appena trascorso. Anche quelle indicate del filosofo tedesco Jürgen Habermas risultavano già insufficienti nell’era pre-digitale, se si considera che per sua stessa ammissione, prima ancora dell’arrivo di Internet, «il grado di concentrazione economica e di coordinamento tecnologico-organizzativo nell’industria della stampa è basso a paragone con i nuovi mezzi di comunicazione del XX secolo: radio, cinema, televisione».

Ma oggi c’è più odio di ieri sui social media? Si, secondo innumerevoli studi. Per almeno due motivi. Da un lato perché come diceva Simone Wiesenthal «il connubio di odio e di tecnologia è il massimo pericolo che sovrasti l’umanità», è qualcosa di cui aver sempre paura, proprio in riferimento alla piccola tecnologia di tutti i giorni. Il processo di digitalizzazione della società è caratterizzato da continue accelerazioni dagli anni ’90 dello scorso millennio. Cresce in maniera vertiginosa ed oggi in un solo minuto su Internet accade questo: 5 milioni di ricerche inoltrate su Google (per un totale di 8 miliardi di ricerche giornaliere), 150 milioni di e-mail inviate, 2 milione di tweet, 70.000 ore di video guardati su Netflix, 40.000 ore di musica ascoltata su Spotify, 5 milioni di video visualizzati su YouTube. In mezzo a questi miliardi di contenuti – avverte Bortone – è ovvio che ci sia sempre più odio. Ma per la Rete e per le sue dinamiche di business, non si tratta necessariamente di spazzatura, anzi. La digitalizzazione, infatti, è stata accompagnata da una privatizzazione forzata del Web che l’ha reso sempre più accessibile a tutti, sebbene con livelli differenti. L’ “Old Wide Web” dei primi anni 2000 non esiste più, scomparso assieme al tipo di navigazione che ha la generazione X (i nati tra il 1965 e il 1979) e i millennials (nati tra il 1980 e il 1994) hanno sperimentato per anni tra forum, blog e siti di contro informazione. Oggi tutti abbiamo accesso a miliardi di informazioni, tutti possiamo produrne altrettante. In questo processo di fruizione-produzione (il termine inglese che lo sintetizza è quello di prosumer, dall’inglese producer e consumer) i contenuti che definiamo di odio o hate speech (insulti, minacce, discriminazione su base etnica, religiosa, di genere o sessuale, per citarne solo alcuni) hanno subito un salto quantico. Spiega l’autore che «quelli che definisco i nuovi coloni della rete, le Piattaforme digitali (e non mi riferisco solo a quelle proprietarie dei principali social media), nate nei garage della Silicon Valley capitalizzando le idee rivoluzionarie delle generazioni precedenti, mentre spingevano sempre di più gli utenti del Web a utilizzare “gratuitamente” i loro servizi, sono stati a loro volta popolati da questa tipologia di contenuti, o, per dirla meglio, hanno dovuto “cedere” una quantità di spazio all’interno dei propri territori all’odio massificato. In un primo tempo hanno cercato di sfruttarne la pervasività e la capacità virale, poi hanno provato ad aggirarlo e contenerlo, attraverso la definizione di policy di utilizzo sempre più stringenti (e aderenti alle normative nazionali). Ma era troppo tardi. Ed eccoci qui, oggi, a parlare di post-verità, fake news e discorso d’odio, radicalizzazione online, nuovi populismi, propaganda, ecc…».

Abbiamo la speranza di arginare tutto questo odio? Nel secolo scorso per preparare (normalizzare) la “soluzione finale” c’erano voluti molti anni di propaganda. L’indicazione e la creazione di un bersaglio è solitamente un processo graduale che si svolge attraverso diversi comportamenti: insulti, derisioni, minacce verbali, linguaggio d’odio; può procedere in discriminazioni, poi in violenza fisica e persecuzione, fino ai crimini d’odio. Le dinamiche dell’odio digitalizzato, tuttavia, conoscono altre dinamiche. Mentre i giganti tech delle piattaforme digitali erano impegnati ad accumulare miliardi di capitale raccogliendo, gestendo, interpretando e rivendendo i nostri dati personali come fosse un giacimento di petrolio senza possibilità di esaurimento, altri soggetti hanno compreso la forza – anche questa disruptive – che le dinamiche della Rete andavano definendo. Cambridge Analytica è stata una delle prime epifanie di questa capacità manipolatoria senza precedenti e senza confini, in grado probabilmente di influenzare elezioni democratiche di democrazie avanzate come quella statunitense con l’elezione di Trump o britannica con la Brexit. In questo senso il 2016 è considerato un anno spartiacque. Ma è stato solo l’inizio pubblico di una nuova era di propaganda digitale che ancora – osserva Bortone – facciamo fatica a comprendere. Per anni la dinamica sull’odio online è stata schiacciata – e in parte ancora lo è – tra la visione anglosassone del libero pensiero in libero mercato, del more speech against hate speech, e quella eurocentrica del “vietare” l’odio, del rimuoverlo, sanzionarlo. Senza mai davvero soffermarsi sull’odio in sé, su quei contenuti, su chi li produceva e soprattutto su chi stava per sfruttarli. E’ in questo vuoto interpretativo che si sono mossi gli attori dell’odio, coloro che hanno contribuito a creare l’odio digitale sono stati tra i primi a comprenderne il valore, a capirlo, monitorarlo, sfruttandone le dinamiche pervasive e virali, crescendo come un cancro all’interno degli immensi spazi lasciati incustoditi dai latifondisti delle piattaforme digitali, avvelenandone i pozzi, eruttando di odio all’interno delle camere dell’eco governate dagli algoritmi creati da ignari ingegneri, rendendo tutto davvero troppo dark.

Occorre, credo, arginare l’odio opponendo una resistenza. Culturale, innanzitutto. Partendo dalla domanda: possiamo vivere senza memoria e senza storia? La guerra in Ucraina che non è solo locale ma non ancora mondiale, nasce in un quadro di rivalutazione dello strumento della guerra per risolvere i conflitti. Dopo la fine della seconda guerra mondiale c’era la coscienza di una soglia tracciata che non andava superata. Come vivere senza memoria, in paesi intrisi di storia, che diventano illeggibili. Il pendolo – ha osservato Andrea Riccardi – tra memorie e dimenticanza, tra oblio e memoria, tra storia e dimenticanza, oggi scivola pericolosamente verso la dimenticanza. Questo vuol dire vuoto di identità personale. Nessuna visione del futuro, come se il futuro fosse arricchirsi per pochi e per i più sopravvivere. La memoria si è persa con la sua esternalizzazione, la marginalizzazione della storia come lettura, cultura, l’individualizzazione dell’esistenza, il sistema dei social sempre più avvolgente. Adriano Prosperi ha osservato, in un piccolo libro significativamente intitolato Un tempo senza storia, che all’affievolirsi del gusto della storia e della memoria, si accompagna a un diverso senso del futuro. L’Italia di ieri, quella della ricostruzione, del boom, aveva una grande fame, la fame di futuro e – spiega Riccardi – «la ricostruzione non è il fatto di una generazione ma il fatto plurigenerazionale, perché la memoria è un fatto plurigenerazionale: progresso, sviluppo, migliorare la propria situazione, cambiare la società, addirittura rivoluzione. Idee di futuro nate da aspirazioni di gruppi, generazioni, politiche, ideologie, tant’altro. Oggi ci manca il senso del futuro o ne abbiamo paura». Lo scrittore Sebastiano Vassalli sostenne che «immaginare il futuro è sempre più difficile. Fino a non molto tempo fa il futuro è un luogo dei sogni e delle speranze. Ora è il luogo delle paure».

Umberto Eco dieci anni fa lanciò un’idea semplice che oggi è veramente controcorrente: in un mondo in cui si è tentati di dimenticare ed ignorare troppo, la riconquista del nostro passato collettivo dovrebbe essere uno dei primi progetti del nostro futuro. Infine aggiunse: «la memoria è l’anima e l’anima cresce ricordando, trasmettendo e ascoltando». Non a caso, nella Bibbia ebraica, anima e memoria sembrano coincidere, perché il ricordo della storia rassicura un popolo sbattuto dagli eventi, esiliato, sperduto tra i giganti della storia. Contro la smemoratezza che ci priva del futuro, ci instupidisce e ci priva della libertà, non serve un decreto. Serve iniziare da noi, dall’entusiasmo della riconquista della memoria.

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